Novembre 29 2024

Conflitto israelo-palestinese si risolverà?

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Chi studia strategia, conflitti, ha una responsabilità non solo verso gli studenti nell’offrirgli strumenti validi ed utili per essere i futuri decisori politici, ma verso tutti quelli che non sono del settore perchè i conflitti contemporanei sono composti anche dalla sfera della società civile che non può sempre approfondire come facciamo noi analisti di politica internazionale ed è necessario che abbia a disposizione un quadro, un contesto, per potersi orientare e contribuire (sì anche se si è fisicamente lontani dal conflitto) alla trasformazione del conflitto, vale a dire che la contraddizione che ha innescato il ciclo di conflitto sarà affrontata e riconciliata in maniera tale che non sarà più l’innesco della polarizzazione e quindi della violenza.

La teoria dei conflitti, degli studi strategici, si avvale di anni di lavoro di studiosi provenienti da tutte le parti del mondo e non raramente sento dire: “eh la teoria…a che serve se poi in pratica non si realizza niente“… “eh la teoria è per insegnare, per lavorare serve la pratica“…“eh la teoria è per quelli che stanno seduti non per quelli che stanno sul posto a sporcarsi le mani“.

Per non ricalcare i discorsi (che io non sopporto) di quelli che elencano le missioni sul campo, mi limito a dire che:

nella mia esperienza professionale ho potuto constatare “sporcandomi le mani o i piedi” che senza la teoria che offre contesto e strumenti, la pratica risulta in qualcosa che, al meglio, è inefficace se non addirittura sortire l’effetto contrario a quello desiderato. Il punto è che se non sono consapevole delle dinamiche dei conflitti così come sono, non per quello che io immagino o percepisco in maniera soggettiva, non sarò in grado di individuare uno scenario che mi porti verso la risoluzione del conflitto stesso. Oppure ne individuerò uno che fallirà, o peggio non farò nulla perchè “non mi riguarda”. Anche solo veicolare una informazione adeguata, corretta e scientifica (eh si la strategia, la risoluzione dei conflitti, sono scienze) metterà in moto una serie di dinamiche e processi che altrimenti non troveranno spazio. La consapevolezza è una parte della risoluzione dei conflitti per quanto leggerlo potrà sembrarvi strano.

Il conflitto israelo-palestinese è un conflitto intricato.

I conflitti intricati sono quelli in cui tentativi di un contenimento pacifico, accordo e trasformazione hanno fallito (nei conflitti cosiddetti bloccati – frozen – vi è una qualcosa di simile ad una gestione pacifica, ma essa è superficiale ed è soggetta a collassare di nuovo).
I conflitti intricati sono stati oggetto per anni di studio da parte degli specialisti.
Nella risoluzione dei conflitti vi sono degli approcci sovrapposti :
– la negoziazione per un accordo politico;
– la risoluzione dei problemi interattiva;
– il dialogo per una comprensione reciproca;
La negoziazione per un accordo politico è associata con accordo di composizione di conflitto, il dialogo per una comprensione reciproca con la trasformazione del conflitto e la risoluzione dei problemi interattiva – storicamente il fulcro dell’approccio di risoluzione dei conflitti – costruisce un ponte tra le altre due.
Evidentemente la quintessenza di questo conflitto intricato è composta da molti elementi a diversi livelli ed è il punto fondamentale, primario della complessità sistemica di un conflitto transnazionale. Se deve essere fondamentalmente trasformato richiederà cambiamenti tra i settori – economico, politico, sicurezza, sociale, psicologico – e livelli – domestico, regionale, globale.

Consapevolezza del disaccordo radicale

Invece di licenziare dall’inizio il disaccordo radicale come un mero superficiale “dibattito antagonistico” , “dibattito competitivo”, dovremmo considerarlo seriamente come il principale impedimento alla complessiva risoluzione dei conflitti.
Dovremmo riconoscere che nei conflitti intricati, malgrado le considerevoli trasformazioni raggiunte con i gruppi di dialogo, con i workshop sul dialogo e la risoluzione dei problemi, non si è verificato un cambiamento sostanziale, vale a dire la contraddizione tra le parti in conflitto è rimasta tale.
La maggior parte degli israeliani e la maggior parte dei palestinesi hanno perso fiducia in questi approcci e nel dialogo per una comprensione reciproca, lasciando ampio spazio per una normalizzazione dell’oppressione che ignora l’asimmetria del potere.
Molti israeliani considerano tali approcci privi di scopo in ragione, dal loro punto di vista, della passata inaffidabilità dei palestinesi e in ragione di una più grande urgenza nell’affrontare altre questioni sia domestiche che estere.

Nei conflitti intricati la norma è la resistenza al contenimento, all’accordo e alla trasformazione, averne consapevolezza è il primo passo per individuare alternative.

Il dialogo agonistico come lo definisce lo studioso Ramsbotham, ovvero dialogo tra avversari è parte del disaccordo radicale in cui le parti in conflitto direttamente si impegnano nelle affermazioni reciproche. Il dialogo antagonistico non è altro che la guerra delle parole ad un livello più profondo.


Uno degli impedimenti più debilitanti è il gap tra le élite del processo decisorio e i livelli di società popolare. Ancora ed ancora accordi stipulati a porte chiuse a livelli di élite.
In direzione opposta, possibilità e visioni, idee al livello base della società con le sue radici che non penetra nelle gerarchie politicizzate di partiti o nelle istituzioni politiche ufficiali e di sicurezza. Questa è una delle principali ragioni del perché il processo di Oslo ha iniziato a perdere il momentum a metà degli anni 1990.

Si discute spesso di approcci dal basso, ecco se ne discute, senza la consapevolezza che il dialogo agonostico avviene tra le parti in conflitto, tra élite al potere. Il livello della società è tagliato fuori. La società è il livello base dove del resto il conflitto accade.

Sempre perchè la teoria deve necessariamente essere il ponte con la pratica, le persone che sono colpite da una bomba, sono parte di questo livello base che non penetra nelle gerarchie delle élite politiche. Le persone che devono spostarsi e poi sperare di tornare. Le persone che hanno perso tutto compreso i familiari. Anche le persone che non sono vittime della guerra, ma compongono il resto della società di una delle parti in conflitto, sono state ascoltate? Siamo sicuri che siano d’accordo con le élite al governo? Le abbiamo ascoltate, entrano negli scenari di risoluzione dei conflitti o sono solo notizie che poi vengono manipolate per il dialogo agonistico? Sono queste alcune delle domande da porsi.

La domanda a questo punto è: cosa servirebbe?

Gli studiosi hanno suggerito il “pensiero strategico”. Detto così, sembra qualcosa di estremamente bello a livello teorico, ma del tutto irrealizzabile nella pratica. Cosa ci faccio con questo impegno strategico, che vuol dire, praticamente che si deve fare?
Per iniziare tracciamo una importante differenza. La manipolazione strategica o pianificazione strategica è compiuta in segreto o in privato, accompagnata dall’esercizio controllato della persuasione del pubblico. Essa è caratteristica di versioni di “strategia” ideologica, partitico-politica e commerciale.

Un confronto tra possibili scenari che elencano tutti i vantaggi da una parte e tutti gli svantaggi dall’altra è chiaramente un segno caratteristico della manipolazione strategica perché le situazioni non sono quasi mai così nette.

Il pensiero strategico, in contrasto, valuta, confronta le opzioni strategiche e paragona i pro e i contro. Incoraggia in modo deliberato una critica dallo stile “avvocato del diavolo” delle strategie favorite, allo scopo di verificarle per debolezza e incoraggia la creatività conservando la flessibilità strategica.
Invece di iniziare tra le parti in conflitto iniziamo all’interno delle parti in conflitto.

Invece di iniziare dove terze parti vogliano che il conflitto sia, iniziamo dal punto in cui le parti in conflitto chiedono dove sono, dove vogliono andare e come vogliono arrivare lì.
Impegno strategico può aiutare a portare a galla questioni che altrimenti sarebbero scomparse dal radar pubblico.
Spesso il punto critico sia nella perpetuazione del conflitto che nel fallimento dei tentativi di risoluzione e nel suggerire possibili nuove configurazioni è: “tutti sanno come un accordo finale sarà” ed è ciò che si sente comunemente affermare nel conflitto israelo-palestinese.

L’impegno strategico mostra che nessuno sa come sarà un accordo finale. Questo è il problema. Anche in relazione ai dossier familiari nei tentativi ripetuti nel 2000, 2001, 2004, 2007, 2014 come la determinazione delle frontiere future, il legge di ritorno (diaspora ebrea) il diritto di ritorno (diaspora palestinese), lo status di Gerusalemme, gli accordi di sicurezza, la gestione delle risorse economiche, le concezioni restano in contrasto . Non vi è accordo su cosa voglia dire “stato palestinese”.
Il pensiero strategico apre ai possibili piani B, a possibilità future che per quanto remote possano essere – la soluzione due stati, la federazione con la Giordania – non entrano nel dibattito e anche se si rivelano essere catalizzatori critici nelle percezioni tra rischi e benefici, in realtà aprono al dialogo su qualcosa di nuovo che altrimenti resterebbe assente.

In sostanza, se io non propongo altri scenari, considerando l’ “interno” di ciascuna parte, proponendo varie possibilità, non avrò mai sul tavolo quello scenario per cui le parti converanno. Quello scenario per cui la contraddizione tra le parti in conflitto che ha generato la violenza sarà affrontata in maniera significativa, vale a dire non sarà più il punto da cui si aprirà la polarizzazione e tutto il ciclo del conflitto.

Se non considero l’interno di ciascuna parte, vale a dire chi e cosa vuole ogni componente di ciascuna parte in conflitto, non potrò elaborare nuove possibilità. Evidentemente considerare le parti in conflitto come blocchi monolitici sempre uguali a se stessi, ignorando che all’interno di esse vi sono altre parti, mi renderà intrappolato in un ciclo di conflitto che si ripete.


Affrontare l’asimmetria del conflitto


L’asimmetria quantitativa (una parte del conflitto è più grande dell’altra) pone problemi, ma essa è significativamente aggravata quando vi è anche l’asimmetria qualitativa (ad esempio una parte in conflitto è un governo e l’altra no). Questo significa che queste parti in conflitto stanno perseguendo obiettivi strategici interamente differenti. Ad esempio, la fondamentale questione strategica per Israele nel conflitto israelo-palestinese è: perché Israele dovrebbe arrendersi? Laddove la fondamentale questione strategica dei Palestinesi è: come possono i palestinesi trasformare lo status quo?
Al cuore del pensiero strategico vi è la questione dell’equilibrio del potere. Chi prevale? A chi è accordata più importanza tra le parti in conflitto?
Ci facciamo aiutare dal lavoro di Kenneth Boulding e Joseph Nye che ci dicono che esistono differenti tipi di potere da essere messi a confronto. Nel conflitto israelo palestinese, Israele ha una schiacciante forza militare ed economica così come il sostegno delle più grandi potenze mondiali. Ma anche i palestinesi hanno potere, il potere della legittimità internazionale, molto rafforzata nell’ultima decade, al punto che un gran numero di paesi sostengono il principio di uno Stato di Palestina. Come risultato la Palestina è già uno stato non-membro osservatore delle Nazioni Unite. Questo è un trionfo della strategia palestinese.

Anche qui, sono davvero consapevole di queste dinamiche di potere e strategia?


Chiarire il ruolo delle terze parti

Da una prospettiva di negoziazione strategica, le terze parti non sono neutrali, imparziali o disinteressate. Le terze parti anche le cosidette parti trasformative vogliono cambiare i discorsi delle parti in conflitto in modo che siano differenti da come erano prima. Anche loro vogliono “vincere”. Questo è la ragione per cui l’intervento di terze parti anche se all’inizio è benvenuto, spesso finisce con entrare in contrasto con tutte le parti in conflitto. Le parti in conflitto si aspettano che le terze parti li sostengano, quando non lo fanno le parti in conflitto entrano in contrasto con loro o possono entrambe convenire che le terze parti non comprendono per nulla la situazione.
Alla luce di ciò occorre riconoscere di non essere neutrali, imparziali o disinteressati.

Dunque è necessario che le terze parti analizzino il sistema complesso esistente, valutandone le forze e le debolezze, paragonando possibili scenari, determinando gli obiettivi di breve e lungo termine, allo scopo di preparare strade alternative, trovare alleati strategici, adattare e valutare mezzi strategici.


Se il classico schema di cui parlavamo all’inizio della risoluzione dei conflitti ha fallito di produrre i suoi effetti per decadi e decadi, non è possibile licenziare la questione con “è lontana” o con interventi di “aiuto/sostegno” che non sono utili ad affrontare la contraddizione. In questo schema che oramai si ripete da anni, la contraddizione innescherà nuovamente la polarizzazione quindi la violenza vale a dire la guerra. Neanche vale l’affermazione: “non c’è nulla da fare”, perchè l’impegno strategico è proprio questo: individuare altri scenari, non dialogo tra le parti in conflitto. ma all’interno delle parti in conflitto. La consapevolezza che le terze parti non sono neutrali e disinteressate. Qui allora potremmo sentirci dire: e quindi? Che si fa? Si cambia schema, o meglio si inizia da un altro punto, dal dialogo all’interno delle parti in conflitto, dall’essere consapevoli che le terze parti nutrono i propri interessi, che gli spazi vuoti che lasciano i gruppi estremisti possono essere riempiti da gruppi potenzialmente più radicali di quelli precedenti, ma di questo parleremo nel prossimo post.

Agosto 19 2024

L’ASSE DELLA RESISTENZA: CHI SONO?

Asse Resistenza

Nel conflitto Hamas-Israele alcuni degli attori coinvolti si trovano bel al di fuori di Gaza. Come ho sempre detto i conflitti contemporanei sono complessi, con dinamiche multiple di livelli diversi che si muovono contemporaneamente e per quanto si voglia cercare di offrire strumenti per la comprensione ad un pubblico di non addetti ai lavori c’è sempre il rischio di banalizzare nel tentativo di semplificare.

In questo caso cerco di semplificare una serie di attori che si citano spesso, ma che temo non si conoscano. Quando sentite dire o leggete “asse della resistenza” (alle volte qualcuno dice “asse del male” citando a casaccio visto che si riferisce a tutt’altro spazio geopolitico), sappiamo davvero da quali attori è composto e chi sono? Anche in questo caso vi sorprenderete leggendo di quanto sia ancora molto più complesso di quanto si possa immaginare.

Asse della resistenza – Membri chiave
Iran
Siria
Hezbollah

A cui si aggiungono:

a) Ansarullah (Houthis) Yemen


Il movimento Houthi si è sviluppato dal gruppo rivivalista sciita Zaydi negli anni 1990, in reazione alla crescita del salafismo attorno a Saada, cosi come alla diffusa percezione che il governo centrale trascurasse la regione. In linea generale, gli Houthi promuovono una ideologia neo-zaydista che è poco definita. Probabilmente l’unica chiara espressione di questa ideologia è la credenza che i discendenti del profeta, i Sada, hanno il diritto e l’autorità per governare. Questa convinzione è riflessa nella sistematica nomina di membri del gruppo sociale nelle posizioni di alto rango nel governo e nell’apparato militare. Mentre gli Houthi alle volte esprimono un desiderio di stabilire uno Stato moderno e repubblicano, come pubblicato nel 2018 nella “visione nazionale per lo stato moderno dello Yemen“, la loro recente imposizione di tasse, la segregazione di genere e la loro preferenza per gli Hashemiti nelle posizioni di leadership, suggerisce il loro obiettivo di ripristinare una dominanza storica socio politica saadazaydista nello Yemen.
Ad oggi vi sono due principali elementi nella strategia e nel pensiero Houthi.

  • Gli integralisti, che sono riluttanti nel contenere il dissenso e sono più inclini all’uso della violenza per raggiungere le loro ambizioni politiche. Sono in ascesa per via del loro successo militare. Il loro obiettivo è di governare tutto lo Yemen e di continuare a dare battaglia, dove è possibile, all’Arabia Saudita.
  • I moderati che sono di gran lunga più deboli; si concentrano sul controllo del territorio dall’ex Repubblica araba dello Yemen nel nord del Paese. Sono più aperti ad un impegno con l’Arabia Saudita e a lavorare con gli accordi proposti dalle Nazioni Unite.

Gli Houthi hanno ereditato molta della loro esperienza, tecnologia e armi dall’apparato di sicurezza dello Yemen quando hanno preso il controllo del governo nel 2014, lo sviluppo di capacità tattiche è giunto attraverso l’assistenza tecnica dell’Iran.

La relazione Iran-Houthi è basata in interessi e obiettivi condivisi piuttosto che in una ideologia comune.

Gli Houthi continueranno a partecipare nella campagna dell’Iran per indebolire l’Arabia Saudita fino a quando ciò aiuterà il gruppo a consolidare il suo governo nello Yemen.

Piuttosto che proxies, come sono spesso descritti, gli Houthi sono partner eguali in un condiviso progetto militare che beneficia entrambe le parti.

Gli Houthi restano soprattutto un attore yemenita con obiettivi locali.

Sarebbe un errore assumere che l’Iran possa dirigere il comportamento Houthi.

La visione del mondo è cospiratoria: essi vedono l’Unione Europea ed i suoi Stati membri come servili agli Stati Uniti e la cospirazione israeliana realizzata dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti. Pur tuttavia, gli Houthi vogliono il riconoscimento internazionale. In questo senso, sono desiderosi di impegnarsi diplomaticamente con l’UE che considerano meno concentrata nella campagna contro di loro rispetto agli Stati Uniti, la Gran Bretagna o l’Arabia Saudita.

b) Asaib Ahl al-Haq (AAH) – Iraq

L’Islamic Revolutionary Guard Corp (IRGC) crea AAH nel 2006, reclutando al-Khazali (leader del gruppo), che allo stesso tempo comandava un brigata militare: Jaysh al-Mahdi. Una milizia formata nel 2003 da un religioso sciita influente iracheno: Muqtada al-Sadr, per combattere l’occupazione degli Stati Uniti. Inizialmente al-Khazali era un membro leale di Jaysh al-Mahdi anche nota come Mahdi Army, studia negli anni 1990 giurisprudenza islamica sotto la tutela del padre di Sadr, Grand Ayatollah Mohammad al-Sadr a Najaf .
L’Iran sfrutta questa spaccatura offrendo vasti finanziamenti e addestramento ad al-Khazali per formare AAH con l’obiettivo di aggiungere questo gruppo alla sua lista di proxies in Iraq.

c) Harakat Hezbollah Al-Najuba (HHN) – Iraq

Creata nel 2013 subito dopo la guerra civile siriana capeggiata dal Akkram al-Kaabi fino ad oggi. Al momento è composta da tre brigate: Liwa Ammar Ibne Yasir, Liwa Al-Hasan Al-Mujtaba e Liwa Al-Hamd. Al-Kaabi era membro di Mahdi Army di Muqtada Sadr Mujtaba che aveva combattuto contro le forze americane in Iraq tra il 2003 ed il 2008. Tuttavia, lo sgretolamento dell’accordo di cessate il fuoco tra Mahdi Army e le forze militari americane ha avuto come conseguenza che molti dei suoi membri di alto rango defezionano. Al-Kaabi, una di queste figure di spicco, rompe con Sadr e si unisce a AAH. In AAH gli é affidato il compito di creare una organizzazione franchise in Siria unitamente alle milizie sostenute dall’Iran.
La lotta interna per la leadership all’interno di queste milizie in Siria unitamente alla situazione disperata dovuta al collasso del governo in Iraq spinge AAH a concentrarsi sulla sicurezza in Iraq all’interno dell’ombrello delle Popular Mobilization Forces (PMF). Ciò conduce all’allontanamento di Al-Kaabi da AAH, che porta quindi alla formazione di HHN.
La divisione tra AAH e HHN concede all’Iran una opportunità strategica. Mentre AAH ha un ramo politico così come prende parte attivamente al processo elettorale, HHN è puramente militaristica in natura. Similmente AAH ha amalgamato la sua ideologia con il fervore iracheno. Dall’altra parte HHN opera in un meccanismo transtatale, sia in Iraq e Siria e le loro mutue regioni di frontiera. Questo modus operandi li avvicina a Hezbollah in Libano, che funziona anche in differenti regioni. Dall’altra parte, lo stretto coinvolgimento di Hezbollah nella politica nazionale non è qualcosa che HHN condivide. In Siria, HHN è diventata il gruppo più longevo e uno dei leader proxy delle milizie dell’Iran, operando attorno a Damasco, Deir ez-Zor, Aleppo e Hama. HHN è anche parte delle PMF in Iraq con la sua dodicesima Brigata. Le province di Anbar, Nineveh e Saladin sono sotto il suo controllo: cruciali perché si legano attorno alla frontiera Siria-Iran. Inoltre sono zone a dominanza sunnita. Questi due aspetti accordano ad HHN un ruolo delicato e significativo nel calcolo complessivo della strategia proxy iraniana.

d) Kataib al-Imam Ali (al-Imam Ali Battalions), o KIA Iraq

Creato nel giugno del 2014 come ramo militare del partito Harakat al Iraq al Islamiyah (Movimento islamico in Iraq). Il gruppo si è mobilitato per la prima volta quando il Grand Ayatollah Ali al-Sistani emana una fatwa chiamando volontari ad unirsi ai servizi di sicurezza, pur inviando volontari nelle PMF formando la 40° Brigata delle PMF.
Nei combattimenti contro lo Stato Islamico (IS), KIA dispiega forze in Iraq all’inizio del 2014 e in Siria nel 2015, l’ultima campagna presentata come una misura difensiva per proteggere il sito sacro Sayyeda Zainan, il sito sacro più importante in Siria. KIA combatte in battaglie a Tikrit, ovest di Mosul, al-Qaim. Nel processo sviluppa un personaggio di spicco delle PMF Ayoub Falih Hasan al-Rubayie (noto con il soprannome Abu Azrael) che ottiene un profilo sociale mediatico molto vasto per le sue bizzarie sui campi di battaglia.
Nel 2020-2012 KIA diventa più silente, concentrandosi sulla costruzione di reti commerciali e sull’attività politica. Shibl Al-Zaydi, il leader ancora oggi, agisce come un coordinatore del gruppo di resistenza in competizione e come un convogliatore di messaggi per i libanesi Hezbollah e i funzionari di sicurezza iraniani.

e) Kataib Hezbollah (KH) (Battalions of the Party of God) – Iraq

Creata dalla fusione di “gruppi speciali” creati e condotti dalle IRGC-QF nel 2005-2007.
La più forte fazione individuale delle PMF irachene con il controllo di dipartimenti chiave (capo di stato maggiore, sicurezza, intelligence, missilistica)
Subordinata e parzialmente finanziata dalle IRGC-QF, conduce specifiche azioni seguendo le loro istruzioni, direzione e controllo. L’Iran fornisce a KH assistenza finanziaria, militare e condivide prodotti di intelligence, così come seleziona, sostiene e supervisiona la sua leadership. KH è nominalmente governata dallo Shura Council composto da un segretario generale, cinque deputati e almeno 33 membri, più “supervisori” provenienti dalle IRGC-QF e Hezbollah libanese.
Finanziato parzialmente dallo Stato iracheno, KH aziona la 45°, 46° e 47° Brigata delle PMF, finanziate dallo Stato (iracheno). La catena di comando, nominalmente, si dipana dalla commissione Popular Mobilization – dominata dalle KH, fino all’ufficio del Primo Ministro, e poi quindi al Primo Ministro. In pratica, le brigate KH delle PMF frequentemente disobbediscono alla catena di comando governativa mentre restano giuridicamente organi dello Stato iracheno.

f) Kataib Sayyid al-Shuhada (KSS) (Masters of the Martyrs Brigade, aka Kataib Abu Fadl al-Abbas, Kataib Karbala) – Iraq

Costruita attorno alla responsabilità e alla base di potere di Mustafa Abdul Hamid Hussein Utabi, aka Abu Mustafa al-Sheibani o Hamid Thajil Warij al-Utabi, uno dei membri fondatori di Kataib Hezbollah KH.
KSS diventa parte delle forze di sicurezza irachene quando forma la 14° brigata delle PMF.
Nell’ottobre del 2014 KSS minaccia l’Arabia Saudita, asserendo che ogni cosa umana o materiale di origine saudita sarebbe stata un obiettivo futuro, legittimo, avvertendo che il gruppo avrebbe colpito e distrutto il regno. Nel luglio del 2018 il gruppo dichiara di inviare propri militanti a combattere le forze governative in Yemen.
Nel novembre del 2021 KSS rivendica di aver arruolato 49,000 volontari in una nuova campagna di reclutamento per prepararsi ad una grande battaglia contro le forze americane in Iraq.
IRGC – QF e Hezbollah libanese forniscono a KSS l’assistenza finanziaria, militare, condivisione di prodotti di intelligence così come sostegno ed aiuto nella selezione e supervisione della leadership.
A seguito dell’uccisione mirata da parte degli Stati Uniti, nel gennaio 2020, del comandante delle IRGC-QF Qasem Soleimani, Teheran ha concesso ai visitatori KSS un trattamento di alto profilo, circostanza che ci suggerisce che hanno ottenuto uno status più alto rispetto a tutto gli altri gruppi ad eccezione di Kataib Hezbollah e Harakat Hezbollah al-Nujaba.
KSS è parzialmente finanziato dallo Stato iracheno, ed aziona la 14° Brigata delle PMF. Stesso schema di disobbedienza attuato dal KH.

g) Fatemiyoun – Afghanistan

Composto da rifugiati sciiti afgani in Iran e da membri della minoranza sciita Hazara all’interno dell’Afghanistan. Gli Hazari compongono dal 9 al 10 percento della popolazione totale afgana di 38 milioni. Considerati infedeli dai talebani sunniti e obiettivo di attacchi mortali dagli anni 1990, centinaia di migliaia di Hazari sono fuggiti in Iran, dove il governo li ha reclutati nei ranghi della milizia, in cambio di pagamenti alle famiglie, cittadinanza e altre protezioni legali.

h) Zainabiyoun – Pakistan

Costruita dalle IRCG nel 2013, quando l’Iran interviene in Siria a sostegno del presidente Bashar al-Assad. La brigata prende il nome dal sito sacro Sayyidag Zainab, un sito importante di pellegrinaggio sciita a sud di Damasco oggetto di attacchi da parte dei militanti sunniti.
Le modalità di reclutamento per i combattenti pakistan sono piuttosto complesse ed incentrate sulla città iraniana di Mashhad. Alcune delle reclute si sono spostate dall’Iran al Pakistan, mentre altre erano già in Iran verosimilmente come studenti. Un terzo gruppo apparentemente si è mosso in Iran dopo essere stato espulso dagli Emirati Arabi Uniti.
Un certo numero di queste reclute provengono dalla regione Parachinar dell’allora Kurram Tribal Agency nel nord ovest del Pakistan che confina con la provincia afgana Paktia. Il distretto a maggioranza sciita è collocato nella regione sunnita tribale ultra conservatrice, che è stata la scena di conflitto settario. Queste dinamiche hanno condotto alla formazione di identità settarie locali molto più salienti rispetto ad altre aree del Pakistan.
Agli inizi del 2020, l’Iran ufficialmente segnala i suoi legami con Zainabiyoun, la cui bandiera é issata alle spalle del comandante della forza aerea IRGC Amir Ali Hajizadeh insieme alle bandiere degli altri gruppi sostenuti dall’Iran nella regione.

Aprile 22 2024

Il futuro politico palestinese esiste?

Negli ultimi sei mesi 434 palestinesi, compresi almeno 106 bambini, sono stati uccisi da Israele a West Bank, inclusa Gerusalemme Est. Nel nome della sicurezza, Israele ha irrigidito le restrizioni ai movimenti, allestendo dozzine di nuovi checkpoint, bloccando l’accesso ai villaggi. Israele ha revocato 200,000 permessi di lavoro in Israele agli abitanti di West Bank, aumentando il tasso di disoccupazione; un costo per l’economia palestinese stimato in circa 2,3 miliardi di dollari.

Nello stesso tempo, il movimento dei coloni israeliani ha utilizzato il conflitto a Gaza come copertura politica per accelerare ed espandere l’annessione ad Israele di territori palestinesi. Questo accade con un deciso aumento negli sfratti e nella violenza dei coloni contro le comunità vulnerabili. In risposta gli Stati Uniti e l’Europa hanno imposto delle sanzioni contro un piccolo numero di coloni estremisti.

Le azioni israeliane continuano a dare energia ai gruppi armati a West Bank che sfidano il controllo dell’Autoritá Palestinese, impegnandosi in attacchi regolari contro le forze israeliane e i coloni. I più forti di questi sono affiliati con Islamic Jihad.

A)

Palestinian Islamic Jihad (PIJ) é stata creata nel 1981 da Fathi Abd al-Aziz al-Shikaki, un dottore proveniente da Rafah nella Striscia di Gaza. Cresciuta attraverso la rete della Fratellanza Musulmana in Palestina si é subito sviluppata in una organizzazione distinta, plasmata da un crescente militarismo e molto influenzata dalla Rivoluzione iraniana del 1979. Ziyad al-Nakhalah é stato eletto segretario generale nel settembre del 2018, succeduto a Ramadan Shalah, uno dei primi membri di PIJ morto di ictus.

L’Iran resta la fonte chiave di finanziamento a tutt’oggi. Si crede che abbia una buona relazione di lavoro con i servizi di sicurezza egiziani, sebbene si sia spostata più vicino all’Iran nel periodo di al-Nakhalah.

PIJ agisce come un’avanguardia di elite piuttosto che come un movimento ampio basato sulla comunità e si oppone ad un impegno politico con Israele. Il gruppo registra una lunga storia di attacchi contro i soldati ed i civili israeliani, fin dagli anni 1980.

Il suo braccio armato Al- Quds Brigades (AQB) é stato fondato nel 1992. Esso é il secondo gruppo armato più ampio dopo Hamas Izz al-Din al-Qassam Brigades. Particolarmente attivo nel nord di West Bank nelle città di Nablus, Jenin dove opera sotto l’ombrello del cosiddetto “Jenin Battalion”. A seguito dell’assassinio del fondatore Fathi al-Shikaki nel 1995 AQB ha condotto numerosi attacchi contro i civili israeliani, incluso attacchi suicidi. Fathi é stato assassinato a Malta nel 1995 in rappresaglia di un doppio attacco suicida contro soldati israeliani a Beit Lid Junction in Israele. PIJ ha continuato la sua campagna di attacchi suicida contro obiettivi israeliani fino al 2007.

Sebbene PIJ sia aspramente critica nei confronti dell’Autoritá Palestinese e delle sue politiche, non partecipa alla politica e limita il suo ruolo ad un confronto militare con Israele. Pur tuttavia ha partecipato a lungo nelle politiche studentesche, schierando candidati nelle elezioni universitarie in Palestina sin dagli anni 1980. Il gruppo ha partecipato agli sforzi di riconciliazione intra-palestinesi tra Hamas e Fatah.

La struttura dell’organizzazione rimane segreta e visibilmente disciplinata in una composizione a cellule. I suoi primi membri erano attivisti islamici e studenti dell’Universitá islamica a Gaza. Ha attirato anche membri di Fatah e del Popular Front for the Liberation of Palestine.

B)

Al-Aqsa Martyrs Brigades di Fatah (AMB), che beneficia di stretti legami con i servizi di sicurezza dell’Autoritá Palestinese.

AMB é emerso durante la Seconda Intifada come una rete lasca di gruppi militari associati a Fatah, formata per la maggior parte da i rifugiati del campo Balata vicino a Nablus. Si da lì si é espansa in tutta West Bank e in Gaza dove spesso coopera con altri gruppi militanti incluso Islamic Jihad’s al-Quds Brigades e Hamas’ Izz al-Din al-Qassam Brigades. A Jenin, opera con altri gruppi sotto l’ombrello del cosiddetto “Jenin Battalion”.

Sebbene non sia mai stato ufficialmente riconosciuto o apertamente sostenuto da Fatah, molti leader di Fatah hanno mantenuto una relazione ambigua con AMB.

AMB é nominalmente guidata da Zakaria Zubeidi, un attivista di Fatah attualmente detenuto in Israele. Nel maggio del 2022, membri di AMB in Gaza hanno eletto Salem Thabet come loro leader militare. La mossa é stata rifiutata dalle brigate AMB a West Bank. Molti dei leader originari di AMB sono stati o catturati o uccisi da Israele. L’Autoritá Palestinese tra il 2007 – 2008 ha lanciato una campagna di sicurezza contro i membri del gruppo a Nablus e a Jenin. Nel 2010, i restanti attivisti hanno raggiunto un accordo con Israele attraverso l’Autoritá Palestinese per essere rimossi dalla lista israeliana dei ricercati in cambio di rinunciare alla violenza e deporre le armi all’Autoritá Palestinese. Molti di questi attivisti sono stati assorbiti nelle forze di sicurezza dell’Autoritá Palestinese. Altri hanno formato una varietà di gruppi scheggia come al-Aqsa Martyrs Brigades-Nidal al-Amoudi, al-Aqsa Martyrs Brigades-Jaish al-Asifah, al-Aqsa Martyrs Brigades-Ayman Jawda,  Popular Resistance Committees (PRC) tutti attivi a Gaza.

AMB rivendica di essere la continuazione del “the storm” – al-Asifah e “Fatah Hawks” – Suqoor Fatah, gruppi armati di Fatah che erano stati assorbiti nelle forze di sicurezza dell’Autoritá Palestinese. Molti dei suoi membri più giovani erano parte di Tanzim, un movimento locale di attivisti di Fatah guidato da Marwan Barghouti, che Israele rivendica essere la guida di AMB. Durante la Seconda Intifada, AMB ha condotto numerose operazioni armate, il gruppo inizialmente ha come obiettivo i soldati ed i coloni israeliani a West Bank e a Gaza, ma dal 2002 si sposta verso gli attacchi suicida contro civili all’interno di Israele. Le Al-Aqsa Martyrs Brigades di Fatah godono di stretti legami con i servizi di sicurezza dell’Autorita’ Palestinese.

Mentre Hamas ha incitato i palestinesi ad imbracciare le armi, il suo braccio armato ha una presenza piu’ limitata a West Bank a causa delle campagne di sicurezza di Israele e dell’Autorita’ Palestinese contro di esse.

Tali gruppi armati spesso lavorano assieme, espandendo la loro presenza sul terreno grazie alla crescita del supporto popolare alla resistenza armata, soprattutto negli anni recenti e a seguito della crescente marginalizzazione dell’Autorita’ Palestinese.

La crisi di legittimità dell’Autoritá Palestinese é in parte dovuta a limiti suoi interni. La PA non ha tenuto elezioni dal 2006, i palestinesi la percepiscono come fuori portata, corrotta ed autoritaria.  Senza un orizzonte politico sostenibile per l’indipendenza palestinese; una maggioranza di palestinesi considera essere un peso per il movimento nazionale palestinese.

Una crisi finanziaria causata dalle sanzioni israeliane e da un profondo declino nel sostegno dei donatori esacerbano ulteriormente le sfide locali che affronta la PA. A tutto ció si aggiunge un aumento della competizione tra figure di alto livello di Fatah su chi debba succedere ad Abbas (88 anni).

Hamas ha beneficiato molto dalla crescente disfunzione della PA, dalle rivalità interne a Fatah e dalla crescente violenza israelo-palestinese.

Malgrado gli sforzi di contrasto da parte dell’Autoritá Palestinese e di Israele, Hamas resta consolidata a West Bank, dove il 71 percento dei palestinesi approva la decisione di lanciare un’offensiva contro Israele il 7 ottobre.

Il ritorno dell’Autorita’ Palestinese a Gaza é considerato dalla maggior parte della comunità internazionale, ad eccezione di Israele, come un passo chiave per trasformare il conflitto verso la riconciliazione. L’Autorita’ Palestinese potrebbe mobilitare 70,000 funzionari statali e le forze di sicurezza affiliate a Fatah che sono rimaste sul suo libro paga da quando Hamas li ha cacciati da Gaza nel 2007. Potrebbe anche cooptare elementi delle strutture di governo di Hamas, incluso i funzionari di Hamas (45,000) che si sono occupati di tutto, dalla raccolta dei rifiuti alla politica locali e che sono stati precedentemente valutati da Israele come parti del precedente pacchetto di sostegno finanziario del Qatar.

Visto che Hamas sembra sopravvivere all’offensiva militare israeliana, l’Autoritá Palestinese ha bisogno di essere accettata per ritornare a Gaza. Nell’assenza di sostegno ad Hamas, tentare di restaurare la sicurezza dell’Autoritá Palestinese e la governance a Gaza potrebbe scatenare una guerra civile palestinese a West Bank. Tuttavia, la volontà del gruppo islamista di cedere il controllo di Gaza all’Autoritá Palestinese dominata da Fatah probabilmente richiederebbe un accordo più ampio per riformare l’Autoritá Palestinese e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina che l’ha creata, ampliare la rappresentanza politica e fondamentalmente tenere delle elezioni nazionali.

I governi occidentali nutrono timore che qualsiasi accordo tra Fatah ed Hamas, figurarsi libere ed eque elezioni, accorderebbero ulteriore potere al movimento islamista, creando un ulteriore tumulto. Washington ed i suoi partner europei hanno una visione più ristretta degli sforzi per rivitalizzare l’Autoritá Palestinese. Il cardine di questo é stata la pressione verso la formazione di un nuovo governo tecnocratico guidato dal Primo Ministro Mohammad Mustafa, stretto confidente di Abbas ed economista istruito negli Stati Uniti. Abbas ha nominato Mustafa come Primo Ministro a Marzo e in seguito approvato un nuovo governo attraverso un decreto presidenziale del 20 marzo.

Il Sistema politico palestinese si dirige verso una profonda crisi: poche prospettive a breve termine di una leadership palestinese inclusiva che abbia un sostegno pubblico ampio.

Il governo Mustafa potrebbe avere successo nell’incoraggiare la fiducia occidentale e potrebbe anche iniziare alcune riforme governative, ma non può esso stesso invertire la de-democratizzazione dell’Autoritá Palestinese e una scarsa popolarità causata dall’occupazione israeliana e dalle azioni di Abbas per consolidare il suo potere e rimuovere i rivali politici.

Hamas, assieme al Islamic Jihad, PLFP, Al-Mubadara – Palestinian National Iniziative hanno rifiutato il nuovo governo, mosse che amplieranno la crisi della leadership dell’Autoritá Palestinese.

Popular Front for the Liberation of Palestine, il secondo gruppo più grande e la principale forza di opposizione a Fatah all’interno dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. PLFP si considera come un gruppo rivoluzionario socialista, in declino dagli anni 1980 a seguito del collasso dell’Unione Sovietica, che é stato il suo benefattore principale. Il gruppo é stato co-fondato nel 1967 da George Habash, Nayef Hawatmeh, Wadie Haddad e Ahmad Jibril come un’organizzazione ombrello per i gruppi nazionalisti arabi e marxisti-leninisti.  Nel 1968 Jibril si separa dal gruppo e fonda il Popular Front for the Liberation of Palestine – General Command (PFLP-GC). Il PFLP elegge i membri  del Political Bureau durante la Conferenza Generale, che si tiene in segreto. Si ritiene vi siano 18 membri del Politburo, la maggior parte delle identitá é ignota. L’ultima conferenza si é tenuta nel 2014 e ha rieletto Ahmad Sa’adat come Segretario Generale.

PFLP si oppone alla partecipazione in governi dell’Autoritá Palestinese, ha partecipato alle elezioni legislative nel 2006 vincendo tre seggi con la lista Martyr Abu Ali Mustafa. Il braccio armato del gruppo noto come Abu Ali Mustafa Brigades é particolarmente attivo a Gaza dove combatte assieme ad Hamas e PIJ.

Si oppone alla soluzione due Stati e rivendica la creazione di uno Stato democratico palestinese in tutta la storica Palestina attraverso la lotta armata.

PNI – Mustafa Barghouti (CJPME English)

Al-Mubadara – Palestinian National Iniziative si descrive come un movimento democratico di resistenza non-violenta all’occupazione. Co-fondato in opposizione agli Accordi di Oslo negli anni 1990 da Haidar Abdel-Shafi, Edward Said, Ibrahim Dakkak e Mustafa Barghouti. PNI ha storicamente sostenuto la pace con Israele e il diritto di ritorno dei rifugiati palestinesi attraverso una soluzione a due Stati. Tuttavia un significativo spostamento si é verificato quando Mustafa Barghouti (attuale segretario generale) ha sostenuto “uno Stato democratico tale per cui le persone godranno di  eguali diritti come quelli in Sud Africa”. PNI gode di uno status di partito consultivo nel Progressive politics – Socialist International ed é membro fondatore della Progressive Alliance.

Alcune figure di alto profilo in Fatah si sono impegnate in colloqui separati con Hamas. Il più prominente Mohammed Dahlan. Attivista di Fatah veterano opposto al presidente Mahmoud Abbas. Ex Capo dell’agenzia di sicurezza interna dell’Autoritá Palestinese in esilio ad Abu Dhabi dopo la rottura con Abbas. Si é allineato con Nasser Kidwa, nipote di Yasser Arafat, é stato rappresentante del PLO alle Nazioni Unite dal 1991 al 2005. Ha giocato un ruolo chiave nel presentare il caso palestinese contro la costruzione del muro da parte di Israele alla Corte Internazionale di Giustizia, che ha poi formulato una advisory opinion dichiarando l’illegalitá del muro nel 2004. Entrambi oppongono Abbas per sostituirlo con una nuova leadership nazionale ad interim per ritornare ad un governo palestinese unito e riformato a Gaza.

Sia Dahlan che Kidwa stanno apponendo pressione ai governi stranieri per sostegno, ma hanno solo un seguito di pubblico limitato. Neppure hanno ottenuto il sostegno di potenze mediatrici influenti come il segretario generale di Fatah Jibril Rajoud ed il segretario generale del PLO Hussei al-Sheikh.

La posizione di Marwan Barghouti sarà la più critica.

Spesso descritto come il “Mandela palestinese” é considerato come uno dei piu forti candidati a succedere a Mahmoud Abbas. Nella prima Intifada, Barghouti era un leader studentesco all’Universitá Bir Zeit implicato in proteste popolari, deportato da Israele in Giordania nel maggio del 1987 é stato l’unico a cui é stato permesso di tornare a West Bank nel 1993 come parte degli Accordi di Oslo. Nel 1994 diventa segretario generale di Fatah a West Bank. Durante la Seconda Intifada, si presume abbia diretto gli attacchi militari contro obiettivi israeliani. Israele lo accusa di aver creato le AMB. Arrestato e condannato a 5 ergastoli da un tribunale militare israeliano nel 2002 per aver orchestrato attacchi contro Israele. Dalla sua prigionia Barghouti é stato attivo nel movimento dei detenuti e ha pubblicato diversi articoli dalla prigione per comunicare con il mondo esterno. Nel 2006, dalla prigione ha contribuito alla bozza del National Conciliation Document of the Prisoners, co-firmato da Hamas (Abdulkhaleq al-Natsheh), PIJ (Bassam Sa’adi) PFLP (Abdel Rahim Mallouh), DFLP (Mustafa Badarneh). Pur essendo Barghouti la figura palestinese piú popolare, finora si é limitato dall’intervenire nelle dinamiche interne a Fatah per la successione ad Abbas.

Le prospettive a breve termine di una leadership palestinese inclusiva sono poche.

Non vi é un meccanismo di gestione del processo di successione ad Abbas, il sistema politico palestinese si dirige verso una profonda crisi. Unitamente ad alti livelli di violenza e ad una crescente emergenza economica, la traiettoria in deterioramento di West Bank complicherà ulteriormente gli sforzi di raggiungere un cessate il fuoco durevole e un giorno ripristinare una strada politica di significato per israeliani e palestinesi.

*immagine in evidenza Fonte: Al Jazeera

Febbraio 12 2024

Gaza: la soluzione é il cessate il fuoco?

Spesso si ignora la ricerca scientifica a favore del clamore che suscita l’invocazione di un cessate-il-fuoco come la risposta fondamentale al conflitto a Gaza.

A dire il vero si ignora che “conflitti contemporanei, risoluzione dei conflitti, trasformazione dei conflitti” siano materie scientifiche che non trovano collocazione nel reame del pensiero personale, soggettivo, dello strillone da piazza o da talk show”. Per dirla nel linguaggio della strada. Se sono padrone della materia, materia che prevede uno studio quotidiano costante da lavori scientifici, archivi, posso semplificare per rendere fruibile tale argomento ad un non addetto ai lavori. Proprio perché c che ho compreso proviene da una serie infinita di ore di studio e di scrittura, di esperienze sul campo, in quel determinato settore. Diversamente, se io pretendo di essere padrone della materia perché mi leggo quelle 4/5 notizie dai giornali, mi aggiorno con Wikipedia o sono furbo abbastanza da utilizzare una registro linguistico per cui dico tutto, ma in realta’ niente, sono colui che cede alla superficialità ed alimenta confusione, il cui solo risultato é non permettere a chi non é addetto ai lavori di avere una comprensione dei conflitti contemporanei.

Sebbene i cessate-il-fuoco siano molto comuni nei conflitti violenti, tra il 1989 ed il 2000 sono stati dichiarati ben oltre 2000 cessate-il-fuoco nel mondo, il loro effetto é stato limitato.

Un primo problema e’ che non vi e’ una definizione concordata, a livello internazionale, di cosa significhi cessate-il-fuoco. Le Nazioni Unite lo definiscono in linea generale come “un accordo per sospendere i combattimenti, raggiunto dalle parti in conflitto“.

In pratica, ciò solitamente significa arrestare l’attivitá militare in una data area per un lasso di tempo concordato. I parametri della lunghezza e dell’intento di una tale pausa posso differire in maniere profondamente significative. Non esiste il consenso su come tali sforzi si colleghino agli strumenti come la “pausa umanitaria”, i “corridoi umanitari” o anche idee più ampie come “la finestra di silenzio”, le “tregue” o altre azioni.

Una ulteriore complicazione é rappresentata dalla circostanza in cui tutti questi termini vengono spesso utilizzati in maniera intercambiabile. Ciò si é manifestato in maniera evidente negli appelli per un cessate-il-fuoco a Gaza.

In linea generale, diversamente dalle pause e dai corridoi, i cessate-il-fuoco tendono ad includere un obiettivo politico di regolare le posture delle parti in conflitto, ed, idealmente, di portarle piu’ vicine verso una riconciliazione.

In pratica, le ostilita’ quasi sempre ricominciano, in alcuni casi con alti livelli di violenza e brutalita’, soprattutto quando le negoziazioni tra i belligeranti non producono un accordo di pace, e questo é il caso più frequente che si manifesta nei conflitti contemporanei.

I cessate-il-fuoco che sono prodotti senza un approccio strategico ed orientato all’obiettivo non proteggono i civili e non assicurano la distribuzione di sufficienti aiuti umanitari.

Non negando le implicite limitazioni dei cessate-il-fuoco come meccanismo fondamentale per fermare la sofferenza, vi sono alcune condizioni per le quali contengono un valore strategico, anche se non risolvono le cause alla radice del conflitto.

In alcuni casi i cessate-il-fuoco rappresentano una differenza quando sono sviluppati e realizzati con obiettivi specifici e realistici, come la costruzione della fiducia tra le Parti o la consegna di un particolare tipo di aiuto.

A Gaza entrambi gli obiettivi rappresenterebbero un valore, ma l’approccio dovrebbe essere piu’ preciso e compiuto in modo sequenziale.

Un approccio strategico si basa sulle lezioni apprese da altri conflitti e ci suggerisce che i cessate-il-fuoco che con più probabilità hanno successo sono quelli che appongono maggiore leva sugli incentivi alle parti in conflitto per placare le sofferenze, proprio quando il conflitto stesso raggiunge un punto di stallo protratto o in cui si verificano dei momenti di flessione nell’assistenza umanitaria.

Dunque, per garantire più possibilità di successo, gli sforzi per raggiungere un cessate-il-fuoco dovrebbero identificare tali contesti, perché sono quelli in cui le parti in conflitto sono maggiormente incentivate e quindi più disposte ad accettare il sostegno di terze parti per raggiungere accordi e con più probabilità a rispettare questi accordi.

Un secondo approccio strategico al cessate-il-fuoco cerca di fare leva sul loro potenziale di aiutare a costruire fiducia tra le parti in conflitto, durante il conflitto, in momenti strategici . Questo tipo di cessate-il-fuoco possono apportare benefici, anche se limitati, se sono applicati in maniera credibile e rispettati da tutte le parti. Dal momento che le violazioni possono avere l’effetto opposto di diminuire la fiducia, gli accordi intesi come parte di una agenda di costruzione della fiducia dovrebbero essere specifici e realistici.

Un esempio: la cessazione di breve termine della violenza nelle prime settimane della guerra a Gaza che ha permesso ad Israele ed Hamas di realizzare l’accordo di scambio ostaggi-prigionieri, negoziata con l’aiuto del Qatar. Approcci simili si concentrano su esercizi di piccola scala di costruzione della fiducia. Permettere ad entrambe le parti diritti di pieno controllo delle agenzie di terze parti. Questione questa che Israele ha portato all’attenzione come punto di scontro delle passate negoziazioni, aumentando lo spazio per negoziazioni più ampie dove altrimenti sarebbero state limitate.

Il punto per i decisori internazionali (e gli Stati Uniti) dovrebbe essere come le potenziali costruzioni della fiducia e altri benefici derivanti dagli accordi di cessate-il-fuoco possono e devono essere bilanciati con la realtà dei loro limiti, come possono essere appropriatamente regolati nel tempo e amministrati in considerazione di specifici interessi.

Invece, i proclami dei cessate-il-fuoco a Gaza stanno diventando una maschera che distrae dalla cristallina comprensione dei reali e potenziali limiti di questi strumenti.

Qualsiasi approccio che fallisce di affrontare in maniera diretta le lezioni della storia sui limiti dei cessate-il-fuoco, ed ignora i costi umanitari di decadi di accordi internazionali falliti nella pratica, non offre nessun aiuto alla popolazione civile che soffre a Gaza.

Dicembre 6 2023

La guerra a Gaza: un trauma generazionale

Guerra Gaza Trauma

La politica ha una dimensione fisica, il posto nella mente dove vi sono la separazione tra il bene ed il male, la proiezione della colpa inconscia nel profondo del nemico, che dapprima nutrono se stesse e poi portano i loro amari frutti.

Vi é la necessità di portare una comprensione psicoanalitica al tavolo di negoziato.

Sebbene questo conflitto sia fondamentalmente sulla terra e sulla identità politica, i demoni del passato e del presente gettano una lunga ombra sulle percezioni individuali e collettive. I fantasmi dell’Olocausto e della Nabka, le molteplici guerre arabo-israeliane, la violenta occupazione, la resistenza violenta, infestano la coscienza individuale e collettiva dei palestinesi e degli israeliani.

Il trauma che ne risulta aumenta la sfiducia reciproca, deforma le interpretazioni delle intenzioni dell’altra parte, distorce la reale dinamica di potere in gioco e rafforza gli estremisti e le opportunità di trarre vantaggio dalle paure del pubblico a vantaggio delle proprie agende, a spese del bene di lungo periodo delle persone ordinarie.

Il trauma perpetua il conflitto elevando il valore della terra sulla vita umana, attraverso l’impiego della violenza con un valore redentivo ipnotico.

Vi sono due tipologie di trauma interconnesso e intrecciato in gioco in questo contesto: il trauma individuale ed il trauma collettivo.

Un diffuso trauma individuale é composto dal trauma collettivo e storico.

Nel caso degli israeliani, il trauma collettivo, cruciale, é l’olocausto (Shoah il termine ebraico che significa distruzione catastrofica), e i massacri che lo hanno preceduto. Sebbene i palestinesi non siano responsabili per la persecuzione ed il genocidio degli ebrei, molti israeliani hanno trasferito la faccia e le sembianze dei loro precedenti tormentatori e persecutori sui palestinesi, vedendoli come aggressori guidati dall’irrazionale disprezzo per gli ebrei, piuttosto che come un popolo motivato fondamentalmente dalla perdita della loro terra e dei loro diritti. Ciò é parzialmente un prodotto del trauma e parzialmente il risultato di un desiderio di sfuggire alla responsabilità per l’occupazione ed il suo lato interiore negativo.

Per molti sionisti, questa minaccia esistenziale era la più estrema e mortale manifestazione di quello che essi percepiscono come una linea ininterrotta di persecuzione, che inizia dai tempi antichi. Decadi prima dell’Olocausto, Theodor Herzl, il padre fondatore del sionismo politico, scrive nel ” Der Judenstaat” (1986): ” abbiamo sinceramente cercato ovunque di mescolarci con le comunità nazionali in cui viviamo, cercando solo di preservare la fede dei nostri padri. Non ci é stato permesso… Nessuna nazione sulla terra ha sopportato tali lotte e le sofferenze come noi“.

Questo trauma storico é un fattore molto importante in ciò che possiamo definire come il dismorfismo di potere israeliano. Malgrado dispongano del più potente esercito nella Regione e controllino praticamente ogni aspetto della vita palestinese, molti israeliani credono genuinamente che loro siano i piú deboli o i più vulnerabili nel conflitto.

Questo senso di fragilità e vulnerabilità risale a decadi fa. Nell’Europa degli anni 1940, gli ebrei erano una minoranza indifesa perseguitata da uno Stato totalitario e potente. Nella Palestina degli anni 1940, gli ebrei sionisti erano parte di un progetto di colonizzazione facilitato da una superpotenza, la Gran Bretagna a quel tempo, sostenuta da milizie ben armate e ben addestrate messe in competizione contro una popolazione locale palestinese malamente armata e per la maggior parte non addestrata.

Un simile panico esistenziale attraversa le linee del nemico.

Il massacro che ha condotto Hamas con la sua incursione in Israele ha evocato paragoni con la Shoah, per cui molti israeliani ed ebrei – genuinamente – hanno avvertito la paura di un altro genocidio, malgrado la superiorità militare di Israele e le chiare differenze tra le due situazioni.

Il trauma dell’Olocausto vive nella coscienza collettiva degli israeliani. Ciò è simbolicamente riflesso nella prossimità nel calendario di Yon HaShoah (il giorno del ricordo dell’Olocausto) con il giorno dell’indipendenza di Israele, un’espressione del ruolo percepito dello Stato di Israele come protettore e salvatore degli ebrei. Un’altra indicazione di questa centralità è Yad Vashem a Gerusalemme, il memoriale in movimento e museo per le vittime dell’Olocausto. Ironicamente, Yad Vashem non rileva, attraverso una valle, uno dei luoghi più simbolici e struggenti del trauma collettivo palestinese: Deir Yassin. Questo villaggio tranquillo e pittoresco che aveva dichiarato la sua neutralità durante la guerra civile 1947-8 in Palestina, è stato attaccato da gruppi paramilitari ebrei di estrema destra, Irgun e Stern Gang, e molti dei residenti furono massacrati; il villaggio stesso fu spazzato via dalla mappa.

On [the Yad Vashem] side of the valley the world is taught to ‘Never Forget.’ On the Deir Yassin side the world is urged to ‘Never Mind,’”

dal sito web Zochrot, una organizzazione israeliana non governativa creata da un gruppo di attivisti ebreo-israeliani, dedicata a mantenere viva la memoria dei palestinesi espulsi dopo la fondazione di Israele nel 2002.

Deir Yassin è stato un momento centrale nella lotta palestinese.

Le notizie di esecuzioni di più di 100 abitanti del villaggio parte di una popolazione di 600 ed il corteo dei sopravvissuti per le strade di Gerusalemme ha condotto al panico di massa tra la popolazione civile araba, contribuendo ad innescare l’esodo della maggioranza della popolazione arabo-palestinese, che genuinamente temeva ulteriori massacri e credeva che sarebbero tornati dopo la fine dei combattimenti.

Più di 700,000 palestinesi fuggono terrorizzati o cacciati, a molti di loro non è mai più stato concesso di tornare alle loro case. Ciò contrassegna l’inizio di quello che poi diventa noto come Nakba o catastrofe che, nelle menti dei palestinesi, è un disastro vivente ed in corso.

Mentre i palestinesi nella diaspora hanno poche, se non alcuna, opportunità di muoversi verso la loro terra ancestrale senza che avvenga un significativo cambiamento politico, i palestinesi che ancora vivono nella storica Palestina avvertono che una Nabka, dal ritmo dilatato, é ancora in essere.

A Gerusalemme ciò é manifestato nella forma di predazione di terra, imprigionamenti, demolizione di case, attraverso la violenza, la confisca della terra che aumentano sin da quando é iniziata l’ultima guerra a Gaza.

A Gaza assume la forma di un costante ciclo di guerre e una graduale trasformazione del territorio in una terra di nessuno inabitabile, che evoca rinnovate paure di pulizia etnica.

Nella visione dei primi sionisti, una terra da chiamare propria avrebbe ancorato il popolo ebreo e protetto contro la vulnerabilità di essere una minoranza perpetua, mentre si lavorava ad una terra che avrebbe costruito apparentemente un nuovo ebreo solido e resiliente che sarebbe stato la vittima di nessuno.

Il potere salvifico della terra é tale che i massimalisti di entrambe le parti credono che la possessione di Israele/Palestina sia più importante della carne e delle ossa degli israeliani e dei palestinesi, non importa quante generazioni di sofferenza siano inflitte.

Per portare avanti questa agenda e perpetuare il conflitto, gli estremisti pongono l’accento sull’angoscia generata dal trauma collettivo degli ebrei e sul trauma che vivono quotidianamente i palestinesi così come le paure e la sfiducia che questo produce.

La relazione taciuta tra palestinesi islamisti, destra israeliana e coloni.

Per decadi, i palestinesi islamisti mantengono una relazione taciuta con la destra israeliana e i coloni. Così come l’America aveva precedentemente sostenuto gli islamisti contro i secolari, i regimi arabi non allineati durante la Guerra Fredda; Israele, discretamente, tollera la nascita del precursore di Hamas come un controbilanciamento contro l’odiato OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina), malgrado la volontà di quest’ultimo di trovare una soluzione negoziata al conflitto.

Durante il processo di pace di Oslo, fortemente fallace, gli attacchi suicida di Hamas e del Islamic Jihad, sommati all’assassinio di Yitzhak Rabin da parte di un fanatico religioso sionista, Yigal Amir, hanno contribuito ad azionare l’egocentrismo di Benjamin Netanyahu al potere. Analogamente, Netanyahu, Likud e gli altri alleati coloni di estrema destra hanno contribuito al rafforzamento della posizione di Hamas agli occhi dell’elettorato palestinese, distruggendo il processo di pace, screditando la ricerca di pace dell’Autoritá Palestinese e costruendo fatti sul terreno destinati ad assicurare che lo Stato palestinese non diventasse mai una realtà.

Fin da quando Hamas é salito al potere a Gaza, Netanyahu ha considerato il movimento di resistenza islamico sia come un nemico, sia come un alleato de facto con un nemico in comune: il processo di pace, il fronte di pace e la soluzione due Stati. Netanyahu ha visto il movimento come uno strumento utile sia per guadagno personale che ideologico

Malgrado o in ragione della paura di Hamas e dei suoi razzi inflitta nel cuore dei cittadini israeliani, “la concezione”, il nome che Netanyahu assegna alla sua strategia di impedire le aspirazioni palestinesi mentre gestisce il conflitto a vantaggio del movimento dei coloni israeliani, va in frantumi il 7 ottobre, quando viene meno tutta la cornice di sicurezza di cui si e’ vantato verso l’elettorato.

Il trauma collettivo che Netanyahu ha sfruttato per mantenersi al potere, per cercare di evitare le procedure penali e portare avanti la sua agenda con i suoi alleati coloni é sorretto da una fondamentale sopravvalutazione di quanta violenza può raggiungere il conflitto israelo-palestinese, una sottostima della determinazione dell’altra parte e una accresciuta risolutezza generata dalla violenza.

Nei fatti, quello che Israele sta compiendo adesso a Gaza corre il rischio di creare le condizioni per cui movimenti radicali emergeranno dalle macerie, specialmente dal momento che i pilastri sociali che mantengono la comunità assieme si sgretolano in mezzo alla distruzione. Il dolore intenso ed il trauma causato dalla continua distruzione di Gaza potrebbe fornire un nuovo quadro di estremisti con le relative reclute.

L’estremo militarismo di Israele e la sua eccessiva dipendenza dall’apparato militare é un prodotto secondario del trauma storico, sfruttato da falchi ed estremisti per mantenere il sostegno del pubblico, ovvero tenerlo in ostaggio, per il progetto di insediamenti e la continua sottrazione di potere ai palestinesi. Il potere, la spavalderia dell’esercito piu’ potente della Regione, parzialmente compensa, nella psiche collettiva, il senso di una passata debolezza e impotenza.

Una non dissimile dinamica di sopravvalutazione dell’utilitá della violenza e una sottostima della risolutezza e determinazione dell’altra parte é in gioco anche tra i palestinesi, ma per ragioni contemporanee piuttosto che storiche. Il trauma collettivo continuo, l’espropiazione, ha creato non solo un’infinitá di dolore, ma anche una profonda vergogna, unita alla collettiva debolezza del popolo palestinese e alla loro incapacità di difendere se stessi.

Questo ha l’effetto paradossale sulle fazioni palestinesi armate di rendere il fascino della violenza crescente, anche se la sua futilità é ripetutamente e dolorosamente dimostrata. L’incursione sanguinosa di Hamas il 7 ottobre é un esempio tipico. Non c’é modo che Hamas non avesse previsto la ferocità della odierna campagna militare israeliana, ma ha proceduto comunque a condurre l’azione.

The pain of this conflict is well known. Yet we are only at the start of learning how that manifests itself — and even further from finding a way out of it,

scrive Arwa Damon

Una parte della comprensione del “perché'” ci troviamo in una tale circostanza non include solo le decisioni e gli eventi, ma anche le emozioni che guidano queste decisioni e questi eventi.

Se osserviamo la storia della popolazione palestinese e la storia del sionismo, gli eventi orribili dell’Olocausto, quello a cui hanno resistito i palestinesi per più di 75 anni, vediamo una ri-traumatizzazione ripetuta in cui le due popolazioni al centro, hanno già tramandato, di generazione in generazione, profondo, intenso trauma.

Mark Wolynn, nel suo libro: “It didn’t start with You: how inherited family trauma shapes who we are and how to end the cycle,” afferma che non siamo nati meramente come un prodotto del DNA che ci assegna capelli e colore degli occhi, tratti fisici o anche tratti di personalità dei nostri genitori. Noi siamo anche un prodotto delle esperienze vissute dei nostri genitori, nonni e bisnonni. Il DNA cromosomale – il DNA responsabile della trasmissione dei tratti fisici compone meno del 2% del nostro DNA totale, l’altro 98% é ciò che è chiamato DNA non codificante ed è responsabile per molti dei tratti emotivi, comportamentali e di personalità che ereditiamo.

Il DNA non codificante è noto che sia influenzato, da fattori stressanti ambientali, come le tossine, da una inadeguata nutrizione così come da emozioni stressanti. Il DNA colpito trasmette l’informazione che aiuta a prepararci per la vita fuori dell’utero assicurandoci i tratti particolari di cui abbiamo bisogno per adattarci al nostro ambiente.

Il settore scientifico che si occupa di tutto ciò, l’epigenetica, studia come i nostri comportamenti e l’ambiente possono causare dei cambiamenti che incidono sul modo in cui i nostri geni lavorano. Diversamente dai cambiamenti genetici, i cambiamenti epigenetici sono reversibili e non cambiano la sequenza del nostro DNA, ma possono cambiare come il nostro corpo legge la sequenza del DNA.

In altre parole, mentre il trauma potrebbe non cambiare la composizione fisica del nostro DNA, esso cambia il modo in cui le cellule interagiscono l’una con l’altra. Esso può pre-programmare noi a prepararci all’ambiente in cui nasceremo. Noi non siamo nati come dischi emozionalmente fissi .

Israeliani e palestinesi sono nati con il trauma delle generazioni che sono venute prima di loro. Entrambi sono nati già con una modalità di sopravvivenza turbata. Chi è venuto prima, chi ha causato cosa, di chi è la colpa, niente di ciò ha cambiato la realtà che entrambi discendono da linee di generazione di trauma intenso e severo, entrambe tramandate e vissute.

Se non iniziamo a riconoscere e affrontare la nostra epigenetica e i traumi vissuti, continueremo a passarli di generazione in generazione, contribuendo a perpetrare questo tipo di violenza a cui assistiamo oggi: la polarizzazione, l’intolleranza, il razzismo, le faziosità.

Io, dall’altra parte del mondo, che ci posso fare?

La paura é molto reale ed é incredibilmente importante realizzare che si ha una scelta di come rispondere, e deve esserci una relazione sana tra la mente, le emozioni ed i pensieri. Il cervello ha un meccanismo molto semplice, evita il dolore. É logico. É molto comprensibile che le persone che avvertono qualcosa che non le faccia sentire a proprio agio, cercheranno di evitarla. Ad esempio smetteranno di ascoltare e parleranno.

Inevitabilmente, quando parliamo, perdiamo la capacità di ascoltare, che ci permette di evitare la sofferenza. Forse é per questo che sentiamo così tante persone solo urlarsi l’una contro l’altra.

L’equivalente interno di ascoltare é sentire, l’equivalente interno di parlare é pensare. I nostri cervelli, corrono, girano e masticano pensieri per evitare il dolore ed il malessere. Potrebbe sembrare controintuitivo, ma sostanzialmente vi é bisogno che ci sia un equilibrio sano tra i pensieri e le sensazioni.

La tendenza umana é quella di credere che tutto ci renda felici. Noi siamo cablati per allontanare ogni cosa, che sia una prospettiva differente, una nuova informazione, che puó scuotere i pilastri della sicurezza delle nostre convinzioni.

Inevitabilmente tramandiamo tanto dei nostri traumi personali e collettivi nella successiva generazione.

Quello che sta accadendo in Israele e Palestina ha radici che sono tragicamente collettivamente umane. Non abbiamo bisogno di essere condotti da questi traumi, ma continuiamo ad incolpare il passato o a darci la colpa l’un l’altro.

Settembre 4 2023

Africa: il punto di flessione degli Stati Uniti e della Cina

Africa flessione

A Washington avvertono che la Cina, con i suoi finanziamenti dei maggiori progetti infrastrutturali, sta sovraccaricando i Paesi africani di debiti. Questa affermazione non ha necessariamente un fine indagatore, ma sottolinea come le relazioni Stati Uniti – Cina stiano diventando sempre di più acrimoniose. L’Africa è diventata la nuova arena per la rivalità strategica.

Algeria

Aspetta, non leggere, riguarda la mappa. Dedica un minuto in più di attenzione dove si trova geograficamente l’Algeria con chi confina.

A metà luglio, il presidente dell’Algeria Abdelmadjid Tebboune ha condotto una visita di Stato di cinque giorni in Cina, dove ha incontrato il presidente cinese Xi Jinping e altri funzionari chiave. La delegazione di uomini d’affari che lo accompagna evidenzia il desiderio di Tebboune di sostenere i legami economici dell’Algeria con la Cina. Tebboune ha dichiarato nel giorno finale della visita: «vogliamo cooperare con la Cina perché è un grande Paese con enormi mezzi.»

Tebboune ha anche dichiarato il motivo per cui il modello di partnership di Pechino è cosi allettante: « la Cina non emette restrizioni politiche, non appone condizioni. In breve la Cina rispetta gli altri Paesi».

Algeri, ricordiamolo, si prepara ad occupare il suo seggio temporaneo al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel 2024-2025 ed ha bisogno di Pechino più che mai.

Nel viaggio da e di ritorno dalla Cina, Tebboune si è fermato in Qatar e Turchia. Agli inizi di quest’anno ha visitato la Russia, nel più ampio sforzo di ri-impegnare diplomaticamente Algeri dopo anni di isolamento.

Il collasso dei prezzi del petrolio nel 2014 ha condotto ad anni di sofferenza finanziaria, quasi al punto di richiedere finanziamenti esterni. Il conseguente taglio negli alti livelli di spesa sociale dell’Algeria ha aiutato ad alimentare il movimento di protesta Hirak, un’espressione su scala nazionale di malcontento popolare che ha spinto l’allora presidednte Abdelaziz Bouteflika a dimettersi nel 2019. Sebbene ora moribondo, il movimento ha contrassegnato la più grande sfida al potere autocratico del regime in decadi.

Gli impegni di politica internazionale dell’Algeria hanno tre principali obiettivi:

  1. contrastare la crescente influenza regionale del vicino Marocco;
  2. rafforzare la sua posizione tra le potenze crescenti di un mondo multipolare;
  3. attrarre più investimenti per diversificare la sua economia.

Allinearsi con la Cina calza a pennello in tutti questi obiettivi.

Negli anni passati, il Marocco ha rafforzato le sue rivendicazioni di sovranità sul Sahara Occidentale – una fonte importante di tensioni con l’Algeria – procurandosi il riconoscimento da un crescente numero di Paesi, incluso gli Stati Uniti. Nel fare ciò, ha spostato con successo la questione fuori dal reame della soluzione mediata dalle Nazioni Unite basata sul diritto internazionale. L’Algeria che sostiene l’indipendenza del territorio, potrebbe utilizzare la sua presenza nel Consiglio di Sicurezza per cercare di rallentare il momentum del Marocco e riportare la disputa territoriale sotto gli auspici delle Nazioni Unite.

Una Cina compassionevole potrebbe aiutare.

Il valore di Pechino come alleato è specialmente cruciale per raggiungere gli ultimi due obiettivi. Negli anni recenti l’Algeria ha intensificato la sua campagna di lobby per entrare nel gruppo BRICS, che comprende il Brasile, la Russia, l’India, la Cina ed il Sud Africa. Argomento centrale di discussione durante la visita di Tebboune in Cina e Russia. Entrambi i Paesi hanno pubblicamente sostenuto la candidatura dell’Algeria. Unirsi al BRICS concederebbe all’Algeria una solida impronta in un’organizzazione chiave per le potenze economiche non-occidentali, solidificando le sue relazioni con altri Paesi del Sud Globale. Concederebbe anche più influenza nel navigare i legami con i Paesi europei, i quali spesso appongono pressioni all’Algeria per il suo continuo imprigionamento di attivisti e giornalisti.

In particolare, essere parte del New Development Bank, fornirebbe una qualche sicurezza per un prezzo più basso, nel futuro, del petrolio e del gas: Algeri non dipenderebbe dal Fondo Monetario Internazionale o altre organizzazioni multilaterali dominate dall’occidente per un salvataggio nel caso una improvvisa discesa nelle entrate energetiche metta in pericolo ancora una volta la sua posizione relativa al bilancio. Sarebbe una sorpresa se l’Algeria fosse ammessa nel gruppo a breve, giacchè la sua economia resta sotto sviluppata e statica, dominata da esportazioni di idrocarburi. La scena degli affari è opaca e ostile all’investimento estero. Manca di una base manifatturiera competitiva e diversificata.

Algeri ha le sue carte da giocare.

Tebboune ha offerto 1.5 miliardi di dollari della sua nuova ricchezza energetica per diventare un azionista nella banca di sviluppo BRICS.

La crescente vicinanza dell’Algeria con la Cina sarà vantaggiosa al di là dell’appartenenza a BRICS. La visita di Tebboune a Pechino ha condotto alla firma di 19 accordi di cooperazione e progetti per 36 miliardi di dollari in investimenti cinesi nei prossimi anni. Le industrie cinesi hanno aiutato a costruire molte delle case e delle infrastrutture di trasporto su cui l’Algeria ha investito durante i precedenti supercicli di prezzi del petrolio.

La storia gioca un ruolo in questa relazione bilaterale. La Cina è stata la prima nazione non-araba a riconoscere il primo governo provvisorio algerino nel 1958, quattro anni prima che vincesse l’indipendenza dalla Francia.

Probabilmente il più grande fattore che guida il corteggiamento algerino alla Cina può essere rinvenuto nelle difficoltà della Russia sui campi di battaglia dell’Ucraina.

Mosca è stato un sostenitore politico tradizionale dell’autocrazia di Algeri e un fornitore chiave per le sue forze armate. Tuttavia le autorità algerine comprendono che l’influenza globale russa ora è in diminuzione. Quale che sia il risultato in Ucraina, è quasi certo che il regime del presidente russo Vladimir Putin apparirà economicamente più debole e politicamente più instabile una volta che il conflitto sarà terminato.

Ciò non vuol dire che la forte relazione dell’Algeria con la Russia terminerà. Tebboune e gli alti ufficiali dell’Algeria – il vero potere nel Paese – continueranno ad evitare di criticare la guerra di aggressione di Putin. Neppure avranno come obiettivo quello di sostituire il loro amico a Mosca con uno a Pechino.

Hanno compreso la necessità di diversificare il loro portfolio di alleanze e sembrano contenere un risultato negativo per la Russia in Ucraina assicurandosi un’altra base di sostegno chiave al di fuori dell’influenza occidentale.

Al momento l’Algeria sembra ben lontana dal guadagnare un gruppo di nuovi alleati attraverso il BRICS, ma converge volentieri per un nuovo amico super potente: la Cina.

La strategia degli Stati Uniti in Africa è articolata attraverso un programma obsoleto (ancora quello)

Il vice Presidente Kamala Harris ha svolto recentemente un viaggio di nove giorni in Africa, iniziato in Ghana, Tanzania e concluso in Zambia. La sua visita segue quella di Janet Yellen, Segretario del Tesoro, Linda Thomas-Greenfield, ambasciatrice americana alle Nazioni Unite, la first lady Jill Biden e il segretario di Stato Antony Blinken.

La selezione di tre Paesi di lingua inglese i cui governi sono favorevoli agli interessi americani e sistemi politici stabili, è intesa a dimostrare la capacità di Washington di esibire la sua agenda continentale lavorando con alleati che la pensano come loro. Cionondimeno il viaggio della Harris dimostra diversi limiti profondamente radicati nell’impegno americano con i Paesi africani.

La vasta impronta della Cina nei tre Paesi che ha visitato è ineluttabile, dal momento che le imprese cinesi hanno investito vaste somme nello sforzo di accrescere lo sviluppo infrastrutturale in tutti i Paesi. In un momento storico in cui Washington ha diretto decine di miliardi di dollari per sostenere l’Ucraina sin da quando è stata invasa dalla Russia, l’annuncio di Harris di 100 milioni di dollari dagli Stati Uniti per gli Stati dell’Africa occidentale – 20 milioni di dollari ciascuno – è un indicazione delle sue priorità.

Molti hanno visto con favore l’impegno della Harris con i creativi ghanesi, ma la sua diffusione di una playlist Spotify con la partecipazione di artisti del Ghana, Tanzania e Zambia così come il suo invito agli attori di Hollywood Idris Elba e Sheryl Lee Ralph di accompagnarla durante la sua visita agli studi musicali, è stata considerato emblematico della superficialità con cui i funzionari americani si coinvolgono con gli africani.

Essenzialmente, il viaggio di Harris ha compiuto poco per cambiare le percezioni tra molti africani che Washington vede il Continente principalmente come una serie di problemi da essere gestiti, alleggerendo il tutto con un cenno di assenso ad esso come fonte di intrattenimento. I funzionari americani così come coloro che difendono l’impegno di Washington in Africa regolarmente respingono le critiche alle politiche sottolineando le donazioni di miliardi di dollari che annualmente gli Stati Uniti elargiscono in assistenza allo sviluppo. Come prova dell’effettivo impegno americano, evidenziano le alleanze bilaterali e multilaterali nel Continente; programmi popolari come l’Emergency Plan for AIDS Relief, African Growth and Opportunity Act che fornisce accesso duty-free al mercato americano; il sostegno degli Stati Uniti alla promozione della democrazia, la leadership americana nelle organizzazioni internazionali per cui i Paesi africani beneficiano considerevolmente.

Il problema con queste narrative non è tanto che sono false, ma che i loro limiti rafforzano le esatte argomentazioni che compiono le critiche alla politica americana. Alcuni programmi di vanto americano sono ora quasi due decadi vecchi e miseramente adatti alle realtà moderne.

Le alleanze di sicurezza americane hanno fatto poco per fermare l’ondata di violenza estremista nella regione del Sahel o aiutare gli Stati fragili a costruire capacità addirittura rafforzando gli incentivi negativi che consolidano il ruolo dei militari negli Stati coinvolti.

La retorica di Washington sulla democrazia scarsamente si accorda con il suo comportamento, come dimostrato nelle recenti elezioni in Nigeria, quando l’amministrazione Biden ha rapidamente avallato il risultato di elezioni profondamente viziate dalla violenza e dalle irregolarità.

Anche se gli Stati Uniti non scatenano lo stesso tipo di reazione aspra che suscita la Francia, molti nel Sahel percepiscono le preoccupazioni americane per la democrazia come un’offerta per imporre e mantenere l’influenza straniera.

Per molti di coloro che vivono in questi Paesi, i colpi di Stato sono espressioni del volere popolare ed è molto difficile sapere, conoscere, quanto ampi siano tali sentimenti. Il fatto che la difesa americana della democrazia significhi così poco nella regione suggerisce che posizioni di principio possono ottenere poco al momento.

Eppure gli Stati Uniti hanno assunto posizioni “più flessibili” in passato, come nel caso dell’Egitto. Quando Abdel Fatah el-Sisi ha preso il potere attraverso un coup nel 2013, gli Stati Uniti sono andati avanti con gli affari come al solito, perché il Cairo è considerato un alleato strategico che Washington non può permettersi di perdere. Questa sorta di flessibilità dovrebbe essere impiegata nel Sahel.

I Paesi africani temono una decade perduta

Una delle cattive abitudini dei funzionari americani, che hanno continuato a sostenere fin dal lancio della strategia americana in Africa lo scorso anno, è la tendenza a caratterizzare le relazioni dell’Africa con la Cina in termini paternalistici, particolarmente riguardo al debito cinese, riferendosi a Pechino: «accordi luccicanti che possono essere opachi e fondamentalmente falliscono nel portare beneficio alle persone per cui sono stati presumibilmente progettati.»

La supposizione implicita tra americani e europei è che i governi africani mancano dell’astuzia necessaria per comprendere lo scenario della politica internazionale e navigarlo nel perseguimento dei loro interessi.

Peggiori sono le rivendicazioni di una “trappola del debito cinese” organizzata per gli africani. I prestiti cinesi, sebbene una proporzione crescente del debito dei Paesi africani, sono fondamentalmente sovrastati dall’onere del debito creato dai prestatori privati occidentali.

Come spesso fanno notare i governi africani, essi si sono rivolti a Pechino per lo sviluppo finanziario non perché non comprendono ciò che è offerto, ma per le condizioni del prestito relativamente favorevoli rispetto ai creditori occidentali.

Washington elargisce delle “somme di facciata” all’industrializzazione africana e allo sviluppo del settore privato, ma ha per la gran parte fallito nell’offrire alternative sostenibili al più conveniente credito cinese. Il ministro delle finanze congolose Nicolas Kazadi ha dichiarato che se la Cina è un così importante alleato dei Paesi africani, è perché non è facile mobilitare gli investitori americani.

I funzionari americani e i commentatori spesso si riferiscono ai governi africani come “sedotti” dai prestiti cinesi e dal sostegno per i regimi autoritari nel Continente. In questo modo essi semplicemente sottolineano la loro mancanza di familiarità con le aspirazioni delle popolazioni africane, che li lascia incapaci di comprendere perché i rivali di Washington stanno guadagnando terreno con il pubblico africano.

Parimenti significativa la circostanza per cui esagerano le capacità della Cina, sottovalutando i considerevoli spazi vuoti che vi sono nell’impronta di Pechino in Africa, spazio che molti governi nel Continente e molti dei loro elettori vorrebbero che Washington riempisse.

Se gli Stati Uniti vogliono diventare il partner di scelta degli africani devono iniziare ad ascoltare i loro interlocutori africani e considerare seriamente le loro argomentazioni e aspirazioni.

I governi africani regolarmente dichiarano di non voler schierarsi da alcuna parte tra le Grandi Potenze nel contesto geopolitico. In più, sebbene molti di loro ora guardino la Cina come il loro principale partner diplomatico, non considerano i loro legami con la Cina come la somma totale delle loro relazioni internazionali. È certamente una relazione cruciale, anche la più importante, ma in nessun modo la sola.

Vi sono aree di tensione nelle relazioni della Cina con gli africani, inclusa una crescente percezione che Pechino si stia tirando indietro e riducendo la sua impronta in Africa. Questi timori potrebbero essere fondati. Al Forum sulla Cooperazione Cina – Africa (FOCAC) del 2021, la trattazione principale era la riduzione di un terzo degli impegni finanziari di Pechino in Africa nei successivi tre anni. Alcuni analisti hanno asserito che questa mossa era più sfumata rispetto al commento, argomentando che le altre iniziative annunciate da Xi puntavano ad un chiaro segno che il settore privato é posizionato in modo da guidare la fase successiva delle relazioni tra Paesi africani e che Pechino si muove gradualmente lontano da progetti di infrastrutture di larga scala attuati da imprese statali verso lo sviluppo di un settore a guida privata. Le ragioni di questo spostamento sono varie e dibattute, ma si è senz’altro d’accordo che la Cina sta cercando di minimizzare i suoi rischi – anche di reputazione – in alcune aree e cercando di creare spazio per consegnare parte della sua impronta all’estero alle imprese del settore privato.

Alcuni analisti asseriscono che Pechino ha maturato più esperienza e prudenza come donatore ed investitore e perciò più cauta, specialmente data l’incertezza economica domestica. A prescindere dalle ragioni dell’evoluzione dell’attività cinese in Africa, i governi africani nondimeno si preoccupano che il loro principale partner economico sia meno desideroso di distribuire finanziamenti e progetti rispetto a quanto lo fosse tempo fa.

Tutto ciò ci suggerisce che gli africani vedono e comprendono i meriti e i lati negativi dei metodi degli Stati Uniti e della Cina. Così come vi sono dei timori su alcune parti dell’impegno cinese, vi sono elementi della cassetta degli attrezzi di Washington che sono popolari tra gli africani. Ad esempio il PEPFAR, il piano di emergenza del Presidente degli Stati Uniti per l’AIDS Relief autorizzato dall’allora presidente George W. Bush nel 2003, è ampiamente considerato dai governi africani, dai gruppi della società civile e dai professionisti sanitari come fattore trasformativo nel Continente, malgrado le critiche all’iniziativa. La considerevole diaspora Africana negli Stati Uniti e la loro crescente prominenza in molti settori così come nel Continente sostiene la diplomazia culturale e i legami tra gli africani e i cittadini americani. In un continente dove milioni, particolarmente giovani, hanno capacità creative ed imprenditoriali, aspirazioni, gli Stati Uniti e i marchi popolari tecnologici, la moda, l’intrattenimento e l’ingegneria continuano ad essere visti come un centro nevralgico di innovazione.

Pur tuttavia molti africani, in linea generale, percepiscono che solo una parte – la Cina – compie uno sforzo credibile nel migliorare il suo modo di operare ed è possibile distinguere le vie tangibili dell’attività cinese nelle loro comunità che ha innalzato gli standard di vita e migliorato la qualità della loro vita.

I Paesi africani ora sono in un punto di flessione nella traiettoria del loro rapporto con le potenze mondiali, con sostanziali incertezze rispetto a tali relazioni.

Queste potenze esterne farebbero bene a riflettere come dimostrare meglio il loro desiderio dichiarato di migliorare le relazioni con gli africani. Allo stesso modo, i governi del continente dovrebbero considerare come trarre il meglio delle opportunità che possono derivare dalla competizione per l’influenza in Africa.

Riconoscendo lo squilibrio di potere intrinseco al sistema internazionale, i governi africani devono dimostrare un approccio preciso, puntuale delle loro relazioni con Pechino e Washington per trarne vantaggio. Ciò deve assicurare che questo impegno corrisponda a strategie locali che non duplichino sforzi – o li sprechino su progetti e iniziative che portano pochi benefici alle popolazioni del Continente. Sebbene il Giappone non possa realisticamente competere sulla stessa scala della Cina o degli Stati Uniti per l’influenza in Africa, il suo modello di cooperazione, che tende ad essere caratterizzato da un approccio multilaterale e multisettoriale che unisce una molteplicità di voci e alleati su una vasta gamma di questioni, è valutato positivamente da molti governi africani e potrebbe essere uno da emulare.

Per tutta l’onnipresenza e abilità cinese in Africa, le sfide del Continente e le aspirazioni sono troppo vaste e varie perché Pechino possa soddisfarle tutte realisticamente. I sondaggi hanno dimostrato in maniera consistente che gli africani conservano delle visioni positive sia degli Stati Uniti che della Cina e preferiscono mantenere delle relazioni vantaggiose con entrambi piuttosto che dover scegliere tra loro.

Pochi africani sono ingenui nel non comprendere il significato relativamente basso che Washington accorda al Continente paragonato alle priorità centrali in Europa e nella regione Asia-Pacifico, ma ciò non è visto come necessariamente un ostacolo ad un’alleanza produttiva – anche se modesta.

Agosto 3 2023

Niger: le minacce alla sicurezza

Niger

Quando indosso una lente di ingradimento difficilmente posso cogliere ciò che non è ingrandito dalla lente. Il mio sguardo è circoscritto, vedo solo quel Paese. Così spesso accade quando si cerca di comprendere uno sviluppo politico, come per il Niger, si traslascia il contesto che invece è essenziale per inquadrare l’evoluzione politica, ma anche sociale, economica. Anche il tempo è importante. Ci si ferma all’oggi ma i cicli politici non accadono in un giorno. Quello che osserviamo è il risultato di ciò che si è sviluppato nel corso degli anni in un ambiente locale e regionale complesso.

Proviamo a viaggiare dal Niger verso l’Africa Occidentale costiera ed il Sahel e cerchiamo di comprendere cosa accade.

Febbraio 2022: il presidente francese Emmanuel Macron annuncia che le truppe dell’operazione francese Barkhane così come quelle nella Task Force EU Takuba saranno ritirare dal Mali. Il presidente del Niger Mohamed Bazoum dichiara che il Niger accoglierà volentieri le truppe francesi e dell’Unione Europea nel suo territorio. Da allora i legislatori nigerini hanno approvato una legge che autorizza il governo ad ospitare più truppe europee come parte delle operazioni di controterrorismo regionali a guida francese.
Questa mossa ha provocato una opposizione piuttosto robusta da una vasta gamma di nigerini, incluso personaggi dell’opposizione politica, gruppi della società civile e cittadini ordinari, che affermano che la presenza delle truppe europee minaccia la sovranità nazionale e potrebbe rendere il Niger un obiettivo più grande della violenza estremista. Queste obiezioni sono comprensibili in un Paese dove l’ostilità popolare verso la Francia è diffusa e lo scenario di sicurezza è peggiorato negli anni recenti, malgrado la presenza di un dispiego militare straniero già esistente.
Lo strategemma di Bazoum punta il riflettore sullo scenario politico del Niger, così come sulle percezioni della leadership del Paese e la sua comprovata esperienza nel combattere la violenza e l’instabilità nel Sahel.

Il Niger è spesso preso ad esempio per i Paesi confinanti nel Sahel. Come molti dei suoi vicini regionali, il Niger è caratterizzato da alti livelli di povertà estrema e una lunga storia di coup militari. Dal ritorno del Paese al governo democratico nel 2011, il Niger ha compiuto grandi passi verso il raggiungimento di stabilità socio-politica.
Ha ricevuto il plauso internazionale nel 2021 per il completamento del primo trasferimento di potere pacifico tra leader democraticamente eletti dall’ottenimento della sua indipendenza dalla Francia nel 1960, quando l’ex Presidente Mahamadou Issoufou si è dimesso dopo aver completato due incarichi consecutivi. Issoufou è stato elogiato per aver compiuto passi sostanziali per migliorare l’istruzione e sviluppare infrastrutture, investendo nella costruzione di nuove strade, centrali elettriche, elettrificazione rurale e la modernizzazione dell’aereoporto di Niamey.


Il quadro istituzionale del Niger concentra ampiamente il potere nelle mani del Presidente, ma incorpora anche le autorità tradizionali nello sforzo di rafforzare la capacità statuale. Ad esempio, il sistema locale dei capi tribù collabora con lo Stato su una gamma di questioni che vanno dalla riscossione delle tasse, all’amministrazione della giustizia alla mediazione nei conflitti e agli affari religiosi, da una parte all’altra del Paese come la regione occidentale Tillaberi, la regione a sud Diffa, o Agadez nel nord.

Come il Mali, il Niger ha avuto la sua quota nelle ribellioni Tuareg. Molti osservatori ritengono che abbia intrapreso dei passi più significativi anche se imperfetti ed insufficienti per affrontare le recriminazioni Tuareg cosi come quelle dei gruppi di minoranza.
I partneriati di sicurezza nigerini con la Francia e gli Stati Uniti hanno per la maggior parte permesso alle élite politiche e di sicurezza di consolidarsi, radicarsi al potere a spese di un compito di lungo termine vale a dire la governance democratica.
Per questo non sorprende che il Niger è diventato rapidamente riconosciuto come un alleato occidentale chiave nel combattere la violenza estremista.

Niger
Fonte: Mappr


Un Paese senza sbocchi sul mare che condivide le sue frontiere con sette Paesi incluso Nigeria, Mali, Chad, Algeria e Libia, occupa una posizione strategica sulla mappa dell’Africa, siede all’incrocio tra il Nord Africa, il Sahel e il bacino del Lago Chad. Il governo nigerino ha regolarmente affermato che la sua posizione geografica spiega il deterioramento delle sue condizioni di sicurezza nel corso del tempo, attribuendo la causa della propria instabilità alle ripercussioni dei conflitti nei Paesi vicini. Subito dopo i ritiri francesi e dell’Unione Europea dal Mali, Bazoum ospita personaggi di alto profilo incluso il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres e il Cancelliere tedesco Olaf Scholz, suggerendo l’importanza degli interessi occidentali di sicurezza nel Sahel.
Negli anni recenti, combattenti dal Mali e dal Burkina Faso si sono spinti sempre di più nella regione Tillaberi, che è nel triangolo tra Niger Mali e Burkina Faso. La regione Diffa, vicino alla frontiera nigeriana, ospita centinaia di migliaia di nigeriani che sono scappati dalla violenza di Boko Haram e gli attacchi transfrontalieri sono aumentati. All’aumentare delle tensioni tra il Mali e la Francia negli anni recenti ed il collasso della relazione tra i due Paesi, il Niger ed il Burkina Faso hanno puntato nell’altra direzione, muovendosi rapidamente per rassicurare Parigi della loro volontà di sostenere i loro partneriati sulla sicurezza.

Ciò che sarebbe necessario è una concettualizzazione più ampia di cosa costituisce la Sicurezza.

L’inizio delle ribellioni che hanno minato la sicurezza nel Sahel nella passata decade, è coinciso con un accordo diffuso e condiviso che la violenza avrebbe avuto delle ramificazioni socio-economiche, politiche ed umanitarie significative per i Paesi della sub-regione. Molti osservatori hanno creduto che la minaccia posta dai militanti delle organizzazioni violente islamiche, dalle reti di criminali e da altri gruppi armati sarebbe stata confinata al Sahel, senza espandersi al sud verso il Golfo di Guinea.

L’Africa occidentale costiera, incluso le regioni litoranee della Nigeria, Benin, Togo, Ghana e Costa d’Avorio, si presumeva fossero sicure dall’espansione delle organizzazioni estremiste violente.

Queste supposizioni contengono delle imperfezioni, incluso una concettualizzazione limitata di sicurezza e una errata diagnosi della violenza estremista islamica come causa piuttosto che come sintomo di problemi più profondi di governance, legittimità e nation-building.

Questa supposizione è coincisa con una risposta militarizzata alla violenza estremista da parte dei governi regionali e dei partner internazionali, che hanno concentrato i loro sforzi di contro terrorismo a spese di altre minacce alla sicurezza, incluso il brigantaggio, la pirateria, il crimine transnazionale, le tensioni inter e intra comunitarie così come i traffici illegali.

Queste supposizioni imperfette hanno iniziato a collidere con la realtà diversi anni fa.

Nel 2016, la città di Grand-Bassa, circa 35 km ad est di Abidjan, la capitale della Costa d’Avorio è attaccata da un uomo armato affiliato con Al Qaeda nel Maghreb Islamico

Nel 2019, ufficiali della sicurezza burkinabe intercettano comunicazioni tra militanti all’interno del Paese e altri in Benin, Ghana e Togo. L’anno successivo il Burkina Faso e la Costa d’Avorio conducono l’operazione congiunta Comoe un’operazione militare che ha come obiettivo i militanti islamisti nelle aree di frontiera tra i due Paesi, uccidendone 8 e catturandone 38 distruggendo i campi di addestramento.

Nel 2021 un posto di sicurezza nel nord del Togo, vicino alla frontiera con il Burkina Faso è attaccato da banditi armati.
Anche in Ghana, a lungo considerato da molti il pilastro regionale della stabilità e della governance democratica, i funzionari lanciano l’allarme per il crescente numero di attacchi e di sviluppi nefasti vicino alle sue frontiere, sebbene non vi sia un importante primato di attacchi nel Paese.
Per non parlare della Nigeria, l’egemone dell’Africa occidentale, ma verosimilmente il vettore regionale di instabilità. La ribellione da 13 anni di Boko Haram nel nord est è ben nota, ma ha visto diverse evoluzioni, incluso la crescita dello Stato islamico – ISWAP, dopo la morte del leader di Boko Haram Abubakar Shekau nel 2021 e la rinascita della fazione Ansaru affiliata di Al Qaeda. Il numero di attacchi terroristi è aumentato del 49% tra il 2020 ed il 2021.

Dipingere la minaccia degli estremisti violenti islamici come l’unica o la più importante espressione di instabilità nell’Africa occidentale si è provato controproducente.

Molti nigeriani per molto tempo hanno creduto che non era probabile che Boko Haram e i suoi affiliati potessero ottenere un punto d’appoggio a sud della confluenza Lokoja, considerata come la linea di divisione tra il nord ed il sud della Nigeria. Tuttavia, i funzionari della sicurezza hanno avvertito dei tentativi di Boko Haram di espandere le sue attività a sud, incluso nel Lagos il centro economico nevralgico del Paese. Recenti attacchi nello stato di Kogi, di cui Lokoja è la capitale sembrerebbero indicare un altro esempio di attività dell’estremismo violento che si diffonde verso la parte litoranea dell’Africa occidentale. Insicurezza e morti violente nella costa a sud della Nigeria – nelle parti centrali – presumibilmente tra agricoltori e mandriani si sono intensificati negli anni recenti. Nella regione del delta del Niger le sfide alla sicurezza si sono similmente intensificate: vandalismo, furto di petrolio, attività di gang, rapimenti e violenza comunitaria schiacciano le forze di sicurezza impiegate nella regione nei vari Stati. Mentre questi sviluppi non hanno una connessione dimostrata con ISWAP o Boko Haram, sono giudati in larga parte da attori non statali la cui capacità di impiegare la violenza e contestare l’autorità dello Stato non è meno spaventosa.

Questi esempi mettono in luce la vulnerabilità della costa dell’Africa occidentale alle ripercussioni dell’attività estremista da parti remote del Sahel. Essi indicano anche alle imperfezioni nelle supposizioni che hanno influenzato la risposta di sicurezza da parte di governi regionali e dei loro partner internazionali.

Dipingere la minaccia dei militanti islamici come l’unica o anche la più importante espressione dell’instabilità dell’Africa occidentale – per non dire la sola ed unica causa – si è provato controproducente. Così come affidarsi unicamente ad una robusta risposta del controterrorismo e ad operazioni militari, affrontando poco le questioni più profonde di debolezza della governance, ineguaglianza socio-economica e marginalizzazione.

Concentrarsi esageratamente sull’attività militante islamica devia anche dalle vulnerabilità locali che l’estremismo violento ha sfruttato in tutta l’Africa occidentale, mentre ha ignorato l’intersezione dell’estremismo violento con altre minacce alla sicurezza, incluso il traffico illecito di umani e beni, il crimine violento, il conflitto inter-comunitario, la pirateria marittima, il banditismo e i rapimenti.

In esempi dalla Nigeria al Niger al Burkina Faso e al Mali, le condizioni che hanno reso possibile la crescita delle organizzazioni estremiste violente hanno anche permesso la proliferazione di queste altre forme di violenza.

I conflitti locali nelle aree litoranee dell’Africa Occidentale possono servire come punti di entrata per gruppi estremisti violenti, che sfruttano le divisioni comunitarie parteggiando per una parte, quindi ottenendo sostegno in cambio di servizi vitali come la sicurezza, il trasporto e le infrastrutture pubbliche, una tendenza comune nelle comunità di frontiera nella Regione.


Gli Stati costieri dell’Africa occidentale mostrano quasi tutti le stesse vulnerabilità locali come le loro controparti del Sahel, incluso istituzioni statali deboli, frontiere porose, alti livelli di povertà, ineguaglianze economiche, divisioni rurali-urbane. Tutti questi fattori possono facilitare la diffusione dell’attività estremista mentre rendono le attività criminali attrattive. I gruppi estremisti violenti islamici collaborano direttamente o indirettamente con altri gruppi criminali, incluso i minatori illegali di oro, i bracconieri, i trafficanti che condividono i loro interessi nell’assenza o debolezza della presenza dello Stato e delle sue istituzioni.


Gli estremisti islamici in Niger, Mali e Burkina Faso utilizzano il Benin, la Costa d’Avorio, il Ghana, il Togo come risorse o zone di transito per finanziamento e logistica. Il bestiame rubato dal Mali e dal Burkina Faso, ad esempio è venduto regolarmente in Benin, Costa d’Avorio e Ghana, con i profitti che passano attraverso una vasta rete di complici per raggiungere una vasta gamma di gruppi armati che includono, ma non sono limitati a, estremisti violenti. Il petrolio rubato dalla Nigeria è venduto lontano dalla Costa d’Avorio, creando una rete transnazionale di petrolio rubato.


Sebbene l’estremismo violento sia significativo, vi sono altre minacce alla sicurezza che si sono rivelate destabilizzanti per la stabilità regionale ma non hanno avuto lo stesso grado di attenzione da parte dei governi.

Un serio tentativo di affrontare l’instabilità dell’Africa occidentale deve lottare con l’intersezione tra l’estremismo violento e altre minacce alla sicurezza, invece di vederle diverse.

Deve anche vederle non come cause di instabilità, ma come sintomi di lacune socio-politiche profonde che realisticamente non possono essere risolte soltanto da un approccio di sicurezza. Inoltre deve essere consapevole che l’Africa Occidentale costiera è adesso parte del nesso di insicurezza che molti hanno presunto che in Sahel sarebbe stato contenuto.

Ritorniamo in Niger

Il poco tempo in carica di Bazoum è stato caratterizzato da un approccio duro alla governance. Avendo svolto una campagna elettorale promettendo di eradicare la corruzione nel governo, ha compiuto sforzi in questo senso, ma essi sono stati vagliati molto attentamente; molti nigerini sospettano che le ondate di arresti di ufficiali della sicurezza e funzionari governativi di alto grado siano state meramente un pretesto per disfarsi di coloro che Bazoum percepiva come rivali o oppositori.
Le forze di sicurezza nigerine, che sono considerate meno brutali e complici di abusi dei diritti umani rispetto alle loro controparti maliane e burikinabe, hanno giocato un ruolo significativo nello sforzo di controterrorismo nel Sahel. Pur tuttavia anche loro sono stati invasi dalla piaga di alti livelli di corruzione e facilmente cooptati dai criminali delle reti di trafficanti. Accuse di corruzione hanno a lungo piagato il Ministero della difesa nigerino.
Nel 2020 un audit governativo ha rivelato perdite per milioni di dollari in accordi di corruzione per commercio internazionale di armi. Rivelazione che ha portato in piazza a Niamey i manifestanti a cui il governo ha risposto con una repressione e l’arresto di molti attivisti.
Le partnership di sicurezza con le potenze occidentali come la Francia e gli Stati Uniti hanno permesso alle elite di sicurezza e politiche di consolidarsi al potere a spese del compito di fornire una governance democratica di lungo termine, piuttosto che contribuire alla stabilità nazionale e regionale o migliorare la qualità delle istituzioni nigerine.

La strategia della Francia nel Sahel

Il governo francese ha lanciato l’operazione Barkhane, di controterrorismo regionale e counter insurgency, nel 2014 per combattere i gruppi estremisti islamici violenti che avevano preso il controllo di vaste porzioni di territorio nel nord del Mali diffondendosi anche in Burkina Faso ed in Niger.

Fonte: rawpixel

Nella decade seguente, l’insicurezza nel Sahel ha ucciso e ferito migliaia e dislocati milioni di più. La crisi di sicurezza nel Sahel è alimentata dall’instabilità politica, dalla governance debole, da torti storici così come la povertà della Regione. La Regione è una delle più povere del mondo, con condizioni meteorologiche estreme, bassa produttività agricola e accesso limitato ai servizi essenziali. La violenza intercomunitaria, in crescita, è alimentata dalla competizione per la terra e le sue risorse tra gruppi etnici, che conduce ad ulteriore dislocazione e alla rottura della coesione sociale nella regione, particolarmente in Mali, Burkina Faso e Niger.
Nel corso degli anni, l’Operazione Barkhane ha affrontato critiche per i suoi alti costi, così come le sue implicazioni coloniali, la sua “mano pesante”, il suo fallimento nel migliorare la sicurezza nelle aree dove operava e la sua inefficacia nell’affrontare le cause sottostanti alla crisi. Le tensioni che sono emerse tra la Francia e la junta militare che governa ora il Mali hanno condotto Parigi a ritirare le sue truppe dal Paese a seguito della richiesta di Bamako nel novembre dell’anno scorso.
Le forze francesi si sono anche ritirate dal Burkina Faso nel gennaio del 2023 a causa di tensioni con la junta militare, sebbene non sia stata una rottura definitiva della loro relazione diplomatica.
Vi è una crescente sensazione che la relazione ha bisogno di essere rivalutata per assicurare che essa sia basata sul rispetto reciproco e su obiettivi condivisi.
L’efficacia degli sforzi di miglioramento della sicurezza dipendono dagli sviluppi politici più ampi nella Regione, iniziando proprio dalle relazioni tra Mali e Niger. Dal colpo di stato militare in Mali guidato dal colonnello Assimi Goita nel maggio del 2021, il Presidente del Niger Mohamed Bazoum ha ripetutamente criticato le azioni dell’esercito del Mali, in talune occasioni utilizzando un linguaggio tutt’affatto diplomatico. Le tensioni sono aumentate nel settembre del 2022, quando il Niger ha sospeso il transito dei prodotti petroliferi verso il Mali, citando delle presunte ragioni di sicurezza a causa della minaccia jihadista. In risposta il primo ministro ad interim del Mali, il colonnello Abdoulaye Maiga, ha utilizzato ciò che è stato definitivo come un linguaggio provocatorio “pas être nigérien” riferito a Bazoum durante un suo discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite lo stesso mese.
Gruppi armati non statali hanno sfruttato e sfruttano la frontiera porosa tra i due Paesi per condurre attacchi, mentre i conflitti intracomunitari hanno causato violenza e dislocazione in entrambi i Paesi. Malgrado sforzi congiunti le operazioni militari di entrambi i Paesi contro questi gruppi sono state complicate da risorse, addestramento e coordinazione inadeguati.
Le recenti tensioni tra il Niger ed il Mali hanno iniziato a minare il quadro del G5 Sahel Joint Force, creato nel 2014 per migliorare la collaborazione tra i cinque Paesi regionali: Burkina Faso, Chad, Mauritania in aggiunta al Mali e Niger, per affrontare le condivise sfide di sicurezza. Il quadro ha ricevuto un sostanziale sostegno dai partner internazionali come la Francia, l’Unione Europea, le Nazioni Unite. Per essere efficace, esso conta sulla fiducia e sulla coooperazione entrambe limitate, negli ultimi mesi, tra Mali e Niger. Detto ciò il G5 Sahel Joint Force ha limiti suoi propri, incluso le sfide logistiche e la mancanza di risorse e le sue operazioni congiunte sono state accusate di compiere abusi di diritti umani. Tutto ciò evidenzia il fatto che qualsiasi soluzione efficace per la crisi di sicurezza nel Sahel richiederà più di una risposta unicamente militare.
Per migliorare la sicurezza nel Sahel, gli Stati regionali e i loro partner internazionali devono affrontare le cause sottostanti la crisi. Ciò implica affrontare la povertà, l’ineguaglianza, la governance, che alimentano le ideologie estremiste e le attività criminali. Inoltre, sarà necessario per gli Stati regionali e le organizzazioni lavorare in maniera collaborativa con le comunità locali e le organizzazioni della società civile, che possono fornire delle comprensioni di valore circa i bisogni e le preoccupazioni della popolazione ed aiutare a costruire la fiducia e la legittimità per gli interventi di sicurezza.
In breve, il miglioramento del coordinamento di sicurezza nel Sahel richiede un approccio complesso, vario, sfaccettato che affronta le cause alla radice dell’insicurezza mentre fa leva sui punti di forza delle operazioni militari congiunte, sulla condivisione di intelligence e sul coinvolgimento della popolazione. Nessuno di questi sarà possibile, tuttavia, se la mancanza di fiducia ed il risentimento (tra la Francia e gli Stati regionali) e tra gli Stati regionali stessi mutila la comunicazione e la cooperazione necessarie perché un tale sforzo sia di successo.
Nella misura in cui le partnership europee di sicurezza in Mali e Burkina Faso sono state terminate dalle junta militari i cui ufficiali sono stati addestrati attraverso i programmi di assistenza degli Stati Uniti ha condotto ad una rivalutazione a Bruxelles e a Washington a proposito del loro coinvolgimento strategico con la regione. Già prima del coup in Niger, il governo francese aveva deciso di tagliare massicciamente il numero delle sue truppe in Gabon, Senegal, Costa d’Avorio.

Russia e Cina – come dicono gli inglese in a nutshell

Mentre la Russia ha la capacità militare di essere a “prova di coup” dei regimi autoritari e sfruttare le industrie di esportazione basate sulle risorse, come le miniere, l’incapacità dei mercenari russi di ridurre l’espansione jihadista nel Mali indica che Mosca non ha la capacità di sconfiggere gli estremisti violenti vicino alle frontiere.

E mentre l’investimento cinese ha avuto un grande impatto sullo sviluppo delle economie attraverso tutta l’Africa, Pechino ha mostrato poco interesse nel creare delle strutture strategiche di cui avrebbe bisogno come garante della sicurezza nel continente.

Maggio 17 2023

I jihadisti contemporanei

Chi sono, come comunicano, dove sono e le strategie per contrastarli

La minaccia internazionale dei gruppi salafiti – jihadisti che utilizzano la tecnica del terrorismo – è mutata, si è trasformata. Ciò di cui abbiamo bisogno per comprendere il rischio della violenza estremista islamica sono nuove lenti. Per programmare punti di intervento attuali e progettare schemi di prevenzione efficaci dobbiamo necessariamente considerare i jihadisti come giocatori consapevoli e ponderati. Essi dedicano molto tempo ed energie a coltivare il loro sistema di convinzioni e nuovi modelli di pensiero per validare la loro violenza estrema come un imperativo ideologico e legittimo. L’intenzione di uccidere o mutilare per lo scopo di una causa, di un obiettivo, è spesso il risultato di un processo di trasformazione: la decisione stessa è valida perché è fondata su argomenti e ragioni morali e religiose. Se ci concentriamo unicamente sul risultato di eventi terroristici, ricaviamo una visione non corretta e corriamo il rischio di considerare il comportamento del jihadista anomalo. Attraverso la profilazione del jihadista presentata in questo testo, è possibile ampliare le opzioni per contrastare questo tipo di minaccia e comprendere come la percezione delle crisi sia il punto critico che guida la mobilitazione del collettivo carismatico della militanza jihadista. Il tentativo di comprendere le organizzazioni jihadiste all’interno del continente africano volge lo sguardo alle dinamiche locali. Le guerre civili contemporanee sono spesso plasmate dalla politica identitaria e quando la comunità degli affari è tenuta in ostaggio da politiche tribali ed etniche costose, i gruppi jihadisti appaiono un’opzione conveniente e comoda. Essi profittano degli anni di fiducia tra la classe degli uomini d’affari e le istituzioni islamiche, imponendo una nuova soluzione fondamentalista. L’alleanza estremisti-affaristi, che ne risulta, catalizza una rapida catena di reazione. Le reti di tali organizzazioni operano attraverso teatri regionali di guerra, utilizzando operativi non affiliati nei Paesi vicini. I teatri sono legati attraverso una rete aggregata di attori e organizzazioni. Questo libro vuole essere dunque un contribuito alla trasformazione della più ampia relazione tra oppositori nel più intricato dei conflitti.

I jihadisti contemporanei. Chi sono, come comunicano, dove sono e le strategie per contrastarli. Morlacchi University Press 2023.

In vendita sul sito Morlacchi Editore

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Aprile 24 2023

Sudan: il triste addio della diplomazia

Le diplomazie hanno deciso di abbandonare il Sudan. Hanno lasciato dietro di loro i sudanesi che attraverso i loro comitati di resistenza urbana offrono aiuto a chi è rimasto e a chi ha deciso di attraversare le frontiere. Questa è una ulteriore analisi di come si è arrivati fin qui in Sudan. Uno strumento in più per comprendere anche il ruolo della comunità internazionale.

Perchè ci sono le milizie in Sudan

A partire dagli anni 1970, lo Stato sudanese ha fornito assistenza sanitaria ed istruzione gratuita. Pur tuttavia l’accesso era ineguale, ma a quel tempo lo Stato era impegnato ad espandere i propri servizi. Poi arriva la crisi africana del debito, l’austerità, la privatizzazione, e i servizi solo per i ricchi. Il carico dell’austerità cade pesantemente sulle spalle dei più poveri. Il governo ha bisogno di spingere il lavoro nelle fattorie commerciali, nelle città, nelle miniere dove ha investito per profitto, senza offrire incentivi. Ciò di cui aveva bisogno erano forze di sicurezza a basso costo così inventa le milizie, che possono forzare il Sudan rurale a rinunciare al suo lavoro e al benessere.

Le milizie “esternalizzate”, privatizzate diventano il sistema della governance rurale e una risorsa di estrazione, diventano IL sistema sudanese.

Ora l’uomo della milizia esternalizzata sfida l’uomo al governo

Gen. Abdel Fattah al-Burhan presidente del Consiglio Militare di Transizione, comandante delle Sudan Armed Forces (SAF). Non fa segreto del suo modello di leader al potere: il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. Egli considera l’esercito come una istituzione di potere sovrano al di sopra della sfera politica, giustificando in questo modo la motivazione per cui l’esercito deve essere incaricato del proprio settore di riforma di sicurezza.
Gen. Mohamed Dagalo Hamdan detto “Hemedti”. Guida le Rapid Support Forces, un uomo che si è fatto da se. Le RSF sono state formalizzate come componente paramilitare sotto il suo comando ben 10 anni fa, in riconoscimento della sua bravura nello sconfiggere gli insorti in Darfur. Le RSF hanno combattuto in Yemen ed hanno contatti con il Wagner Group. Hemedti e la sua famiglia controllano un impero commerciale di commercio in oro ed altri beni.
Dagalo si presenta come il protettore della rivoluzione e come amico dei rivoluzionari civili. Alcuni dei leader civili sono inclini a sostenerlo perchè lo vedono come la sola forza credibile che può contrastare la linea di al – Burhan nel creare una nuova dittatura.

Dagalo della tribù Rezeigat, vice presidente del Consiglio militare di transizione e arbitro della transizione. Ha iniziato come commerciante di bestiame e supervisore dei convogli commerciali tra il Sudan occidentale, il Chad e l’est della Libia.
Dagalo è diventato il principale attore dell’apertura del regime alla scena internazionale dopo la gestione della questione migratoria e del controllo delle frontiere. Con al – Burhan è stato anche il promotore dell’impegno di un contingente sudanese in seno alla coalizione guidata dall’Arabia Saudita nelle guerra in Yemen dal 2015. Ha conquistato una forma di legittimità internazionale davanti alle telecamere con Jean – Michel Dumond, rappresentante dell’Unione Europea, gli ambasciatori di Francia, Regno Unito, Paesi Bassi e dei rappresentanti della diplomazia americana. Si è anche recato il 24 maggio del 2019 in Arabia Saudita colloquiando con il principe Mohamed Ben Salman.
A partire dal 2010, si è progressivamente imposto come una soluzione di cambiamento contro l’ex uomo forte della guerra in Darfur, suo lontano cugino Moussa Hilal. Questo capo anziano Janjaweed*


*Nell’espressione colloquiale araba, significa “un uomo con un fucile ed un cavallo”. I miliziani janjaweed sono membri fondamentali delle tribù arabe nomadi che sono state a lungo in lotta contro i contadini “africani” del Darfur, dalla pelle nera. Il termine Janjaweed è stato per anni sinonimo di bandito, come combattenti con cavalli o cammelli noti per piombare nelle fattorie non-arabe e rubare bestiame. Le etichette arabe ed africane sono fuorvianti, data la complessità della storia etnica della regione.
I Janjaweed hanno iniziato ad assumure delle caratteristiche più aggressive nel 2003, dopo che due gruppi non arabi, Sudan Liberation Army e Justice and Equality Movement, imbracciano le armi contro il governo sudanese, accusandolo di essere maltrattati dal regime arabo a Khartoum. In risposta alla rivolta, le milizie Janjaweed hanno iniziato a depredare villaggi e città abitate dalle tribù africane da cui gli eserciti dei ribelli traevano la loro forza: le tribu Zaghawa, Masalit, Fur.

Nota bene. Questo conflitto è totalmente separato dalla Guerra civile di 22 anni che ha visto contrapposto il governo musulmano contro i ribelli cristiani ed animisti nella parte a sud del Paese. I Janjaweed che abitano la parte occidentale del Paese non hanno nulla a che fare con questa guerra.


Consigliere del president Omar Al – Bashir e capo della guardia di frontiera è stato ostracizzato dopo l’epurazione interna e catturato da Dagalo stesso nel novembre del 2017.
Diventa quindi nuovo capo del RSF, una forma mutante dei janjaweed, riconosciuta forza nazionale dall’agosto del 2013 sotto il patrocinio del National Intelligence and Security Service (NISS) e collegato alla presidenza. Il modo di comando e controllo delle RSF è relativamente opaco; le loro prerogative hanno sorpassato definitivamente quelle dell’esercito quando il RSF si è rafforzato nuovamente grazie alla legge frettolosa e contestata del gennaio del 2017 votata dal parlamento. Rapid Support Forces Act trasforma le RSF in un’entità semiautonoma collegata all’esercito regolare e beneficiaria di un budget considerevolmente aumentato, sotto il controllo diretto del Presidente.
All’interno del regime di al Bashir Dagalo accumula numerose funzioni; si è imposto come governatore dei margini del Paese, attraverso un controllo brutale del Darfur, dei campi di dislocati interni e rifugiati e di luoghi come Jabal Marra e altri punti chiave del Nilo azzurro e Mont Nouba. Si è imposto come prima guardia di frontiera nella regione della zona regionale con l’Eritrea e l’Etiopia. È diventato il promotore ambiguo della lotta contro il traffico di esseri umani in Sudan.
Combattente nella guerra in Yemen a fianco dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti è diventato anche magnate di una compagnia di sfruttamento delle miniere d’oro a Jabal Amir nel nord del Darfur, e ciò gli ha permesso di aumentare la potenza delle sue truppe.

fonte: Enciclopedia Britannica

SAF e RSF: similitudini

Si cerca di capire le differenze tra SAF e RSF, ma è molto più utile comprendere le loro similarità.

  • Entrambe hanno investito nel sistema sudanese;
  • entrambe hanno utilizzato e utilizzano la violenza per mantenere o accrescere la loro sfera di influenza.
  • Entrambe sanno che possono, alla fine, contare sul sostegno dei sistemi regionali dittatoriali che vogliono anche loro porre fine alla politica civile.


Al Burhan rappresenta la cleptocrazia dell’apparato militare – commerciale e del National Congress Party: un sistema oligarchico con molti e differenti elementi con interessi in comune. Molti islamisti che hanno conservato i loro affari o connessioni sono allineati con loro. I finanziamenti politici arrivano da imprese anche dei settori delle telecomunicazioni e del petrolio.
Al Burhan vuole guidare il Sudan come una cleptocrazia militare centralizzata.

Hemedti è un commerciante, possiede un impero famigliare d’affari centrato sul commercio dell’oro. Sebbene tali affari non siano grandi tanto quanto quelli della rete di al-burhan, Hemedti ha una capacità di spesa politica più grande e più discrezionale.

I riavali spenderanno più delle loro risorse per avere militari subordinati, attori politici e commerciali dalla loro parte. A sua voltà ciò intensificherà il loro incentivo all’accumulazione primitiva, estorsione saccheggio, promesse di futuri pagamenti a padroni esterni.

Al Burhan e Hemedti alternano collusione a rivalità. Essi colludono di fronte ad una minaccia comune: governo civile che si muove seriamente lungo l’agenda di esporre i loro accordi corrotti e smantellare il complesso militare – commerciale. Diventano aspri rivali su chi controlla il processo di reintegrazione militare e la riforma del settore di sicurezza.


Anatomia del fallimento della transizione


Stabilizzazione economica

Era essenziale fermare la crisi economica, guadagnare la credibilità popolare e concedere ai tecnocrati civili qualche potere rispetto ai militari.

Il ritardo dei donatori nel rimuovere le sanzioni e fornire aiuti per il debito hanno annientato Hamdok – ex Primo ministro – come attore politico serio e credibile.


Settore Riforma Sicurezza.

Un compito vasto e complicato che include la riduzione della dimensione e dei costi immensi del settore difesa, integrazione e professionalizzazione delle forze armate. Quando i civili hanno iniziato a compiere dei seri sforzi per esporre le reti commerciali militari, i soldati hanno organizzato un coup.


Peace negotiation

Un tavolo negoziale senza i gruppi armati. I gruppi armati hanno dunque compreso che i civili non avevano né il denaro né il controllo del settore sicurezza, hanno concluso l’accordo di Pace di Juba con i militari e si sono uniti al governo su queste basi.


Costruire le istituzioni democratiche.

Esercizio di retorica del tutto inutile e futile. Quando il Primo ministro civile lavorava come cassiere in un negozio che vendeva saponi, i signori della guerra si accordavano per la vendita della droga. Alcuni civili tra cui il Sudan Communist Party si sono rifiutati di impegnarsi in un lavoro politico di democratizzazione
Dopo il coup dell’ottobre del 2021, lo sforzo di mediazione del Tripartito si è concentrato sul riparare una formula di power-sharing nella speranza che le questioni più profonde fossero poi affrontate in rapida successione. Quando le negoziazioni si avvicinavano alla fine, i messaggi ottimisti del mediatore non sono stati sufficienti: la questione del controllo dell’esercito non è stata mai affrontata.

Uno sguardo al breve e medio periodo


Gli analisti dei conflitti spesso compiono l’errore di asserire che le vittorie e le sconfitte tattiche determineranno il risultato.

Al Burhan e le SAF detiene vantaggi di breve termine, e con molta probabilità esagererà come i suoi predecessori. Al Burhan muoverà contro le RSF assetti commerciali e finanziari, le SAF vogliono il controllo delle miniere d’oro e delle rotte di traffico illegali.

Le RSF vogliono interrompere le arterie di trasporto principali incluso la strada da Port Sudan a Khartoum.
Le risorse materiali ed organizzative per sostenere uno sforzo di guerra intenso saranno velocemente esaurite. La fase odierna può essere sostenuta per mesi, ma si trasformerà velocemente in un conflitto meno intenso, ma più diffuso con parti frammentate che si contendono il controllo di differenti luoghi, molte delle quali cambieranno casacca a seconda dell’opportunità. Emergerà una milizia locale rurale, i comitati di resistenza urbana potrebbero imbracciare le armi. Emergeranno fattori etnici, anche se ora la divisione è regionale e non etnica anche questa dinamica potrebbe trasformarsi.

Che fare?


Concentrarsi sui due attori principali per ragioni di semplicità e velocità o includere altri?
Concentrarsi sui generali rischia di consolidare il dominio dei cleptocrati armati. Sarebbe il tradimento finale ai rivoluzionari civili sudanesi. Sarebbe di poca utilità per affrontare le sfide del SSR e sdradicare i signori della guerra che hanno depredato lo Stato sudanese.
L’inclusione di altri gruppi armati crea il problema perverso dell’incentivo di incoraggiare fratture e nuovi gruppi armati. La strategia diplomatica di rappacificazione non ha prodotto niente se non calamità.
L’avidità e la crudeltà dei due generali è senza limiti, e se non vengono dissuasi in termini di giorni, i prospetti di una pace in Sudan sono sottili e per la democrazia ancora più remoti.

Scappare evidentemente non è una soluzione, ma la dimostrazione del fallimento della diplomazia in Sudan. Grazie a chi ha voluto scrivere consapevolmente questa triste pagina.

Aprile 20 2023

Sudan, quo vadis?

Sudan

Come siamo arrivati ad oggi?

2019: Transizione. Che vuol dire? Ricostruire un intero sistema politico e sradicare l’eredità di al-Bashir.

Con la dissoluzione del Partito del Congresso nazionale la necessità era quella di creare un nuovo partito e di elaborare un nuovo sistema elettorale.

Il conflitto si è intensificato dopo mesi di tensione tra il Consiglio al potere, dominato dall’influenza dell’esercito sudanese del Generale Abdel Fattah al-Burhan ed il generale Mohammad Hamdan Dagalo (aka Hemedti) il vice comandante del Consiglio e comandante del Rapid Support Forces (RSF), una organizzazione paramilitare composta principalmente dalle milizie Janjaweed che hanno combattuto in vece di Khartoum durante la guerra in Darfur.

Né la leadership militare né l’opposizione hanno una chiaro programma per affrontare la grave crisi economica, pur tuttavia ritornare ad un governo civile potrebbe attrarre nuovi ingenti aiuti.

Ibril Ibrahim, ex leader ribelle ed odierno ministro delle finanze, ha pianificato di compensare il deficit finanziario attraverso la tassazioni e i profitti derivanti dall’oro. La Banca Centrale del Sudan indica dei progressi in relazione all’aumento delle esportazioni d’oro, ma è troppo presto per capire se ciò bilancerà la perdita di introiti dei donatori internazionali. Dopo il coup del 2021, gli Stati Uniti, la Banca Mondiale, la Germania e altri alleati americani hanno congelato i pacchetti di aiuto a Khartoum. Il rilascio di fondi é condizionato al ripristino del governo civile. Realizzare l’accordo quadro sbloccherebbe molti aiuti necessari per far fronte al rapido aumento dei prezzi del cibo, alla caduta della moneta sudaneseed anche alla scarsità di elettricità.

L’esercito sudanese guidato da al-Burhan che ha condotto il coup militare nel 2021 ha fermato la transizione democratica.


Anche se Dagalo e le RSF prevalessero nel conflitto, è probabile che si apra un lungo periodo di instabilità che posticiperà la transizione pianificata.

Tale accadimento avrà presumibilmente la conseguenza di proteste di massa tra la popolazione a cui è stata promessa la democrazia dalla caduta di Bashir nel 2019.
I leader militari che hanno deposto Bashir nel 2019 dapprima hanno condiviso il potere con i leader civili, poi sia al-Burhan che Dagalo al tempo uniti, riprendono il potere attraverso un altro coup militare nell’ottobre del 2021 e cancellano il trasferimento di potere promesso. Le proteste pubbliche hanno come risultato una negoziazione verso un accordo che prevede che i militari si ritirino dalla politica e banditi da affari non – militari. L’accordo quadro firmato nel dicembre del 2022, include una revisione dell’apparato di sicurezza che alla fine conduca ad un esercito nazionale professionale unito e la nomina di un Primo Ministro che formerebbe un governo per condurre il Paese alle elezioni in un termine di due anni. L’11 aprile 2023 era la data prevista per l’avvio del piano di transizione democratica, quarto anniversario della caduta di Bashir. Al-Burhan ha esitato nella realizzazione del piano, tensioni, e minacce tra lui e Dagalo si sono intensificate fino allo scoppio della violenza del 15 aprile.

La situazione del Sudan inserita nel quadro Regionale ed Internazionale

La violenta lotta di potere è manovrata dai vicini del Sudan, dall’Occidente e dalla Russia.

Il principale vicino del Sudan, l’Egitto vede al-Burhan come una forza stabile ed il Cairo lo sostiene militarmente. La Libia attraverso Haftar – che sappiamo essere sostenuto dagli Emirati Arabi Uniti e dalla Russia – ha già inviato munizioni al Gen. Dagalo.
Mosca si pone come obiettiv: l’accesso ai porti del mar rosso dal Sudan per le sue navi da guerra e le miniere d’oro. Il Wagner è a capo delle attività russe in Sudan offrendo addestramento ed armi al RSF. Dalgado e il suo RSF controllano la maggior parte delle miniere d’oro.
Gli Emirati Arabi Uniti hanno dichiarato un valore pari a 1.77 miliardi di dollari di importazioni di oro dal Sudan nel 2020 e tanto quanto il 90% dell’oro del Sudan è trafficato illegalmente fuori dal Paese e spesso convogliato attraverso gli Emirati.
Il leader del Wagner Evgeny Progozhin è proprietario di un’entità (oggetto di sanzioni degli Stati Uniti) M Invest e la sua società sussidiara Meroe Gold opera in Sudan.
Abu Dhabi ha mantenuto delle strette relazioni con Dagalo il quale può contare anche su legami con elementi al di fuori del Paese, incluse le unità del Wagner presenti nella Repubblica Democratica del Congo, dove la PMC russa cerca accesso alle risorse naturali.
Fin dallo scorso anno sono stati compiuti tentativi di mediazione di un nuovo accordo tra i militari e le Forces of Freedom and change – FFC – , il gruppo di opposizione civile creato durante le proteste del 2018-2019.
L’iniziativa principale guidata dalla missione UN a Khartoum, UNITMAS di dialogo indiretto tra FFC e i militari sudanesi ha avuto scarso successo. Prima del coup del dicembre del 2021, si verifica inoltre, una divisione interna al FFC, disaccordo che si amplia quando i gruppi ribelli sostengono la presa al potere da parte dei militari.

Sicurezza transfrontaliera

I conflitti transfrontalieri hanno ripreso il loro ciclo di violenza con scontri tra le milizie etiopi Amhara e le forze sudanesi lungo la frontiere ad est del Paese, che è diventata più sicurizzata dalla guerra nel Tigray.

Quindi?

I leader politici che arrivano al potere attraverso coup militare con maggiore probabilità usciranno di scena attraverso coup. Fondere le RSF con l’esercito sudanese ridurrebbe questo tipo di rischio da coup.

Non vi sono vincitori. Né al-Burhan nè Degalo posso sopravvivere politicamente da sé stessi.