Dicembre 4 2024

Hamas é distrutto?

Hamas distrutto

Il futuro di Hamas, non è determinato in maniera totale, dalla capacità militare e politica, ma anche dalle posizioni degli Stati Uniti e degli attori regionali, che fondamentalmente giocano il ruolo più importante nel plasmare il futuro del movimento.

Dal pieno controllo della striscia di Gaza nel 2007, Hamas si è impegnato a consolidare il suo governo in termini di sicurezza e di governance, mentre contrasta gli sforzi israeliani tesi a indebolire e contenere il movimento. Tali sforzi israeliani includono il blocco aereo, marittimo e di terra quasi totale su Gaza, con l’eccezione di piccole forniture umanitarie controllate e le successive guerre nel 2008, 2009, 2012, 2014, 2018 e 2021 che hanno mantenuto le capacità militari di Hamas nei limiti. Politiche costruite per esacerbare le difficoltà della popolazione a Gaza allo scopo di provocare una ribellione contro Hamas.

Sebbene tali strategie abbiano raggiunto un successo parziale, esse hanno fondamentalmente fallito nell’eliminare Hamas a Gaza. Non solo il gruppo è rimasto al potere, ma ha rafforzato le sue capacità militari, migliorato la sua burocrazia di governo, rafforzato la sua presenza politica all’interno della scena politica palestinese e ha accresciuto le sue alleanze regionali.

Dopo oltre un anno di conflitto, Hamas è stato indebolito nelle aree di comando e controllo militare, nella governance e nella leadership politica non solo perché ha perso Sinwar, ma anche Ismail Haniyeh il leader politico del gruppo al di fuori di Gaza assassinato dagli israeliani a Teheran.

Tuttavia, il movimento funziona ancora come una organizzazione unificata all’interno e all’esterno di Gaza, con una presenza a West Bank così come resta intatta la sua leadership politica al di fuori della Palestina.

Tutto ciò è più che significativo, dati i bombardamenti israeliani su Gaza, sostenuti da un massiccio e mai concluso rifornimento di armi e di sostegno intelligence degli Stati Uniti, che non è mai stato cosi intenso nella storia del conflitto.

Un altro aspetto importante per Hamas è il suo sostegno pubblico all’interno di Gaza, di West Bank e all’estero. Il gruppo è stato sempre vigilante a riguardo e in tutto il suo governo a Gaza ha sempre monitorato il sentimento pubblico per questa ragione.

Due dinamiche principali hanno guidato le fluttuazioni nei livelli di sostegno per Hamas:

  1. la sua posizione come movimento di resistenza contro Israele;
  2. il suo rendimento come partito al governo.

Alle volte, queste dinamiche hanno lavorato a scopi trasversali, con la resistenza che spingeva il sostegno popolare e la funzione di governo che lo minava.

Ricordo (brevemente) l’ideologia del movimento Hamas. Perchè la differenza è tutta qui. Il terrorismo è una tecnica, una tattica, un metodo di violenza politica utilizzato da gruppi estremisti violenti, di qualsiasi ideologia (estrema destra, estrema sinistra, ambientalisti, religiosi, single issue). Per contrastare tali tipologie di gruppo, si può e si deve agire sulla tecnica, vale a dire il terrorismo. Tuttavia, come abbiamo visto per altri gruppi di questo tipo, il contro-terrorismo non porta allo scioglimento del gruppo, alla fine, anzi casomai è vero il contrario anche quando gruppi si scogliono e si riformano sotto altri nomi. (Ne parlerò in un altro post). Dunque, se quello che si vuole raggiungere è l’obiettivo di sciogliere questi gruppi in modo definitivo, ciò che bisogna contrastare è l’ideologia. Essere persuasi che i gruppi estremisti violenti religiosi, come Hamas, ad esempio, non abbiano ideologia e che siano solo “terroristi” (un giorno scriverò di quando sia improprio questo termine), li lascia fiorire, splendere agli occhi di chi si identifica con quella ideologia che conosce, quindi più reclute e possibilmente più alleati e risorse.

L’ideologia di Hamas non è così significativamente diversa dagli altri gruppi islamici della regione, ad eccezione di quanto esso leghi stretto le traversie del territorio palestinese con la capacità dell’uomo di vivere in maniera retta e giusta davanti a Dio. Anche se il sistema di credo di Hamas è centrato sull’importanza della relazione tra uno Stato palestinese e la rettitudine morale, la loro ideologia non è interamente uniforme. Il territorio di cui ha bisogno non è per Hamas uno scopo strategico o politico, ma serve al compimento di un obbligo religioso, come disposto da Dio. L’intero fondamento ideologico della resistenza di Hamas è incastonato nella loro interpretazione del ruolo dello Stato. Lo Stato costruito per permettere all’Islam di fiorire, quando lo Stato è incapace di realizzare ciò, l’Islam è minacciato.

Attenzione! questa è una estrema sintesi dell’ideologia di Hamas. Se volete approfondire davanti a voi si aprono due strade: a. venire all’università nel mio corso, b. leggere una grande quantità di libri scritti da studiosi di questo gruppo che sono in vendita nelle migliori librerie.

Ogni formula politica che intenda affrontare il futuro politico di medio e lungo termine richiederà qualche forma di consenso ovvero un organo eletto. E quando il momento verrà Hamas sarà li.

Tale equazione governance-resistenza sembra aver plasmato la popolarità di Hamas durante l’odierno conflitto. Sebbene molti palestinesi abbiano ammirato la determinazione del gruppo e i risultati militari contro la forza armata più potente del Medio Oriente, hanno criticato il suo fallimento nel preparare i civili palestinesi agli effetti della guerra, incluso la loro protezione da Israele e assicurare un’adeguata fornitura di aiuto umanitario. Hamas si è battuto nell’ultimo anno per rimanere l’attore amministrativo ufficiale per la popolazione a Gaza, malgrado l’implacabile campagna militare israeliana di distruggere i suoi organi civili e la sua struttura.

Hamas non è cessato di esistere come un’entità funzionante, mentre il movimento è certamente seriamente indebolito su tutti i fronti, Israele non sarà in grado di eradicarlo completamente. La natura multipla di Hamas e la misura in cui è legato al tessuto sociale e religioso all’interno della popolazione palestinese gli fornirà spazio e ossigeno per ricostruirsi e riorientrarsi dopo la fine della guerra.

Anche se Hamas sarà totalmente neutralizzato in termini di capacità militare, rimarrà la sua presenza politica e sociale e la reputazione tra i palestinesi.

Il sostegno ad Hamas tra la popolazione palestinese cresce e decresce in diretta relazione con la disponibilità ovvero la mancanza di altre opzioni.

La mancanza di più di tre decadi di processo di pace, l’aumento dell’occupazione israeliana, le annessioni e la crescita di un sistema di apartheid, il senso di abbandono e umiliazione da parte della comunità internazionale, le difficoltà economiche sempre maggiori sia a Gaza che a West Bank, tutti questi fattori hanno portato molti palestinesi alla frustrazione, alla disperazione e alla rabbia e fondamentalmente ad Hamas. Se questa continua ad essere la realtà che travolge ed inghiottisce i palestinesi, allora la ri-nascita di Hamas, o un suo rimpiazzo radicale che prende la stessa bandiera, sarà possibile.

Mentre ogni previsione è un azzardo proviamo a delineare alcuni scenari che probabilmente possono rappresentare delle prospettive per il dopo-conflitto.

A. Un movimento disarmato. Hamas è simultaneamente un movimento (violento) religioso-politico e un partito nazionale di resistenza, con uno dei due aspetti che prende il timone a seconda del contesto e delle circostanze. Se la parte della resistenza è repressa dopo la guerra, che sia attraverso la forza, che per scelta, il movimento molto probabilmente ri-orienterà le sue energie sul lato politico-religioso unitamente alla ricostruzione della sua struttura organizzativa. In questo caso una possibile versione di Hamas potrebbe essere una organizzazione non-militare che funziona come un movimento politico religioso simile ad altri partiti islamisti nella regione. Le aree di attivismo potranno includere la partecipazione alle elezioni e ai processi politici, l’impegno nelle resistenza non violenta e popolare contro Israele e sforzi per aumentare l’appartenenza al gruppo.

B. La distruzione del movimento e la nascita di più piccoli gruppi scheggia e molto probabilmente più radicali. Questo sarebbe lo scenario più oscuro per tutti, perché trasformerebbe Gaza in un’arena di caos senza fine. In questo caso conflitto e insicurezza non solo rimpiazzerebbero Hamas, ma potrebbero ripercuotersi a livello regionale a West Bank, in Israele, in Egitto e in Giordania.

C. L’indebolimento, ma non la distruzione di Hamas, che accetta una formula di divisione del potere in una Gaza post conflitto. La parte in cui si permette ad Hamas di essere parte del futuro di Gaza garantirebbe che il gruppo non adotti il ruolo di spoiler. Non è un piccolo prezzo, anzi, anche se drasticamente indebolito e militarmente neutralizzato Hamas potrebbe mobilitare efficacemente i suoi membri e rendere la vita insopportabile ad organo governante a Gaza .

Il 1 dicembre 2024, un membro dell’Autorità Palestinese conferma di un accordo preliminare tra Hamas e Fatah raggiunto a seguito di settimane di negoziazioni al Cairo. Un comitato di 12-15 membri la maggior parte di essi proveniente da Gaza. Sulla relazione controversa tra Hamas e Fatah ne scriverò nel prossimo post.

Novembre 29 2024

Conflitto israelo-palestinese si risolverà?

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Chi studia strategia, conflitti, ha una responsabilità non solo verso gli studenti nell’offrirgli strumenti validi ed utili per essere i futuri decisori politici, ma verso tutti quelli che non sono del settore perchè i conflitti contemporanei sono composti anche dalla sfera della società civile che non può sempre approfondire come facciamo noi analisti di politica internazionale ed è necessario che abbia a disposizione un quadro, un contesto, per potersi orientare e contribuire (sì anche se si è fisicamente lontani dal conflitto) alla trasformazione del conflitto, vale a dire che la contraddizione che ha innescato il ciclo di conflitto sarà affrontata e riconciliata in maniera tale che non sarà più l’innesco della polarizzazione e quindi della violenza.

La teoria dei conflitti, degli studi strategici, si avvale di anni di lavoro di studiosi provenienti da tutte le parti del mondo e non raramente sento dire: “eh la teoria…a che serve se poi in pratica non si realizza niente“… “eh la teoria è per insegnare, per lavorare serve la pratica“…“eh la teoria è per quelli che stanno seduti non per quelli che stanno sul posto a sporcarsi le mani“.

Per non ricalcare i discorsi (che io non sopporto) di quelli che elencano le missioni sul campo, mi limito a dire che:

nella mia esperienza professionale ho potuto constatare “sporcandomi le mani o i piedi” che senza la teoria che offre contesto e strumenti, la pratica risulta in qualcosa che, al meglio, è inefficace se non addirittura sortire l’effetto contrario a quello desiderato. Il punto è che se non sono consapevole delle dinamiche dei conflitti così come sono, non per quello che io immagino o percepisco in maniera soggettiva, non sarò in grado di individuare uno scenario che mi porti verso la risoluzione del conflitto stesso. Oppure ne individuerò uno che fallirà, o peggio non farò nulla perchè “non mi riguarda”. Anche solo veicolare una informazione adeguata, corretta e scientifica (eh si la strategia, la risoluzione dei conflitti, sono scienze) metterà in moto una serie di dinamiche e processi che altrimenti non troveranno spazio. La consapevolezza è una parte della risoluzione dei conflitti per quanto leggerlo potrà sembrarvi strano.

Il conflitto israelo-palestinese è un conflitto intricato.

I conflitti intricati sono quelli in cui tentativi di un contenimento pacifico, accordo e trasformazione hanno fallito (nei conflitti cosiddetti bloccati – frozen – vi è una qualcosa di simile ad una gestione pacifica, ma essa è superficiale ed è soggetta a collassare di nuovo).
I conflitti intricati sono stati oggetto per anni di studio da parte degli specialisti.
Nella risoluzione dei conflitti vi sono degli approcci sovrapposti :
– la negoziazione per un accordo politico;
– la risoluzione dei problemi interattiva;
– il dialogo per una comprensione reciproca;
La negoziazione per un accordo politico è associata con accordo di composizione di conflitto, il dialogo per una comprensione reciproca con la trasformazione del conflitto e la risoluzione dei problemi interattiva – storicamente il fulcro dell’approccio di risoluzione dei conflitti – costruisce un ponte tra le altre due.
Evidentemente la quintessenza di questo conflitto intricato è composta da molti elementi a diversi livelli ed è il punto fondamentale, primario della complessità sistemica di un conflitto transnazionale. Se deve essere fondamentalmente trasformato richiederà cambiamenti tra i settori – economico, politico, sicurezza, sociale, psicologico – e livelli – domestico, regionale, globale.

Consapevolezza del disaccordo radicale

Invece di licenziare dall’inizio il disaccordo radicale come un mero superficiale “dibattito antagonistico” , “dibattito competitivo”, dovremmo considerarlo seriamente come il principale impedimento alla complessiva risoluzione dei conflitti.
Dovremmo riconoscere che nei conflitti intricati, malgrado le considerevoli trasformazioni raggiunte con i gruppi di dialogo, con i workshop sul dialogo e la risoluzione dei problemi, non si è verificato un cambiamento sostanziale, vale a dire la contraddizione tra le parti in conflitto è rimasta tale.
La maggior parte degli israeliani e la maggior parte dei palestinesi hanno perso fiducia in questi approcci e nel dialogo per una comprensione reciproca, lasciando ampio spazio per una normalizzazione dell’oppressione che ignora l’asimmetria del potere.
Molti israeliani considerano tali approcci privi di scopo in ragione, dal loro punto di vista, della passata inaffidabilità dei palestinesi e in ragione di una più grande urgenza nell’affrontare altre questioni sia domestiche che estere.

Nei conflitti intricati la norma è la resistenza al contenimento, all’accordo e alla trasformazione, averne consapevolezza è il primo passo per individuare alternative.

Il dialogo agonistico come lo definisce lo studioso Ramsbotham, ovvero dialogo tra avversari è parte del disaccordo radicale in cui le parti in conflitto direttamente si impegnano nelle affermazioni reciproche. Il dialogo antagonistico non è altro che la guerra delle parole ad un livello più profondo.


Uno degli impedimenti più debilitanti è il gap tra le élite del processo decisorio e i livelli di società popolare. Ancora ed ancora accordi stipulati a porte chiuse a livelli di élite.
In direzione opposta, possibilità e visioni, idee al livello base della società con le sue radici che non penetra nelle gerarchie politicizzate di partiti o nelle istituzioni politiche ufficiali e di sicurezza. Questa è una delle principali ragioni del perché il processo di Oslo ha iniziato a perdere il momentum a metà degli anni 1990.

Si discute spesso di approcci dal basso, ecco se ne discute, senza la consapevolezza che il dialogo agonostico avviene tra le parti in conflitto, tra élite al potere. Il livello della società è tagliato fuori. La società è il livello base dove del resto il conflitto accade.

Sempre perchè la teoria deve necessariamente essere il ponte con la pratica, le persone che sono colpite da una bomba, sono parte di questo livello base che non penetra nelle gerarchie delle élite politiche. Le persone che devono spostarsi e poi sperare di tornare. Le persone che hanno perso tutto compreso i familiari. Anche le persone che non sono vittime della guerra, ma compongono il resto della società di una delle parti in conflitto, sono state ascoltate? Siamo sicuri che siano d’accordo con le élite al governo? Le abbiamo ascoltate, entrano negli scenari di risoluzione dei conflitti o sono solo notizie che poi vengono manipolate per il dialogo agonistico? Sono queste alcune delle domande da porsi.

La domanda a questo punto è: cosa servirebbe?

Gli studiosi hanno suggerito il “pensiero strategico”. Detto così, sembra qualcosa di estremamente bello a livello teorico, ma del tutto irrealizzabile nella pratica. Cosa ci faccio con questo impegno strategico, che vuol dire, praticamente che si deve fare?
Per iniziare tracciamo una importante differenza. La manipolazione strategica o pianificazione strategica è compiuta in segreto o in privato, accompagnata dall’esercizio controllato della persuasione del pubblico. Essa è caratteristica di versioni di “strategia” ideologica, partitico-politica e commerciale.

Un confronto tra possibili scenari che elencano tutti i vantaggi da una parte e tutti gli svantaggi dall’altra è chiaramente un segno caratteristico della manipolazione strategica perché le situazioni non sono quasi mai così nette.

Il pensiero strategico, in contrasto, valuta, confronta le opzioni strategiche e paragona i pro e i contro. Incoraggia in modo deliberato una critica dallo stile “avvocato del diavolo” delle strategie favorite, allo scopo di verificarle per debolezza e incoraggia la creatività conservando la flessibilità strategica.
Invece di iniziare tra le parti in conflitto iniziamo all’interno delle parti in conflitto.

Invece di iniziare dove terze parti vogliano che il conflitto sia, iniziamo dal punto in cui le parti in conflitto chiedono dove sono, dove vogliono andare e come vogliono arrivare lì.
Impegno strategico può aiutare a portare a galla questioni che altrimenti sarebbero scomparse dal radar pubblico.
Spesso il punto critico sia nella perpetuazione del conflitto che nel fallimento dei tentativi di risoluzione e nel suggerire possibili nuove configurazioni è: “tutti sanno come un accordo finale sarà” ed è ciò che si sente comunemente affermare nel conflitto israelo-palestinese.

L’impegno strategico mostra che nessuno sa come sarà un accordo finale. Questo è il problema. Anche in relazione ai dossier familiari nei tentativi ripetuti nel 2000, 2001, 2004, 2007, 2014 come la determinazione delle frontiere future, il legge di ritorno (diaspora ebrea) il diritto di ritorno (diaspora palestinese), lo status di Gerusalemme, gli accordi di sicurezza, la gestione delle risorse economiche, le concezioni restano in contrasto . Non vi è accordo su cosa voglia dire “stato palestinese”.
Il pensiero strategico apre ai possibili piani B, a possibilità future che per quanto remote possano essere – la soluzione due stati, la federazione con la Giordania – non entrano nel dibattito e anche se si rivelano essere catalizzatori critici nelle percezioni tra rischi e benefici, in realtà aprono al dialogo su qualcosa di nuovo che altrimenti resterebbe assente.

In sostanza, se io non propongo altri scenari, considerando l’ “interno” di ciascuna parte, proponendo varie possibilità, non avrò mai sul tavolo quello scenario per cui le parti converanno. Quello scenario per cui la contraddizione tra le parti in conflitto che ha generato la violenza sarà affrontata in maniera significativa, vale a dire non sarà più il punto da cui si aprirà la polarizzazione e tutto il ciclo del conflitto.

Se non considero l’interno di ciascuna parte, vale a dire chi e cosa vuole ogni componente di ciascuna parte in conflitto, non potrò elaborare nuove possibilità. Evidentemente considerare le parti in conflitto come blocchi monolitici sempre uguali a se stessi, ignorando che all’interno di esse vi sono altre parti, mi renderà intrappolato in un ciclo di conflitto che si ripete.


Affrontare l’asimmetria del conflitto


L’asimmetria quantitativa (una parte del conflitto è più grande dell’altra) pone problemi, ma essa è significativamente aggravata quando vi è anche l’asimmetria qualitativa (ad esempio una parte in conflitto è un governo e l’altra no). Questo significa che queste parti in conflitto stanno perseguendo obiettivi strategici interamente differenti. Ad esempio, la fondamentale questione strategica per Israele nel conflitto israelo-palestinese è: perché Israele dovrebbe arrendersi? Laddove la fondamentale questione strategica dei Palestinesi è: come possono i palestinesi trasformare lo status quo?
Al cuore del pensiero strategico vi è la questione dell’equilibrio del potere. Chi prevale? A chi è accordata più importanza tra le parti in conflitto?
Ci facciamo aiutare dal lavoro di Kenneth Boulding e Joseph Nye che ci dicono che esistono differenti tipi di potere da essere messi a confronto. Nel conflitto israelo palestinese, Israele ha una schiacciante forza militare ed economica così come il sostegno delle più grandi potenze mondiali. Ma anche i palestinesi hanno potere, il potere della legittimità internazionale, molto rafforzata nell’ultima decade, al punto che un gran numero di paesi sostengono il principio di uno Stato di Palestina. Come risultato la Palestina è già uno stato non-membro osservatore delle Nazioni Unite. Questo è un trionfo della strategia palestinese.

Anche qui, sono davvero consapevole di queste dinamiche di potere e strategia?


Chiarire il ruolo delle terze parti

Da una prospettiva di negoziazione strategica, le terze parti non sono neutrali, imparziali o disinteressate. Le terze parti anche le cosidette parti trasformative vogliono cambiare i discorsi delle parti in conflitto in modo che siano differenti da come erano prima. Anche loro vogliono “vincere”. Questo è la ragione per cui l’intervento di terze parti anche se all’inizio è benvenuto, spesso finisce con entrare in contrasto con tutte le parti in conflitto. Le parti in conflitto si aspettano che le terze parti li sostengano, quando non lo fanno le parti in conflitto entrano in contrasto con loro o possono entrambe convenire che le terze parti non comprendono per nulla la situazione.
Alla luce di ciò occorre riconoscere di non essere neutrali, imparziali o disinteressati.

Dunque è necessario che le terze parti analizzino il sistema complesso esistente, valutandone le forze e le debolezze, paragonando possibili scenari, determinando gli obiettivi di breve e lungo termine, allo scopo di preparare strade alternative, trovare alleati strategici, adattare e valutare mezzi strategici.


Se il classico schema di cui parlavamo all’inizio della risoluzione dei conflitti ha fallito di produrre i suoi effetti per decadi e decadi, non è possibile licenziare la questione con “è lontana” o con interventi di “aiuto/sostegno” che non sono utili ad affrontare la contraddizione. In questo schema che oramai si ripete da anni, la contraddizione innescherà nuovamente la polarizzazione quindi la violenza vale a dire la guerra. Neanche vale l’affermazione: “non c’è nulla da fare”, perchè l’impegno strategico è proprio questo: individuare altri scenari, non dialogo tra le parti in conflitto. ma all’interno delle parti in conflitto. La consapevolezza che le terze parti non sono neutrali e disinteressate. Qui allora potremmo sentirci dire: e quindi? Che si fa? Si cambia schema, o meglio si inizia da un altro punto, dal dialogo all’interno delle parti in conflitto, dall’essere consapevoli che le terze parti nutrono i propri interessi, che gli spazi vuoti che lasciano i gruppi estremisti possono essere riempiti da gruppi potenzialmente più radicali di quelli precedenti, ma di questo parleremo nel prossimo post.

Febbraio 12 2024

Gaza: la soluzione é il cessate il fuoco?

Spesso si ignora la ricerca scientifica a favore del clamore che suscita l’invocazione di un cessate-il-fuoco come la risposta fondamentale al conflitto a Gaza.

A dire il vero si ignora che “conflitti contemporanei, risoluzione dei conflitti, trasformazione dei conflitti” siano materie scientifiche che non trovano collocazione nel reame del pensiero personale, soggettivo, dello strillone da piazza o da talk show”. Per dirla nel linguaggio della strada. Se sono padrone della materia, materia che prevede uno studio quotidiano costante da lavori scientifici, archivi, posso semplificare per rendere fruibile tale argomento ad un non addetto ai lavori. Proprio perché c che ho compreso proviene da una serie infinita di ore di studio e di scrittura, di esperienze sul campo, in quel determinato settore. Diversamente, se io pretendo di essere padrone della materia perché mi leggo quelle 4/5 notizie dai giornali, mi aggiorno con Wikipedia o sono furbo abbastanza da utilizzare una registro linguistico per cui dico tutto, ma in realta’ niente, sono colui che cede alla superficialità ed alimenta confusione, il cui solo risultato é non permettere a chi non é addetto ai lavori di avere una comprensione dei conflitti contemporanei.

Sebbene i cessate-il-fuoco siano molto comuni nei conflitti violenti, tra il 1989 ed il 2000 sono stati dichiarati ben oltre 2000 cessate-il-fuoco nel mondo, il loro effetto é stato limitato.

Un primo problema e’ che non vi e’ una definizione concordata, a livello internazionale, di cosa significhi cessate-il-fuoco. Le Nazioni Unite lo definiscono in linea generale come “un accordo per sospendere i combattimenti, raggiunto dalle parti in conflitto“.

In pratica, ciò solitamente significa arrestare l’attivitá militare in una data area per un lasso di tempo concordato. I parametri della lunghezza e dell’intento di una tale pausa posso differire in maniere profondamente significative. Non esiste il consenso su come tali sforzi si colleghino agli strumenti come la “pausa umanitaria”, i “corridoi umanitari” o anche idee più ampie come “la finestra di silenzio”, le “tregue” o altre azioni.

Una ulteriore complicazione é rappresentata dalla circostanza in cui tutti questi termini vengono spesso utilizzati in maniera intercambiabile. Ciò si é manifestato in maniera evidente negli appelli per un cessate-il-fuoco a Gaza.

In linea generale, diversamente dalle pause e dai corridoi, i cessate-il-fuoco tendono ad includere un obiettivo politico di regolare le posture delle parti in conflitto, ed, idealmente, di portarle piu’ vicine verso una riconciliazione.

In pratica, le ostilita’ quasi sempre ricominciano, in alcuni casi con alti livelli di violenza e brutalita’, soprattutto quando le negoziazioni tra i belligeranti non producono un accordo di pace, e questo é il caso più frequente che si manifesta nei conflitti contemporanei.

I cessate-il-fuoco che sono prodotti senza un approccio strategico ed orientato all’obiettivo non proteggono i civili e non assicurano la distribuzione di sufficienti aiuti umanitari.

Non negando le implicite limitazioni dei cessate-il-fuoco come meccanismo fondamentale per fermare la sofferenza, vi sono alcune condizioni per le quali contengono un valore strategico, anche se non risolvono le cause alla radice del conflitto.

In alcuni casi i cessate-il-fuoco rappresentano una differenza quando sono sviluppati e realizzati con obiettivi specifici e realistici, come la costruzione della fiducia tra le Parti o la consegna di un particolare tipo di aiuto.

A Gaza entrambi gli obiettivi rappresenterebbero un valore, ma l’approccio dovrebbe essere piu’ preciso e compiuto in modo sequenziale.

Un approccio strategico si basa sulle lezioni apprese da altri conflitti e ci suggerisce che i cessate-il-fuoco che con più probabilità hanno successo sono quelli che appongono maggiore leva sugli incentivi alle parti in conflitto per placare le sofferenze, proprio quando il conflitto stesso raggiunge un punto di stallo protratto o in cui si verificano dei momenti di flessione nell’assistenza umanitaria.

Dunque, per garantire più possibilità di successo, gli sforzi per raggiungere un cessate-il-fuoco dovrebbero identificare tali contesti, perché sono quelli in cui le parti in conflitto sono maggiormente incentivate e quindi più disposte ad accettare il sostegno di terze parti per raggiungere accordi e con più probabilità a rispettare questi accordi.

Un secondo approccio strategico al cessate-il-fuoco cerca di fare leva sul loro potenziale di aiutare a costruire fiducia tra le parti in conflitto, durante il conflitto, in momenti strategici . Questo tipo di cessate-il-fuoco possono apportare benefici, anche se limitati, se sono applicati in maniera credibile e rispettati da tutte le parti. Dal momento che le violazioni possono avere l’effetto opposto di diminuire la fiducia, gli accordi intesi come parte di una agenda di costruzione della fiducia dovrebbero essere specifici e realistici.

Un esempio: la cessazione di breve termine della violenza nelle prime settimane della guerra a Gaza che ha permesso ad Israele ed Hamas di realizzare l’accordo di scambio ostaggi-prigionieri, negoziata con l’aiuto del Qatar. Approcci simili si concentrano su esercizi di piccola scala di costruzione della fiducia. Permettere ad entrambe le parti diritti di pieno controllo delle agenzie di terze parti. Questione questa che Israele ha portato all’attenzione come punto di scontro delle passate negoziazioni, aumentando lo spazio per negoziazioni più ampie dove altrimenti sarebbero state limitate.

Il punto per i decisori internazionali (e gli Stati Uniti) dovrebbe essere come le potenziali costruzioni della fiducia e altri benefici derivanti dagli accordi di cessate-il-fuoco possono e devono essere bilanciati con la realtà dei loro limiti, come possono essere appropriatamente regolati nel tempo e amministrati in considerazione di specifici interessi.

Invece, i proclami dei cessate-il-fuoco a Gaza stanno diventando una maschera che distrae dalla cristallina comprensione dei reali e potenziali limiti di questi strumenti.

Qualsiasi approccio che fallisce di affrontare in maniera diretta le lezioni della storia sui limiti dei cessate-il-fuoco, ed ignora i costi umanitari di decadi di accordi internazionali falliti nella pratica, non offre nessun aiuto alla popolazione civile che soffre a Gaza.

Dicembre 6 2023

La guerra a Gaza: un trauma generazionale

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La politica ha una dimensione fisica, il posto nella mente dove vi sono la separazione tra il bene ed il male, la proiezione della colpa inconscia nel profondo del nemico, che dapprima nutrono se stesse e poi portano i loro amari frutti.

Vi é la necessità di portare una comprensione psicoanalitica al tavolo di negoziato.

Sebbene questo conflitto sia fondamentalmente sulla terra e sulla identità politica, i demoni del passato e del presente gettano una lunga ombra sulle percezioni individuali e collettive. I fantasmi dell’Olocausto e della Nabka, le molteplici guerre arabo-israeliane, la violenta occupazione, la resistenza violenta, infestano la coscienza individuale e collettiva dei palestinesi e degli israeliani.

Il trauma che ne risulta aumenta la sfiducia reciproca, deforma le interpretazioni delle intenzioni dell’altra parte, distorce la reale dinamica di potere in gioco e rafforza gli estremisti e le opportunità di trarre vantaggio dalle paure del pubblico a vantaggio delle proprie agende, a spese del bene di lungo periodo delle persone ordinarie.

Il trauma perpetua il conflitto elevando il valore della terra sulla vita umana, attraverso l’impiego della violenza con un valore redentivo ipnotico.

Vi sono due tipologie di trauma interconnesso e intrecciato in gioco in questo contesto: il trauma individuale ed il trauma collettivo.

Un diffuso trauma individuale é composto dal trauma collettivo e storico.

Nel caso degli israeliani, il trauma collettivo, cruciale, é l’olocausto (Shoah il termine ebraico che significa distruzione catastrofica), e i massacri che lo hanno preceduto. Sebbene i palestinesi non siano responsabili per la persecuzione ed il genocidio degli ebrei, molti israeliani hanno trasferito la faccia e le sembianze dei loro precedenti tormentatori e persecutori sui palestinesi, vedendoli come aggressori guidati dall’irrazionale disprezzo per gli ebrei, piuttosto che come un popolo motivato fondamentalmente dalla perdita della loro terra e dei loro diritti. Ciò é parzialmente un prodotto del trauma e parzialmente il risultato di un desiderio di sfuggire alla responsabilità per l’occupazione ed il suo lato interiore negativo.

Per molti sionisti, questa minaccia esistenziale era la più estrema e mortale manifestazione di quello che essi percepiscono come una linea ininterrotta di persecuzione, che inizia dai tempi antichi. Decadi prima dell’Olocausto, Theodor Herzl, il padre fondatore del sionismo politico, scrive nel ” Der Judenstaat” (1986): ” abbiamo sinceramente cercato ovunque di mescolarci con le comunità nazionali in cui viviamo, cercando solo di preservare la fede dei nostri padri. Non ci é stato permesso… Nessuna nazione sulla terra ha sopportato tali lotte e le sofferenze come noi“.

Questo trauma storico é un fattore molto importante in ciò che possiamo definire come il dismorfismo di potere israeliano. Malgrado dispongano del più potente esercito nella Regione e controllino praticamente ogni aspetto della vita palestinese, molti israeliani credono genuinamente che loro siano i piú deboli o i più vulnerabili nel conflitto.

Questo senso di fragilità e vulnerabilità risale a decadi fa. Nell’Europa degli anni 1940, gli ebrei erano una minoranza indifesa perseguitata da uno Stato totalitario e potente. Nella Palestina degli anni 1940, gli ebrei sionisti erano parte di un progetto di colonizzazione facilitato da una superpotenza, la Gran Bretagna a quel tempo, sostenuta da milizie ben armate e ben addestrate messe in competizione contro una popolazione locale palestinese malamente armata e per la maggior parte non addestrata.

Un simile panico esistenziale attraversa le linee del nemico.

Il massacro che ha condotto Hamas con la sua incursione in Israele ha evocato paragoni con la Shoah, per cui molti israeliani ed ebrei – genuinamente – hanno avvertito la paura di un altro genocidio, malgrado la superiorità militare di Israele e le chiare differenze tra le due situazioni.

Il trauma dell’Olocausto vive nella coscienza collettiva degli israeliani. Ciò è simbolicamente riflesso nella prossimità nel calendario di Yon HaShoah (il giorno del ricordo dell’Olocausto) con il giorno dell’indipendenza di Israele, un’espressione del ruolo percepito dello Stato di Israele come protettore e salvatore degli ebrei. Un’altra indicazione di questa centralità è Yad Vashem a Gerusalemme, il memoriale in movimento e museo per le vittime dell’Olocausto. Ironicamente, Yad Vashem non rileva, attraverso una valle, uno dei luoghi più simbolici e struggenti del trauma collettivo palestinese: Deir Yassin. Questo villaggio tranquillo e pittoresco che aveva dichiarato la sua neutralità durante la guerra civile 1947-8 in Palestina, è stato attaccato da gruppi paramilitari ebrei di estrema destra, Irgun e Stern Gang, e molti dei residenti furono massacrati; il villaggio stesso fu spazzato via dalla mappa.

On [the Yad Vashem] side of the valley the world is taught to ‘Never Forget.’ On the Deir Yassin side the world is urged to ‘Never Mind,’”

dal sito web Zochrot, una organizzazione israeliana non governativa creata da un gruppo di attivisti ebreo-israeliani, dedicata a mantenere viva la memoria dei palestinesi espulsi dopo la fondazione di Israele nel 2002.

Deir Yassin è stato un momento centrale nella lotta palestinese.

Le notizie di esecuzioni di più di 100 abitanti del villaggio parte di una popolazione di 600 ed il corteo dei sopravvissuti per le strade di Gerusalemme ha condotto al panico di massa tra la popolazione civile araba, contribuendo ad innescare l’esodo della maggioranza della popolazione arabo-palestinese, che genuinamente temeva ulteriori massacri e credeva che sarebbero tornati dopo la fine dei combattimenti.

Più di 700,000 palestinesi fuggono terrorizzati o cacciati, a molti di loro non è mai più stato concesso di tornare alle loro case. Ciò contrassegna l’inizio di quello che poi diventa noto come Nakba o catastrofe che, nelle menti dei palestinesi, è un disastro vivente ed in corso.

Mentre i palestinesi nella diaspora hanno poche, se non alcuna, opportunità di muoversi verso la loro terra ancestrale senza che avvenga un significativo cambiamento politico, i palestinesi che ancora vivono nella storica Palestina avvertono che una Nabka, dal ritmo dilatato, é ancora in essere.

A Gerusalemme ciò é manifestato nella forma di predazione di terra, imprigionamenti, demolizione di case, attraverso la violenza, la confisca della terra che aumentano sin da quando é iniziata l’ultima guerra a Gaza.

A Gaza assume la forma di un costante ciclo di guerre e una graduale trasformazione del territorio in una terra di nessuno inabitabile, che evoca rinnovate paure di pulizia etnica.

Nella visione dei primi sionisti, una terra da chiamare propria avrebbe ancorato il popolo ebreo e protetto contro la vulnerabilità di essere una minoranza perpetua, mentre si lavorava ad una terra che avrebbe costruito apparentemente un nuovo ebreo solido e resiliente che sarebbe stato la vittima di nessuno.

Il potere salvifico della terra é tale che i massimalisti di entrambe le parti credono che la possessione di Israele/Palestina sia più importante della carne e delle ossa degli israeliani e dei palestinesi, non importa quante generazioni di sofferenza siano inflitte.

Per portare avanti questa agenda e perpetuare il conflitto, gli estremisti pongono l’accento sull’angoscia generata dal trauma collettivo degli ebrei e sul trauma che vivono quotidianamente i palestinesi così come le paure e la sfiducia che questo produce.

La relazione taciuta tra palestinesi islamisti, destra israeliana e coloni.

Per decadi, i palestinesi islamisti mantengono una relazione taciuta con la destra israeliana e i coloni. Così come l’America aveva precedentemente sostenuto gli islamisti contro i secolari, i regimi arabi non allineati durante la Guerra Fredda; Israele, discretamente, tollera la nascita del precursore di Hamas come un controbilanciamento contro l’odiato OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina), malgrado la volontà di quest’ultimo di trovare una soluzione negoziata al conflitto.

Durante il processo di pace di Oslo, fortemente fallace, gli attacchi suicida di Hamas e del Islamic Jihad, sommati all’assassinio di Yitzhak Rabin da parte di un fanatico religioso sionista, Yigal Amir, hanno contribuito ad azionare l’egocentrismo di Benjamin Netanyahu al potere. Analogamente, Netanyahu, Likud e gli altri alleati coloni di estrema destra hanno contribuito al rafforzamento della posizione di Hamas agli occhi dell’elettorato palestinese, distruggendo il processo di pace, screditando la ricerca di pace dell’Autoritá Palestinese e costruendo fatti sul terreno destinati ad assicurare che lo Stato palestinese non diventasse mai una realtà.

Fin da quando Hamas é salito al potere a Gaza, Netanyahu ha considerato il movimento di resistenza islamico sia come un nemico, sia come un alleato de facto con un nemico in comune: il processo di pace, il fronte di pace e la soluzione due Stati. Netanyahu ha visto il movimento come uno strumento utile sia per guadagno personale che ideologico

Malgrado o in ragione della paura di Hamas e dei suoi razzi inflitta nel cuore dei cittadini israeliani, “la concezione”, il nome che Netanyahu assegna alla sua strategia di impedire le aspirazioni palestinesi mentre gestisce il conflitto a vantaggio del movimento dei coloni israeliani, va in frantumi il 7 ottobre, quando viene meno tutta la cornice di sicurezza di cui si e’ vantato verso l’elettorato.

Il trauma collettivo che Netanyahu ha sfruttato per mantenersi al potere, per cercare di evitare le procedure penali e portare avanti la sua agenda con i suoi alleati coloni é sorretto da una fondamentale sopravvalutazione di quanta violenza può raggiungere il conflitto israelo-palestinese, una sottostima della determinazione dell’altra parte e una accresciuta risolutezza generata dalla violenza.

Nei fatti, quello che Israele sta compiendo adesso a Gaza corre il rischio di creare le condizioni per cui movimenti radicali emergeranno dalle macerie, specialmente dal momento che i pilastri sociali che mantengono la comunità assieme si sgretolano in mezzo alla distruzione. Il dolore intenso ed il trauma causato dalla continua distruzione di Gaza potrebbe fornire un nuovo quadro di estremisti con le relative reclute.

L’estremo militarismo di Israele e la sua eccessiva dipendenza dall’apparato militare é un prodotto secondario del trauma storico, sfruttato da falchi ed estremisti per mantenere il sostegno del pubblico, ovvero tenerlo in ostaggio, per il progetto di insediamenti e la continua sottrazione di potere ai palestinesi. Il potere, la spavalderia dell’esercito piu’ potente della Regione, parzialmente compensa, nella psiche collettiva, il senso di una passata debolezza e impotenza.

Una non dissimile dinamica di sopravvalutazione dell’utilitá della violenza e una sottostima della risolutezza e determinazione dell’altra parte é in gioco anche tra i palestinesi, ma per ragioni contemporanee piuttosto che storiche. Il trauma collettivo continuo, l’espropiazione, ha creato non solo un’infinitá di dolore, ma anche una profonda vergogna, unita alla collettiva debolezza del popolo palestinese e alla loro incapacità di difendere se stessi.

Questo ha l’effetto paradossale sulle fazioni palestinesi armate di rendere il fascino della violenza crescente, anche se la sua futilità é ripetutamente e dolorosamente dimostrata. L’incursione sanguinosa di Hamas il 7 ottobre é un esempio tipico. Non c’é modo che Hamas non avesse previsto la ferocità della odierna campagna militare israeliana, ma ha proceduto comunque a condurre l’azione.

The pain of this conflict is well known. Yet we are only at the start of learning how that manifests itself — and even further from finding a way out of it,

scrive Arwa Damon

Una parte della comprensione del “perché'” ci troviamo in una tale circostanza non include solo le decisioni e gli eventi, ma anche le emozioni che guidano queste decisioni e questi eventi.

Se osserviamo la storia della popolazione palestinese e la storia del sionismo, gli eventi orribili dell’Olocausto, quello a cui hanno resistito i palestinesi per più di 75 anni, vediamo una ri-traumatizzazione ripetuta in cui le due popolazioni al centro, hanno già tramandato, di generazione in generazione, profondo, intenso trauma.

Mark Wolynn, nel suo libro: “It didn’t start with You: how inherited family trauma shapes who we are and how to end the cycle,” afferma che non siamo nati meramente come un prodotto del DNA che ci assegna capelli e colore degli occhi, tratti fisici o anche tratti di personalità dei nostri genitori. Noi siamo anche un prodotto delle esperienze vissute dei nostri genitori, nonni e bisnonni. Il DNA cromosomale – il DNA responsabile della trasmissione dei tratti fisici compone meno del 2% del nostro DNA totale, l’altro 98% é ciò che è chiamato DNA non codificante ed è responsabile per molti dei tratti emotivi, comportamentali e di personalità che ereditiamo.

Il DNA non codificante è noto che sia influenzato, da fattori stressanti ambientali, come le tossine, da una inadeguata nutrizione così come da emozioni stressanti. Il DNA colpito trasmette l’informazione che aiuta a prepararci per la vita fuori dell’utero assicurandoci i tratti particolari di cui abbiamo bisogno per adattarci al nostro ambiente.

Il settore scientifico che si occupa di tutto ciò, l’epigenetica, studia come i nostri comportamenti e l’ambiente possono causare dei cambiamenti che incidono sul modo in cui i nostri geni lavorano. Diversamente dai cambiamenti genetici, i cambiamenti epigenetici sono reversibili e non cambiano la sequenza del nostro DNA, ma possono cambiare come il nostro corpo legge la sequenza del DNA.

In altre parole, mentre il trauma potrebbe non cambiare la composizione fisica del nostro DNA, esso cambia il modo in cui le cellule interagiscono l’una con l’altra. Esso può pre-programmare noi a prepararci all’ambiente in cui nasceremo. Noi non siamo nati come dischi emozionalmente fissi .

Israeliani e palestinesi sono nati con il trauma delle generazioni che sono venute prima di loro. Entrambi sono nati già con una modalità di sopravvivenza turbata. Chi è venuto prima, chi ha causato cosa, di chi è la colpa, niente di ciò ha cambiato la realtà che entrambi discendono da linee di generazione di trauma intenso e severo, entrambe tramandate e vissute.

Se non iniziamo a riconoscere e affrontare la nostra epigenetica e i traumi vissuti, continueremo a passarli di generazione in generazione, contribuendo a perpetrare questo tipo di violenza a cui assistiamo oggi: la polarizzazione, l’intolleranza, il razzismo, le faziosità.

Io, dall’altra parte del mondo, che ci posso fare?

La paura é molto reale ed é incredibilmente importante realizzare che si ha una scelta di come rispondere, e deve esserci una relazione sana tra la mente, le emozioni ed i pensieri. Il cervello ha un meccanismo molto semplice, evita il dolore. É logico. É molto comprensibile che le persone che avvertono qualcosa che non le faccia sentire a proprio agio, cercheranno di evitarla. Ad esempio smetteranno di ascoltare e parleranno.

Inevitabilmente, quando parliamo, perdiamo la capacità di ascoltare, che ci permette di evitare la sofferenza. Forse é per questo che sentiamo così tante persone solo urlarsi l’una contro l’altra.

L’equivalente interno di ascoltare é sentire, l’equivalente interno di parlare é pensare. I nostri cervelli, corrono, girano e masticano pensieri per evitare il dolore ed il malessere. Potrebbe sembrare controintuitivo, ma sostanzialmente vi é bisogno che ci sia un equilibrio sano tra i pensieri e le sensazioni.

La tendenza umana é quella di credere che tutto ci renda felici. Noi siamo cablati per allontanare ogni cosa, che sia una prospettiva differente, una nuova informazione, che puó scuotere i pilastri della sicurezza delle nostre convinzioni.

Inevitabilmente tramandiamo tanto dei nostri traumi personali e collettivi nella successiva generazione.

Quello che sta accadendo in Israele e Palestina ha radici che sono tragicamente collettivamente umane. Non abbiamo bisogno di essere condotti da questi traumi, ma continuiamo ad incolpare il passato o a darci la colpa l’un l’altro.