Afrin: l’incursione turca in Siria e la strategia di Erdogan
Qual è la situazione in Siria oggi
L’opposizione a Bashar al-Assad è nel caos ed è confinata a piccoli angoli disconnessi di territorio nel Paese.
Sono soltanto due gli attori locali strategicamente rilevanti sul terreno:
- il regime di Assad con i suoi alleati: Iran ed Hezbollah;
- le Forze Democratiche siriane (FDS) sostenute dagli Stati Uniti, dominate delle Unità di protezione del popolo curdo siriano (YPG)
Questa non è certo una situazione desiderabile o tranquillizzante per la vicina Turchia.
Sei anni fa quando la guerra civile in Siria s’intensificava, il presidente turco Erdogan avvisò Assad che i suoi giorni al potere erano contati e che, a meno che non volesse condividere lo stesso destino di Gheddafi, doveva dimettersi.
Oggi, con Assad trincerato a Damasco, Erdogan si dimena per recuperare una politica estera in Siria (e altrove). Una politica estera caratterizzata dal fatale errore di enfatizzare troppo l’influenza della Turchia.
La guerra civile siriana non ha cambiato nulla realmente per la Turchia. Più Ankara veniva trascinata nel complesso pantano alla sua frontiera a sud, più erano i costi in cui s’imbatteva.
Fondamentalmente non aver realizzato concretamente ciò di cui Erdogan si vantava e non essere stati in grado di costringere Assad a dimettersi, ha palesato i limiti dell’influenza della Turchia nel mondo arabo.
Per un breve periodo di tempo all’inizio della guerra civile in Siria, gli strateghi turchi si trastullavano con l’idea di poter manipolare magistralmente il caos siriano ed espandere il controllo turco alle regioni confinanti ed in questo modo, prevenendo ogni movimento di indipendenza curda, avrebbero anche limitato l’influenza iraniana.
Vi era una convinzione genuina che la Turchia avrebbe potuto creare un sistema di proxy dipendenti da essa alla frontiera con la Siria, come aveva fatto con i curdi iracheni ad Erbil. La Turchia immaginava una buffer zone (zona cuscinetto) che si estendesse dal nord della Siria al nord dell’Iraq che avrebbe avuto relazioni politiche, di sicurezza ed economiche più strette con Ankara che con Damasco o Baghdad.
Questa strategia gli si è ritorta contro in maniera spettacolare. Sia in Siria che in Iraq, sono i curdi e gli iraniani che ora hanno la meglio. I curdi sono direttamente sostenuti dalle forze armate statunitensi, mentre le milizie alleate dell’Iran hanno fermamente consolidato se stesse come forze di sicurezza parallele in Siria ed in Iraq.
Le carte in mano ad Ankara per sfidare in maniera diretta l’Iran o i curdi sono limitate.
È vero che la Turchia ha sviluppato legami stretti con alcuni elementi di quello che resta del Free Syrian Army, così come con famiglie influenti all’interno della classe politica sunnita irachena. Tuttavia non ha abbastanza influenza sul terreno per alterare l’ambiento politico e di sicurezza che si sta formando in entrambi i Paesi.
Afrin
Il Segretario di Stato degli Stati Uniti, Rex Tillerson, la scorsa settimana si impegnava ad una presenza indeterminata degli Stati Uniti nell’est della Siria con l’obiettivo ambizioso di prevenire il ritorno dell’Islamic State (IS), ma fondamentalmente per negare all’Iran un corridoio nel Mediterraneo e rimuovere il regime di Assad.
Nel frattempo, uno dei partner più importanti degli Stati Uniti, la Turchia, lancia una incursione militare, del tutto nuova, che ha come obiettivo le forze sostenute e finanziate dagli americani.
Tutto ciò avviene dopo che gli Stati Uniti annunciano dei piani per una nuova “forza di frontiera” che avrebbe addestrato e legittimato ulteriormente elementi delle FDS, la grande coalizione curda di milizie locali nell’est della Siria che era strumentale alla sconfitta territoriale dell’IS. I funzionari statunitensi hanno cercato, rapidamente, di ammorbidire il linguaggio dopo che l’annuncio aveva provocato l’ira di Erdogan, che pubblicamente aveva denunciato il piano e promesso di fermare questo esercito del terrore prima della sua nascita.
La minaccia turca è il culmine di anni di tensione con Washington sulla politica siriana in generale, e le divergenze su come meglio combattere l’IS.
La Turchia si è preparata per più di un mese, apertamente, per la nuova offensiva, fin da quando ha avuto ragione di credere che il Presidente Trump avrebbe potuto promettere ad Ankara il taglio degli aiuti alle forze alleate dei curdi.
La scorsa settimana, le forze turche hanno iniziato a bombardare obiettivi turchi lungo la frontiera e condurre attacchi aerei, poi l’inizio dell’invio di truppe e delle forze del Free Syrian Army.
Il nome dell’operazione “Ramo di oliva”.
I curdi siriani hanno cercato di costruire una rete di partner internazionali, incluso la Russia, per rafforzare se stessi contro la minaccia di una incursione turca. Ma la Turchia ha iniziato il suo assalto nel fine settimana scorso e la Russia ha ritirato le sua truppe dalla provincia Afrin.
I russi hanno richiamato alla moderazione e dichiarato che si sarebbero uniti al regime di Assad nell’opposizione all’intervento turco nel consesso delle Nazioni Unite. La risposta degli Stati Uniti è stata simile. La Francia vorrebbe che si riunisse d’emergenza il Consiglio di Sicurezza, ma Erdogan ha dichiarato che l’operazione continuerà ad avanzare fino a quando non sarà raggiunta Manbij, aggiungendo di avere un accordo con gli “amici russi” e di averne anche discusso con le forze della coalizione e gli Stati Uniti.
Le forze curde hanno dichiarato ai giornalisti di essere riusciti a gestire e respingere l’assalto, fin ora, ma che i bombardamenti e gli attacchi aerei hanno colpito i quartieri civili.
Gli scontri potrebbero minare il nuovo piano per la Siria degli Stati Uniti che comporta uno spiegamento indefinito delle truppe americane – al momento ne sono presenti 2,000 nell’est Siria – per sostenere i partner locali. Il piano formerebbe una buffer zone che preverrebbe l’Iran dallo stabilire un canale da Teheran a Beirut, una politica che funzionari israeliani e alcuni ufficiali della difesa americana hanno raccomandato per più di un anno.
Quello che Tillerson non è stato in grado di spiegare è come la presenza di 2,000 truppe americane e l’addestramento delle forze di sicurezza locali nell’est della Siria potrebbero muovere il conflitto nella direzione di una risoluzione o Bashar al-Assad verso l’uscita.
Quale corso d’azione permetterebbe alla Turchia, presumibilmente, di raggiungere i suoi obiettivi operativi?
Gli obiettivi operativi turchi consistono nella messa in sicurezza della frontiera turco-siriana, l’isolamento della città di Afrin, il controllo della base aerea di Menagh, assicurarsi delle linee di comunicazione di terra, e stabilire una nuova linea avanzata di truppe che gli servono come futura linea di “de-intensificazione” con le forze a favore del regime di Bashar al Assad incluso la Russia.
Gli ufficiali turchi hanno anche dichiarato che attaccheranno la città del YPG Tel Rifaat. Potrebbero perseguire una seconda fase dopo aver raggiunto i loro obiettivi primari. Tel Rifaat è una priorità per i gruppi di opposizioni pro-Turchia, ma non critica per gli obiettivi della Turchia.
L’obiettivo degli Stati Uniti è presumibilmente quello di prevenire la Turchia dall’attaccare la città di Manbij, più ad est vicino al fiume Eufrate, dove sono presenti le forze statunitensi.
A corto di potenti proxy sia in Siria che in Iraq, Ankara deve scegliere.
La Turchia ha scelto di lavorare provvisoriamente con l’Iran – il quale ha interesse a tenere il nazionalismo curdo sotto controllo – piuttosto che esporsi alla minaccia di un ostile presenza curda di lungo termine sulla sua frontiera.
Ankara si è resa inevitabilmente conto che non può sperare di contenere le ambizioni di statualità curde senza lavorare anche con le autorità di Damasco o Baghdad, entrambe sempre più alleate dell’Iran. Ciò renderebbe in qualche maniera fisse le relazioni turco-iraniane, almeno geo-strategicamente.
La Turchia continuerà a bilanciare il suo strisciante affidamento all’Iran con i suoi legami con la Russia e gli Stati Uniti, i quali hanno del resto i loro propri interessi in Siria. Sviluppando dei legami con tutti e tre i Paesi, Ankara vuole poter dire qualcosa su come si svolgeranno le fasi finali della guerra in Siria.
La Turchia ha fortemente investito nel processo di Astana guidato dalla Russia per stabilire le cosidette “zone di de-intensificazione” in Siria. Per tenere i russi lontani dall’orbita dell’Iran, Ankara sta intensificando i suoi legami economici e commerciali con Mosca nelle industrie strategiche. Agli inizi del mese, il presidente russo Putin ha dichiarato che la prima centrale nucleare turca sarà completata nel 2023. (con un cospicuo finanziamento russo di circa 20 miliardi di dollari)
Se questo approccio pragmatico avesse successo, la Turchia spera di influenzare a proprio vantaggio la situazione per recuperare un po’ dell’influenza persa nel più ampio Medio Oriente. Erdogan vuole riposizionare la Turchia come un mediatore, che sia nelle tensioni regionali tra l’Iran e l’Arabia Saudita che adesso si palesano in Libano, o il continuo litigio tra il Qatar e i suoi vicini del Golfo, l’instabilità in Libia o in altri Paesi.
Tutto ciò però richiede uno status regionale ed un’influenza. I calcoli errati della Turchia in Siria l’hanno erosa come capitale geopolitica nella Regione. Per dirla in altre parole, più Erdogan consolida il suo potere “in casa” nel nome della stabilità, più la Turchia brucia la sua reputazione di “modello per il Medio Oriente”.
Erdogan, nel tentativo di sistemare quest’immagine (sebbene sia stato proprio lui a distruggerla), manterrà probabilmente legami con alleati più vicini da un punto di vista ideologico, come la Fratellanza musulmana e i suoi rami nella Regione. Tuttavia forse lui trascura il fatto che fin dalle rivolte del 2011, i gruppi islamisti allineati con la Fratellanza musulmana non solo sono stati sconfitti sul campo di battaglia siriano, ma sono stati indeboliti severamente da regimi autoritari in tutto il mondo arabo. Per cui anche questa possibile strategia, qualora scelga di utilizzarla, non lo porterà molto lontano.
Futuro probabile per la Turchia
La via più probabile che si prospetta, per il futuro, per la Turchia, è una strategia mista di pragmatismo regionale – che comporta compromessi economici e politici, il bilanciamento di alleanze geopolitiche rivali e nel breve periodo la diplomazia tattica – completata da impegni ideologici continui con gli alleati che nutrono le sue stesse opinioni. Può sembrare complicato, questo perché lo è e riuscirci non sarà facile.