Luglio 20 2016

Erdogan: l’asso piglia tutto. Chi perde è la democrazia.

Erdogan

Se avete applaudito al fallito coup in Turchia sappiate che chi ha perso è la democrazia.

Non c’è nessuna ragione per pensare che la democrazia in Turchia sia rafforzata perché il coup d’état è fallito. Erdogan ha risposto epurando tutti i suoi nemici, reali ed immaginari, e spingendo sull’acceleratore di nuovi poteri che porteranno la reputazione della Turchia indietro di secoli, così come la sua economia e la sua capacità di essere stato leader, costruttivo per la Regione.

Erdogan ha vinto la Turchia ha perso

Per qualche tempo le tensioni in Turchia si sono dipanate attorno ai piani ambizioni di Erdogan di espandere i poteri della presidenza. Le sue mosse sempre più crescenti ed insistenti di eliminare l’opposizione e di espandere la sua autorità hanno iniziato a preoccupare seriamente molti. Ci si chiede se la Turchia possa essere l’eccezione alla regola che dice che i paesi con una forte classe media non riescono a far  regredire le dittature.
La Turchia ha fatto esperienza di quel tipo di sfide che forzano i leader a rafforzare la loro presa: multipli attacchi terroristici contro locali pubblici e turistici. Di nuovo in guerra con i curdi del PKK (Kurdistan Workers Party), i milioni di rifugiati siriani.
L’ascesa di un partito islamico come quello di Erdogan: Justice and Development Party (AKP) è stato un anatema per i militari che si vedono come il bastione del secolarismo e i guardiani della democrazia. Tuttavia Erdogan nel suo primo anno in carica ha efficacemente ri-bilanciato le relazioni civili – militari, facendo in modo che non avessero più desiderio di inserirsi di nuovo nella vita politica del paese.

Alcune curiosità sul coup

Questo coup non ricade nella dicotomia “secolare contro religioso” della moderna Turchia. Ci si sarebbe aspettati che i cospiratori del coup fossero particolarmente preoccupati dall’agenda islamica di Erdogan, ma non è stato questo non il caso. Sembra, piuttosto che abbiano agito perché il governo stava per purgare i militari e i supposti sostenitori di Fethulah Gulen, un influente religioso/uomo d’affari (vive negli Stati Uniti) che una volta era un alleato di Erdogan, ma adesso è considerato come un nemico dello Stato. Così questi militari hanno agito apparentemente per prevenire ogni mossa contro i “gulenisti”.

Erdogan è l’asso piglia tutto

I numeri di questa epurazione ci suggeriscono che il governo è stato a lungo impegnato a scrivere una lista dei suoi nemici per poterne tirare fuori una come questa:
– 3,000 giudici
– 8,000 ufficiali di polizia
– 3,500 soldati
– 120 generali e ammiragli
– 492 religiosi
– 257 funzionari nell’ufficio del Primo Ministro.

Un secondo aspetto ironico della vicenda è che sia i militari che i media turchi (spesso assediati) hanno aiutato a invertire il coup. I primi  hanno aiutato Erdogan a scappare da un resort di vacanze solo pochi minuti prima che i carri armati bloccassero le strade e i media hanno permesso che il presidente diffondesse il suo messaggio di mobilitazione al pubblico attraverso i social media sulla televisione nazionale. Militari e media sono due istituzioni per cui Erdogan ha personalmente mostrato disdegno ed ha sempre cercato di diminuire la loro influenza.
Un’altro aspetto tristemente ironico è il grande costo economico di questa crisi. Il successo politico di Erdogan nella scorsa decade e mezza si è basato sulla sua promozione della Turchia come centro globale per il commercio ed il turismo; sulla responsabilizzazione di piccoli imprenditori che non erano parte dell’elite.

Le ferite che si è auto – inflitto per la sua ambizione presumibilmente porteranno dolori economici per lungo tempo a molti dei suoi sostenitori. Il settore turistico è già stato colpito da attacchi terroristici e dal boicottaggio russo, la nuova incertezza politica aggraverà il problema.

Alcuni dei suoi vicini non democratici preferirebbero un leader forte decisivo.

Ed ecco quindi che dopo le prime celebrazioni del coup fallito, maldestramente fatte anche dal Presidente del Consiglio italiano, si sostituiscono alla sensazione che la Turchia dovrà combattere per riottenere il suo equilibro democratico.

Giugno 28 2016

Art. 50 Trattato di Lisbona: se non lo sai sallo!

Art. 50

Per chi si è chiesto almeno una volta: “cosa prevede l’art. 50 (clausola di recesso) del Trattato di Lisbona?”, ecco la risposta.

Nel fiume incontrollato di informazioni tragiche (alle volte comiche) che si rincorrono su ogni mezzo di comunicazione, facciamo un breve viaggio nell’art. 50 del Trattato di Lisbona, la c.d. clausola di recesso.

Prima di iniziare il viaggio, una breve considerazione politica. Uno spunto in più per disegnare le vostre idee sulla vicenda della Brexit.

Giochi di palazzo

Quando il primo ministro David Cameron, nel gennaio 2013, ha promesso agli inglesi che avrebbero potuto dire la loro sulla posizione futura del loro paese nell’Unione Europea (UE), l’ha fatto per ragioni ciniche. Sperava che avrebbe definitivamente messo ko la crescente minaccia dalla destra nazionalista, dell’Independence Party, al suo partito ed era sicuro di mettere a tacere molti euroscettici nel suo stesso partito conservatore. Voleva, inoltre, porre il Labour Party sulla difensiva presentando il suo partito come più supportivo di una democrazia più diretta.

La circostanza che onestamente trovo ilare è che la maggior parte dei politici che si oppongono alla Brexit, incluso lo stesso Cameron e l’ex primo ministro Gordon Brown, hanno speso la loro intera carriera a criticare l’UE e Bruxelles. Adesso si trovano in questa posizione scomoda di difendere un’organizzazione di cui sono stati largamente scettici.

Art. 50 Trattato di Lisbona

Primo comma

Il primo comma dell’art. 50 prevede che “ogni Stato membro può decidere di recedere dall’Unione in accordo con le proprie esigenze costituzionali”. Secondo questo articolo la decisione di lasciare l’UE non è di immediata esecuzione (self-executing), neppure ha un effetto immediato. Piuttosto, lo Stato in questione deve per prima cosa “notificare al Consiglio Europeo la sua intenzione” di lasciare l’Unione; notifica che da avvio ad un processo di negoziazione per il recesso.

Secondo comma

La speranza, stabilita nel secondo paragrafo dello stesso articolo, è che i restanti membri dell’UE e la nazione che vuole recedere dal Trattato, “concluderanno un accordo stabilendo le disposizioni per il suo recesso, prendendo in considerazione la realizzazione di una “cornice” per la sua futura relazione con l’Unione”. Tale accordo deve essere approvato da una maggioranza qualificata del Consiglio (20 dei 27 membri), dal Parlamento Europeo e del Regno Unito stesso.

Terzo comma

Il terzo paragrafo specifica che il Trattato di Lisbona (e, implicitamente tutte le altre leggi dell’UE) “devono cessare di applicarsi” allo Stato alla data in cui l’accordo di recesso entra in vigore.

Se non si raggiunge un accordo, l’appartenenza all’UE cessa “2 anni dopo la notifica” di recesso, a meno che il Consiglio e il Regno Unito  si accordino all’unanimità per un’estensione. Una volta che il Regno Unito è ufficialmente uscito dall’UE, potrebbe tornare ad essere Stato membro solo seguendo le procedure stabilite dal Trattato di Lisbona applicabili agli Stati che vorrebbero aderire all’UE per la prima volta.

Quindi?

Il Regno Unito è ancora uno Stato membro dell’Unione e lo rimarrà fino a quando il governo inglese non notificherà formalmente al Consiglio Europeo il suo intento di recedere. L’articolo 50 non dice niente, sul quando e da chi deve essere presentata questa notifica. Presumibilmente, dal primo ministro. Prima del voto David Cameron ha dichiarato che avrebbe informato il Consiglio Europeo subito dopo il “leave vote”. Giovedì scorso ha annunciato che la notifica sarà presentata dal suo successore che s’insedierà in carica ad ottobre. Perché? Avendo condotto una campagna contro la Brexit e avendo perso, Cameron vuole che sia qualcun altro ad azionare il motore del processo di recesso del paese.

Quindi finché il Regno Unito non gira la clessidra dei due anni per l’uscita, ha una sorta di vantaggio politico nelle negoziazioni con gli altri 27 stati membri.

Per quanto tempo il Regno Unito può procrastinare la notifica?

L’art. 50 non lo dice. Le conseguenze negative sia economiche che politiche sicuramente spingeranno le due parti al tavolo di negoziato senza tenere in considerazione il momento temporale in cui il Regno Unito presenterà la notifica di recesso.

Contrariamente a quanto qualcuno ha dichiarato, tuttavia, le negoziazioni di recesso non risolvono necessariamente in maniera conclusiva lo status di Londra vis-à-vis con Bruxelles. Come ricorderete, il secondo comma dell’art. 50 richiede che l’accordo di recesso “prenda in considerazione la realizzazione di una “cornice” per la futura relazione (del Regno Unito) con l’Unione”. Se i dettagli dello status del Regno Unito dopo il recesso possono essere finalizzati in un momento successivo, la legislazione dell’UE cessa di applicarsi al Regno Unito nel momento in cui l’accordo di recesso entra in vigore.

Giugno 15 2016

Strage di Orlando: motivazioni personali con marchio ISIS

strage di Orlando

Riveste un’importanza vitale distinguere tra attacchi “ispirati all’ISIS” e “diretti dall’ISIS”.

La strage di Orlando sembra più il tentativo di una persona carica di odio di avere uno status, un pubblico.

Questo attacco non si inserisce nel quadro di attacchi diretti al raggiungimento degli obiettivi dell’organizzazione estremista, ma piuttosto come l’azione di un meschino che con il marchio ISIS ha cercato di raffigurare il suo atto come eroico.

I primi rapporti dalla strage indicano che Omar Mateen è un lupo solitario: vale a dire un individuo che è ispirato dall’ideologia di un gruppo estremista ma che non è sotto il controllo operativo dell’organizzazione. Dunque è necessario riconoscere la differenza tra attacchi “ispirati dall’ISIS” e “diretti dall’ISIS”. Gli attacchi ispirati dall’ISIS molto più probabilmente sono amatoriali.

La strage di Orlando ci mostra cosa un solitario con le giuste armi può fare, ma quando l’ISIS dirige un’attacco, come quello di Parigi, beh i risultati sono molto più sanguinosi.

Strage di Orlando: motivazioni personali sotto il marchio dell’ISIS

Ad Orlando, come a San Bernardino lo scorso dicembre, sembra proprio che l’attacco sia un misto di motivazioni personali con il marchio dell’ISIS. Dal momento che i lupi solitari operano per conto loro, le loro agende personali spesso si mischiano e confondono a quelle del gruppo estremista a cui loro dichiarano di appartenere. Dai rapporti degli investigatori sappiamo che Mateen era un omofobo: suo padre racconta che il figlio diventava nervoso quando vedeva due uomini baciarsi.

Sebbene l’ISIS non abbia mostrato particolare amicizia per gli omosessuali non sono particolarmente in alto nella loro lista, e la loro propaganda in Occidente non si è focalizzata su di loro in maniera pressante.

L’Islam utilizzato per giustificare azioni di individui sull’orlo della violenza e dargli uno status ovvero un pubblico.

La strage di Orlando sembra rappresentare la dinamica per cui l’Islam è usato da un individuo già sull’orlo della violenza per giustificare le sue azioni e dargli uno status o almeno un pubblico, come è appena successo a Mateen. La sua ex – moglie ha dichiarato che era violento nei suoi confronti e non  particolarmente zelante nella fede.

Lo stile degli attacchi dell’ISIS è differente

Negli attacchi diretti dall’ISIS a Parigi abbiamo visto molteplici attentatori che lavoravano in gruppi. Il bilancio finale delle vittime, 130 ci suggerisce molto sulla loro efficacia. Alcuni dei cospiratori dell’organizzazione sono stati in grado di adottare un basso profilo e la loro connessione gli attacchi di Parigi, si è scoperta molti mesi dopo.

Sia a San Bernardino che ad Orlando, invece, il sospettato è diventato la vittima come parte della risposta all’attacco, diminuendo gli effetti psicologici che avvengono quando un attentatore attivo è ancora libero di tramare qualcosa.

I più recenti attacchi ispirati all’ISIS non mostrano una logica simile che li collega agli obiettivi dell’organizzazione (obiettivi simbolici o di importanza militare), ma piuttosto sembrano più il tentativo di un tiratore di far apparire il suo atto come eroico.

Che fare?

Fermare gli attacchi dei lupi solitari è davvero molto difficile. Viste le leggi permissive  per l’acquisto di armi negli Stati Uniti, anche qualcuno come Mateen che ha presumibilmente abusato di sua moglie e ripetutamente oggetto di investigazioni dell’FBI, può comprare un’arma automatica perché non ha ancora apertamente sostenuto un gruppo estremista.
Si potrebbe promuovere un senso di resilienza e evitare di demonizzare i musulmani (in questo caso americani).

In conclusione, a mio avviso, è necessario riconoscere che individui Omar Mateen debbano essere raffigurati come persone cariche di odio e meschine, ma non come rappresentative di una minaccia più ampia tra i musulmani o come parte di complotto grandioso dell’ISIS.

*immagine: http://www.pinknews.co.uk/

Maggio 24 2016

Hezbollah: il partito di Dio con la legge del terrore

Hezbollah

Hezbollah significa partito di Dio. Un gruppo che ha usato ed usa la tattica del terrorismo, che controlla territorio in Libano di fatto sostituendosi allo stato.

Cerchiamo di capire l’ideologia, gli obiettivi, le risorse, gli amici e i nemici di questa organizzazione. Soprattutto vedremo quale impatto ha avuto ed ha la guerra civile in Siria su Hezbollah.

Hezbollah: l’ideologia e gli obiettivi

Gruppo sciita. Secondo il manifesto del gruppo del 1985, gli obiettivi erano quelli di distruggere Israele, espellere l’influenza occidentale dal Libano e più in generale dal Medio Oriente e combattere i loro nemici in Libano, particolarmente il Phalanges party. Nel manifesto si affermava anche di voler “permettere” ai libanesi di scegliere un governo ad una condizione: solo un regime islamico poteva far terminare ogni ulteriore tentativo di infiltrazione imperialistica nel paese. Quando la base di Hezbollah si allarga e include sciiti più moderati, i leader dell’organizzazione: Hassan Nasrallah e Na’im Qassem evidenziano che il manifesto è oramai disconnesso con le operazioni e gli obiettivi del gruppo.

HezbollahUn nuovo manifesto del 2009 riflette i cambiamenti dell’organizzazione e del suo ruolo in Libano. Enfatizza l’unità nazionale e denuncia il settarismo, non da più come sola opzione la governance islamica per il futuro del Libano. Tuttavia, continua a sottolineare che il suo obiettivo è quello di liberare la Palestina, la sua opposizione agli Stati Uniti e il suo impegno a combattere l’espansione e l’aggressione di Israele.

Hezbollah: risorse

Hezbollah è sostenuto dall’Iran dalla Siria e da una rete di finanziatori nel mondo, specialmente nella penisola arabica, Europa, Medio Oriente e Stati Uniti. Molti dei suoi fondi arrivano da donazioni private e da profitti generati dai affari leciti ed illeciti. Gruppi ed individui sostengono Hezbollah all’estero: dal commercio dei diamanti in Sierra Leone alle frodi delle carte di credito negli Stati Uniti.
La maggior parte dei membri di Hezbollah sono sciiti libanesi, ma l’organizzazione ha la capacità di reclutare a livello globale.
Dalla creazione di Hezbollah, l’Iran e le sue Guardie Rivoluzionarie hanno giocato un ruolo importante nell’addestramento, rifornimento e finanziamento del gruppo. Le Guardie Rivoluzionarie hanno addestrato migliaia di militanti e continuano a fornire supporto.
Il governo siriano ha ricoperto un ruolo chiave come via di rifornimento per le armi dall’Iran ad Hezbollah, anche fornendo direttamente armi al gruppo.

Hezbollah: attività politiche

Hezbollah è attivo nella politica libanese come partito politico. Tuttavia, prima che formasse un partito ufficiale dopo gli accordi di Taif nel 1989, il gruppo partecipava al discorso della politica nazionale attraverso i media. Poi nel 1984 pubblica il settimanale al – Ahad e di seguito inizia la produzione di due stazioni radiofoniche. Nel 1989 crea la sua stazione televisiva  Al – Manar. Attraverso questi mezzi di comunicazione forniva un commento alla politica, assieme alle notizie, ai programmi culturali, islamici e la propaganda associata con la battaglia dell’organizzazione contro Israele e le forze occidentali.
Il partito si presenta alle elezioni nazionali per la prima volta nel 1992 e vince 8 seggi alle elezioni parlamentari. Da questo punto in poi ha regolarmente vinto circa il 10% dei seggi parlamentari.
Nel Maggio del 2008 il governo inizia a seguire un piano per chiudere la rete privata di telecomunicazione di Hezbollah, la violenza scoppia nelle strade di Beirut. Speculazioni che la violenza avrebbe dato vita ad un coup d’etat rientra quando la Lega Araba media un accordo tra il governo ed Hezbollah. L’accordo, chiamato Accordo di Doha, assegnava ad Hezbollah il potere di veto nel governo e prometteva che nessun gruppo politico potesse usare le armi in dispute all’interno del paese.

Hezbollah: principali attacchi terroristici

  • 23 ottobre 1983: attacco suicida alle caserme americana e francese a Beirut furono uccisi 241 americani e 58 francesi. Sebbene non sia mai stato rivendicato dal gruppo, molti analisti sono d’accordo nell’affermare che l’autore dell’attentato sia stato Hezbollah. A seguito di ciò, Reagan ritira i marines americani dal Libano.
  • 17 marzo 1992: una bomba su un camion esplode all’ambasciata israeliana a Buenos Aires, uccidendo 29 e ferendone 242.
  • 25 giugno 1996: attacco bomba al complesso di case Khobar Tower in Arabia Saudita, uccidendo 19 persone.
  • 14 febbraio 2005: una bomba su un auto uccide l’ex primo ministro Rafiq al – Hariri uccidendo altre 21 persone. Nel 2011 il Tribunale Speciale delle Nazioni Unite per il Libano accusa 4 membri di Hezbollah per l’attentato.
  • 18 luglio 2012: bomba su un bus israeliano in tour in Bulgaria, 5 israeliani morti più il conducente del bus.
  • 28 gennaio 2015: missile anticarro verso soldati israeliani nella disputa sull’area Har Dov tra il Libano e la Siria, due morti. Nello stesso giorno un altro incidente alla frontiera tra Israele ed Hezbollah, un membro della Forza Interim UN viene ucciso.

Hezbollah: relazioni con la comunità libanese

Durante la guerra civile libanese,

Hezbollah

lo stato spesso era inefficiente come fornitore di servizi, così organizzazioni di servizi civili, incluso Hezbollah, hanno iniziato a giocare un ruolo significativo nella fornitura di servizi essenziali ai cittadini libanesi, soprattutto agli sciiti. Il governo è spesso accusato anche di ignorare i bisogni dei cittadini del sud del Libano, dove sono concentrati gli sciiti e dove Hezbollah mantiene il suo quartier generale. In questo contesto, di una comunità marginalizzata, Hezbollah sviluppa la sua capacità di fornitura di servizi sociali. Si guadagna la reputazione di movimento dei poveri dal 1980. Profondamente immesso nel tessuto sociale sciita libanese, usa il raggio d’azione sociale per cementare il supporto politico, recluta nuovi membri e diffonde la sua interpretazione dell’Islam. Nel sud del Libano apre scuole, ospedali, raccoglie i rifiuti, fornisce assistenza finanziaria e fornisce acqua potabile.
Per realizzare questo tipo di lavoro, l’organizzazione comprende un settore di servizi sociali organizzato da molteplici ONG raggruppate attorno a tre rami: unità sociale, unità sanitaria islamica ed unità educativa. Il lavoro dell’unità sociale abbraccia numerose aeree dalla costruzione di infrastrutture al sostegno alle famiglie dei membri del gruppo uccisi o alle vittime civili dei bombardamenti israeliani del sud del Libano del 2006. L’unità sanitaria include un certo numero di ospedali e cliniche, in aggiunta a programmi di salute. L’unità di educazione fornisce borse di studio e mette in funzione scuole.

Hezbollah: oggi

In un discorso del 20 maggio 2016, il leader di Hezbollah promette di rafforzare la presenza del gruppo in Siria. Dopo una settimana dall’uccisione a Damasco di Mustafa Badreddine, un prominente comandante di Hezbollah. Sebbene alcuni rapporti indichino che è stato ucciso in un bombardamento israeliano, la versione ufficiale di Hezbollah asserisce che il comandate è stato ucciso da bombe d’artiglieria di terroristi “takfri” (apostati). Mustafa Badreddine è stato responsabile di alcuni degli attacchi più spettacolari del gruppo incluso il bombardamento del 1983 alle caserme degli americani a Beirut. La sua morte è più di un segnale che la posizione del gruppo in Siria sta cambiando.
Quando il gruppo ha iniziato a mandare combattenti in Siria nel 2012, lo ha fatto senza darne pubblicità. Il leader del gruppo sapeva che la sua organizzazione aveva molto da perdere in ammettere che stava dalla parte di un dittatore in una rivoluzione popolare. Hezbollah più che aiutare il dittatore, in realtà aiutava se stesso.
Nasrallah alla fine ammette pubblicamente il sostegno ad Assad ed al suo padrone, l’Iran, dichiarando “la battaglia è nostra”.
La Siria ed il Medio Oriente sono molto differenti dal 2012. L’Iran è parzialmente tornato in carreggiata per via dell’accordo internazionale sul programma nucleare. La Russia è intervenuta a fianco di Assad. La rivalità tra l’Iran e i suoi vicini arabi è diventata più aspra. Lo stato islamico è diventato un giocatore maggiore, circostanza che ha aumentato le rivendicazioni di Assad come sola alternativa al terrorismo nel paese.

Hezbollah: il prestigo che scema

Senza dubbio, il prestigio di Hezbollah nel mondo arabo è precipitato. La sua immagine di nemico solitario di Israele si è appannata. Ha assunto il ruolo di colui che intensifica la divisione regionale sunniti – sciiti, con conseguenze disastrose per la sua reputazione negli stati governati dai sunniti.

hezbollahA marzo 2016, il Gulf Cooperation Council – GCC –  (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Bahrain, Oman, Qatar) hanno votato all’unanimità la classificazione di Hezbollah come organizzazione terroristica. La mossa arriva all’indomani della scoperta (agli inizi di quest’anno) di una serie di piani terroristici che coinvolgevano operativi di Hezbollah nei paesi arabi, incluso uno in Bahrain. In Kuwait 25 persone sono state accusate di spionaggio per conto dell’Iran ed Hezbollah e di pianificare attacchi; inoltre è stato scoperto in loro possesso un quantitativo di armi che includeva lancia razzi, fucili e granate.
Dopo la decisione del GCC, l’intera Lega Araba si è aggiunta alla classificazione del gruppo come organizzazione terroristica. Solo il Libano e l’Iraq hanno espresso “riserve” circa la designazione. Con questa mossa, il GCC e la Lega Araba si sono aggiunti agli Stati Uniti, al Canada e all’Australia nel classificare Hezbollah come un’entità terrorista. L’Unione Europea chiama solo il braccio militare di Hezbollah organizzazione terrorista.
In aggiunta a questo, Hezbollah ha perso un gran numero di militanti sul campo di battaglia siriano. Tra i morti ci sono anche i più alti operativi e strateghi del gruppo incluso Imad Mughniyeh e Samir Kuntar, in aggiunta a Badreddine. Queste perdite sono un serio colpo per il gruppo, che con tutta probabilità avranno conseguenze durevoli.
Hezbollah ha guadagnato una inestimabile esperienza militare in Siria. Quando la guerra finirà emergeranno rafforzati nella battaglia, addestrati all’uso di equipaggiamenti militari più avanzati ed esperti in tattiche da combattimento incluso quelle sviluppate dall’Iran e dalla Russia.
Molti esperti di intelligence credono che Hezbollah abbia rimpiazzato gli armamenti che ha perso nel 2006 sorpassando i precedenti livelli.

Hezbollah: impatto della guerra in Siria e futuro

L’organizzazione si è evoluta da quando l’Arab Spring ha scosso la regione: ha mantenuto la sua ostilità nei confronti di Israele e degli Stati Uniti, ma è diventato un giocatore prominente nella politica libanese e nella società, si è gradualmente allontanato dall’obiettivo di importare una rivoluzione islamica stile – Iran.
La Siria è costosa per il gruppo, nei 5 anni di conflitto, la grande quantità di vittime tra le loro fila li ha portati, forzatamente, ad espandere il reclutamento. La guerra civile in Siria sta anche mettendo a rischio la posizione di Hezbollah in Libano, nella forma di rifugiati e di radicalismo settario che  turbano la delicata pace nella nazione.
La guerra civile siriana ha avuto un effetto trasformatore sull’immagine pubblica di Hezbollah. Sebbene il gruppo fu stabilito per combattere contro gli interessi della comunità libanese sciita durante la guerra civile in Libano, l’obiettivo principale è stato quello di espellere Israele cosa che ha fatto nel 2000. Ciò ha reso ampiamente popolare Hezbollah nel mondo arabo e musulmano.
Sostenere il regime di Assad è stato disastroso per la reputazione di Hezbollah di movimento di resistenza che combatte i sionisti e i nemici occidentali. Come uno dei gruppi più effettivi militarmente a favore degli interessi di Assad e dell’Iran, è stato denigrato in tutto il mondo sunnita. La recente designazione da parte del GCC e della Lega Araba come organizzazione terroristica, sebbene Hezbollah abbia una lunga storia di terrorismo, mostra il significativo spostamento nelle percezioni regionali.

La perdita della popolarità del gruppo potrebbe iniziare a sbiadirsi alla fine della guerra in Siria. Nasrallah si vorrà confrontare con Israele appena potrà. L’obiettivo principale del gruppo e la missione del suo alleato di lungo corso, l’Iran, resta quella di sfidare Israele. Quando un nuovo ed inevitabile scontro tra Israele ed Hezbollah avverrà, il supporto popolare per il gruppo con tutta probabilità aumenterà di nuovo. Nasrallah è già al lavoro per incitare questo supporto. In un recente discorso si è vantato di un piano per attaccare Israele e causare danni paragonabili a quelli di un attacco nucleare. Il suo piano, ha detto, è di lanciare missili ad una grande infrastruttura chimica nel nord nella città di Haifa, dove depositi di cisterne di ammoniaca, se colpiti possono causare devastazione.

L’impatto finale della guerra siriana su Hezbollah dipenderà da come finirà il conflitto. Se terminasse con un accordo di divisione del potere che porta alla fine il governo di Assad e di altri fedeli iraniani a Damasco, Hezbollah avrà perso molto nel conflitto. Se Assad sopravvivesse i sostenitori dell’Iran – Hezbollah e Assad – verrebbero generosamente ricompensati con armi, denaro e con tutta probabilità accesso al territorio strategicamente utile vicino alla frontiera con Israele. In questo caso Assad rimarrebbe debitore in eterno di Hezbollah ed il gruppo emergerebbe più forte.

Maggio 16 2016

Fratelli Musulmani: fratelli serpenti?

Fratelli Musulmani

I Fratelli musulmani, nati come movimento sociale in Egitto, sono stati banditi in diversi paesi come organizzazione terroristica. Sono davvero pericolosi?

I Fratelli Musulmani sono fondamentalmente un movimento sociale islamico, che educa i suoi membri a vedere prima di tutto il valore del servizio, attraverso le lenti della religione. Un aspetto centrale per il fondatore Hassan al – Banna e caratteristica che definisce i contemporanei Fratelli Musulmani è che il servizio ai concittadini è un atto di costruzione della proprio paese e un atto di servizio per la propria popolazione.
I movimenti islamici come i Fratelli Musulmani sono interessati nel preservare le strutture come lo stato – nazione, dall’altra parte, alcuni gruppi salafisti e molti gruppi jihadisti non condividono questa prospettiva. Questi ultimi non vedono le persone dei loro paesi come loro concittadini; non vedono gli odierni stati – nazione come i loro paesi e quindi è facile per loro decidere di smantellare quello che c’è già e stabilire quello che vedono come paesi paralleli. Condannano e denigrano il riconoscimento dei Fratelli Musulmani dello stato – nazione e rivendicano di cercare quello che loro credono essere la sola legittima forma di comunità nell’Islam: un califfato transnazionale.

Il pensiero di Banna sul califfato

L’articolazione del pensiero di Banna sul califfato è molto breve: “il califfato è un’articolazione di un’unità con base ampia“. Egli affermava che i Fratelli Musulmani cercavano di ri – stabilire un califfato ma altresì asseriva che erano molti i passi da compiere per raggiungere i prerequisiti prima che il califfato potesse iniziare ad essere una nozione realistica, come integrazione culturale, economica e sociale così come l’evoluzione di trattati che definiscano e abbraccino la mutua cooperazione che dà vita ad un’entità che assomigli alla lega delle nazioni musulmana. Attraverso la storia, i Fratelli Musulmani hanno sostenuto l’unità progressiva e vie per una più grande cooperazione tra tutte le nazioni, secondo i principi di rispetto reciproco.
Per i Fratelli Musulmani, i principali elementi chiave sono morali e religiosi. La fornitura di servizi nella forma di aiuto all’educazione accessibile o sanità, distribuzione di cibo serve diversi obiettivi: aiuta le persone bisognose, porta con sé un ritorno spirituale per gli individui coinvolti nella fornitura di assistenza e migliora la società. Se il risultato della fornitura di servizi guidata dalla Fratellanza è che il regime è spinto ad impegnarsi in ulteriori forniture di servizi e migliora la sua risposta ai bisogni della popolazione allora è un successo.

Tutto ciò mette in difficoltà l’idea di molti politici “occidentali” e scrittori che assegnano alla parola califfato il sinonimo di tutto ciò che deve essere temuto dell’Islam e dei musulmani. Sebbene alcuni timori siano credibili e sicuramente richiedono un esame approfondito: libertà religiosa, eguaglianza, altre preoccupazioni sono mere estensioni della visione dei musulmani come un lontano “altri”.

Dovremmo chiederci perché “stati” che desiderano una più perfetta unione oppure paesi europei che lavorano verso una più grande unione sono visti sia come neutrali che lodevoli, ed invece le nazioni musulmane che lavorano verso lo stesso obiettivo siano viste con sospetto e richiedano molta attenzione.
L’inabilità di molti analisti nel comprendere una motivazione spirituale, basata sulla fede per le scelte che gli islamisti fanno, individualmente o collettivamente, rappresenta una barriera alla comprensione dell’“islam politico”.

Fratelli musulmani: movimento sociale e politico

Hassan al – Banna era interessato prima al cambiamento e alla riforma dell’ordine sociale e poi al cambiamento dell’ordine politico. Come risultato, l’attenzione era primariamente diretta alla “ummah” piuttosto che all’autorità.

Tuttavia, nel 2004, l’ex guida suprema Mohammed Mahadi Akef annuncia che il gruppo intraprende una nuova fase sotto il nome di “apertura alla società”. Questa nuova fase è stata caratterizzata da una vasta partecipazione politica competitiva e un impegno nella sfera pubblica senza precedenti.

Fratelli Musulmani
foto del clarionproject.com

Dopo la rivoluzione del 2011 in Egitto la capacità di ogni organizzazione sociale di mobilitare le masse rimane limitata nei confronti di uno stato potente. La centralizzazione dello stato moderno, particolarmente nei regimi autoritari, incoraggia la sua dominazione nella sfera pubblica, incluso l’educazione, i media e le istituzioni ufficiali religiose. Inoltre, un numero crescente di membri della Fratellanza, particolarmente i giovani attivisti, si convinsero che raggiungere obiettivi “rivoluzionari” come cambiamenti di regime non possano essere raggiunti attraverso mezzi deboli di “riforma graduale” suggeriti dal fondatore del movimento.

Ci sembra, tuttavia piuttosto improbabile che coloro che sono coinvolti fedelmente a servire le loro società, indipendentemente dalle loro differenze di fede o di linee politiche, potrebbero cambiare a tal punto dal voler distruggere le stesse società attraverso la violenza o il terrorismo.

La Fratellanza sta conducendo un’ampia revisione delle sue pratiche, particolarmente negli ultimi 5 anni dalla rivoluzione di gennaio. Il coup militare del luglio 2013 in Egitto ha forzato i Fratelli Musulmani a ritirarsi in un clima di segretezza dopo che il gruppo ha lavorato apertamente ed al potere durante la presidenza Morsi. Le autorità egiziane l’hanno designato come organizzazione terroristica e bandito circa 1200 istituzioni civili che erano affiliate del gruppo o i suoi membri, per non dire delle centinaia di persone uccise o imprigionate. La Fratellanza fu lasciata senza nessuna opzione se non quella di protestare. Il coup militare ha colpito i Fratelli Musulmani in modi che potrebbero sostanzialmente cambiare l’aspetto del gruppo nei prossimi anni. Fino ad ora il gruppo non ha delineato una visione politica chiara, non ha neppure gli strumenti per rimuovere i militari. Tutto ciò non esclude la possibilità che il clima politico in Egitto possa forzare più individui o gruppi non organizzati ad abbracciare la violenza. Le priorità di questi gruppi non saranno la fornitura di servizi sociali, piuttosto obiettivi politici e relativi al rovesciamento del regime odierno, con la convinzione dell’impossibilità di sfidarlo attraverso mezzi pacifici.

Finanziamento

Durante l’anno di presidenza di Morsi, il Qatar ha prestato al governo egiziano all’incirca 2.5 milioni di dollari. Sempre durante la presidenza Morsi, somme di denaro equivalenti a 850 mila dollari sono state trasferite segretamente ai Fratelli Musulmani dallo sceicco del Qatar Hamd bin Jasim bin Jaber Al Thani. Altri e numerosi trasferimenti di denaro sono intercorsi tra al Thani e i leader della Fratellanza agli inizi del 2013.
La Fratellanza possiede assetti di valore e fonti di guadagno in tutti i paesi in cui opera. In Egitto riscuote tasse e canoni da approssimativamente 600 mila membri e leader come Khairat el – Shater che possiede imprese commerciali come supermercati o negozi di mobili costituiscono un ingente profitto per l’organizzazione.
Il governo dell’Arabia Saudita ha sostenuto finanziariamente la Fratellanza per decadi ma ha ridotto il suo finanziamento dopo che i Fratelli Musulmani sostennero il dittatore Saddam Hussein nell’invasione del Kuwait del 1990.
In tutta la sua storia, la Fratellanza ha imposto, talvolta, la tassa per i non musulmani, sui cristiani o su altre minoranze religiose.

I Fratelli Musulmani in altri paesi

Siria
La Fratellanza siriana fu vietata e esiliata prima della rivoluzione contro Bashar al – Assad. Al momento dell’inizio delle proteste nel marzo del 2011, la Fratellanza si è rimobilitata e mossa per consolidare il potere politico e militare tra l’opposizione. Nell’inverno del 2011, la Fratellanza siriana era uno dei gruppi più potenti nel Syrian National Council. Nel giugno del 2013 fonda un partito politico, il Waad, lanciato ufficialmente nel marzo del 2014.
Giordania
La Fratellanza giordana ed il suo partito politico, l’Islamic Action Front è la più larga forza di opposizione in Giordania. Tuttavia, la Fratellanza è stata fedele alla monarchia, cooperando per molte delle sue politiche.

Attività violente

  • Giugno 1980, tentativo di assassinare Hafez al – Assad usando granate e fucili.
  • Agosto 2013, rubano e mettono a fuoco le chiese egiziane e le stazioni di polizia in risposta alla morte di centinaia di membri e all’imprigionamento di altre migliaia.
  • Marzo 2014: membri della Fratellanza sparano ad un generale ed un colonnello egiziani in una continua rappresaglia contro le forze di sicurezza a seguito della rimozione di Morsi.
  • Giugno 2014: membri della Fratellanza fanno detonare una bomba vicino all’ufficio presidenziale del Cairo, uccidendo due poliziotti.

Nelle liste di organizzazioni terroristiche di:

Bahrain: li ha indicati come organizzazione terroristica nel marzo del 2013; l’Egitto nel dicembre dello stesso anno. La Russia ha vietato che la Fratellanza operasse in Russia nel 2003 e li ha aggiunti alla lista di organizzazioni terroristiche nel luglio 2006. L’Arabia Saudita nel marzo del 2014 e la Siria nel 1980. Gli Emirati Arabi Uniti nel novembre del 2014, nello stesso periodo hanno indicato altri gruppi affiliati alla Fratellanza incluso il Consiglio per le relazioni americane – islamiche, l’International Islamic Relief Organization, Muslim American Society.

Chi li sostiene

Qatar
Il Qatar per lungo tempo ha sostenuto la Fratellanza attraverso vie finanziarie, di diplomazia e attraverso i media.
Turchia
La Turchia è stata un centro per l’organizzazione internazionale della Fratellanza. Soprattutto dopo la caduta di Morsi, Istanbul ha visto la riorganizzazione del gruppo e gli sforzi logistici per rafforzare la comunità internazionale della Fratellanza. La Turchia ha anche fornito armi e intelligence all’organizzazione in Egitto. Quando Sisi è salito al potere, le relazioni tra la Turchia e la Fratellanza si sono indebolite a causa dei timori turchi di rappresaglia da parte dell’Egitto e degli stati del golfo.
Recep Tayyip Erdogan è un loro sostenitore di lungo corso. Erdogan è stato un oppositore vocale della rimozione di Morsi e del regime militare che ha preso il suo posto.

Conclusioni

Quando si tenta di rispondere alla domanda: “i Fratelli Musulmani sono pericolosi?” bisogna tenere bene a mente che la chiusura dello spazio per i servizi sociali, quando è fatta in combinazione con la chiusura di altri modi di vita in Egitto, potrebbe dare luogo all’estremismo da parte di alcuni.

*immagine in evidenza: www.english.ahram.org.eg

Aprile 29 2016

Boko Haram: l’erba cattiva non muore mai

Boko Haram

Boko Haram, come altre organizzazioni simili, ha in sé una sorta di genialità: avanzare verso obiettivi politici attraverso il raggiungimento di enormi effetti psicologici con il minor investimento di risorse possibile.

In realtà quello che aiuta questi gruppi nel recuperare dalle sconfitte militari è la mancanza di attenzione che si dedica alle questioni principali che li sottendono e li fanno crescere.

Verso la fine del marzo di quest’anno, in Italia, rimbalza su tutti i mezzi d’informazione un video in cui Boko Haram dichiara di arrendersi. Chiaramente malgrado la stampa internazionale abbia deciso di non diffondere il video in attesa della conferma dell’autenticità dello stesso, in Italia si dice sempre di tutto. Il gruppo estremista però non tarda a diffondere un video in cui dichiara che non si arrenderà mai. Quest’ultimo video non viene peraltro diffuso in Italia, tanto per lasciare il pubblico nella confusione.

Chi è Boko Haram?

Eccovi una scheda riassuntiva.

Boko Haram

 

Boko Haram è ancora una minaccia

Malgrado i rapporti che dicono che Boko Haram sia stato allontanato da tutti i territori che controllava all’inizio del 2015, il gruppo continua a porre una seria minaccia alla sicurezza delle popolazioni dei quattro paesi attorno al lago Chad: Nigeria, Niger, Camerun e Ciad. Le organizzazioni internazionali hanno difficoltà ad accedere alle aree dei 26 governi locali nel nord Adamawa, sud Borno e est Yobe, più del 30%  della nord est rurale della Nigeria, a causa della persistente presenza dei militanti di Boko Haram.

Oggi Boko Haram assomiglia più ad un’impresa criminale piuttosto che a un gruppo jihadista. Coloro che vivono nei territori controllati dal gruppo, dichiarano che molti degli appartenenti all’organizzazione estremista conoscono solo in maniera rudimentale l’ideologia del gruppo stesso. Radicato nell’influenza, sin dal 2009, del nuovo leader Abubakar Shekau, questa metamorfosi è iniziata con l’espulsione nel 2013 di jihadisti dalle roccaforti urbane a Borno ad opera del personale di sicurezza nigeriano e di vigilanti indigeni conosciuti come Civilian Joint Task Force. In risposta Boko Haram ha iniziato a lanciare raid punitivi sulle comunità che sospettava appoggiassero i vigilanti. Boko Haram si è trovato ad operare in città e villaggi le cui popolazioni non erano musulmane e neanche mosse da visioni di un violento Islam come quelle del gruppo. Per cui Boko Haram ha dovuto ricorrere sempre di più a incentivi materiali, coercizione, rapimento dei minori per riempire i suoi ranghi, cambiando fondamentalmente la composizione del movimento. Malgrado il loro territorio invaso e le linee di comunicazione compromesse, le figure più anziane del gruppo sopravvissute sono ancora attive e per la maggior parte si sono ritirate nei boschi. Lì pare che abbiano abbandonato tutte le pretese di essere impegnati in una guerra santa, saccheggiando le comunità rurali lasciate senza la protezione dell’esercito nigeriano.

La visibile assenza di un fervore ideologico tra i combattenti di Boko Haram non presagisce necessariamente la caduta del gruppo. Esiste ancora un cuore jihadista determinato a portare avanti la sua lotta contro la Nigeria ed i suoi vicini. Al di là di questi fanatici ci sono numerosi ribelli che, mentre forse non sono interessati nel condurre il jihad, restano fedeli all’alto comando di Boko Haram. Le unità individuali di Boko Haram godono di un grado di autonomia operativa che gli permette di conservare la loro coesione e le capacità militari anche quando isolate da gruppi militanti. La distruzione delle linee di rifornimento di Boko Haram ha creato delle sfide logistiche per il gruppo, anche se saccheggiare le comunità vulnerabili ha in qualche modo mitigato questo fatto. E malgrado le recenti sconfitte, Boko Haram non ha sofferto di defezioni in larga scala. Questo ci suggerisce che i militanti di Boko Haram conservano un senso di solidarietà di gruppo oppure che hanno paura di violente rappresaglie da i loro compatrioti o dalle forze di sicurezza nigeriane.

La locazione dei rifugi di Boko Haram, particolarmente la foresta Sambisa, lago Ciad, le montagne Mandara lungo la parte nord della frontiera Cameroon – Nigeria, presenta un grande ostacolo alle operazioni per contrastarli ed eliminarli. Nel loro inaccessibile territorio, queste aree hanno ospitato a lungo gruppi che cercano di evitare il controllo dello stato, sette islamiche dissidenti, tribù, banditi.

A pagare il prezzo sono le comunità distrutte

Per le comunità distrutte, abbandonate a sé stesse nel migliorare i fattori socio – economici, sarà impossibile ricostruire la loro vita, soprattutto se continua la depredazione ad opera di Boko Haram.

La presidenza Buhari è appesa a due minacce: Boko Haram e la corruzione che sottrae linfa vitale alle fondamenta del governo nigeriano e alla società.  Tuttavia, avendo fallito nel riconoscere i due fenomeni e le loro connessioni ci sembra che abbia esigue possibilità di successo.

Mettere in sicurezza il nord – est richiede un livello di presenza dello stato senza precedenti nella regione. Presenza che l’amministrazione Buhari non sembra dare, a parte aver dichiarato che Boko Haram è stato sconfitto, ed esprimere il desiderio di iniziare a ricollocare più di 2 milioni di Internally Displaced Persons, anche se molto del nord est non è colpito dal conflitto. Buhari con la sua pressione sugli aspetti militari del contro – estremismo sta facendo lo stesso errore degli americani che uccidono i combattenti, che sono il sintomo e non la malattia.

Curare il sintomo e non la malattia

Il principale elemento chiave sottostante a Boko Haram è la corruzione.  Un decennio di ricerca sulle motivazioni dei gruppi estremisti dimostra che la povertà non è correlata alla probabilità di unirsi a queste tipologie di gruppi. Una governance inefficiente, l’ingiustizia, specialmente quando combinate con profonde fratture sociali, sono invece motivazioni che spingono gli individui a far parte di queste organizzazioni.

A marzo 2016, il Benin annuncia che contribuirà con 150 soldati alla Multinational Joint Task Force (MJTF), una coalizione dell’Africa occidentale la cui missione è quella di combattere Boko Haram. La Task Force ha approssimativamente un totale di 9,000 truppe, ciononostante è un appoggio primariamente politico piuttosto che un gruppo militare integrato. Le forze armate nazionali perseguono le loro campagne: esplicitamente supportano la narrativa della cosiddetta “soluzione africana ai problemi dell’Africa”, ma implicitamente facilitano il coinvolgimento occidentale nella battaglia contro Boko Haram, spesso su base bilaterale. L’approccio regionale rafforza anche le posizioni politiche di governanti autoritari nella regione.

La MNJTF resta una buona idea in principio: Boko Haram è diventato un problema regionale; tuttavia da un punto di vista politico rimane un’ennesima distrazione rispetto alle situazioni e problematiche oggettive dell’Africa Occidentale.

Aprile 6 2016

Iraq: i civili tra l’avanzata delle forze irachene e l’ISIS

Iraq

Iraq: civili che restano intrappolati tra l’avanzata delle forze governative e l’ISIS, paralisi politica e crisi finanziaria. Si pensa all’ISIS, ma chi pensa alla ricostruzione dell’Iraq?

Ci si dimentica facilmente di ciò che non è vicino a noi e così dell’Iraq, dove si combatte per liberare le città dall’ISIS, non si parla più. Eppure proprio la settimana scorsa, decine di centinaia di civili iracheni sono rimasti intrappolati tra l’avanzamento delle forze governative nella battaglia contro lo stato islamico nella provincia occidentale di Anbar. Così come rivela il portavoce del contro – terrorismo iracheno al The Guardian, i civili sono letteralmente intrappolati tra le linee delle forze governative e gli estremisti.

I civili nel mezzo dei due fronti di combattimento

Iraq

La scorsa settimana gli attacchi aerei della coalizione sono stati circa 17. I comandanti preparano i piani di evacuazione per le famiglie, le forze irachene lanciano volantini per informare i civili di quali strade possono percorrere in maniera sicura, ma pare che questo non sia sufficiente a prevenire che i civili restino intrappolati.

L’ISIS però aveva già dimostrato, nella battaglia di Ramadi, che all’avanzamento delle forze governative irachene loro indietreggiavano e prendevano in ostaggio civili, rallentando significativamente l’avanzamento delle truppe di terra. Mentre il centro di Ramadi è stato dichiarato sotto il controllo del governo lo scorso dicembre è stato soltanto due giorni dopo che le forze irachene e della coalizione hanno potuto dire che la città era pienamente liberata.

L’ Iraq rivuole Mosul

Le forze militari irachene stanno facendo quel genere di operazioni che la coalizione a guida americana definisce: shaping operations” prima di pianificare l’offensiva per riprendere Mosul. Le forze irachene sono riuscite a spingere fuori l’ISIS da alcuni villaggi vicino a Makhmour. La settimana scorsa si è celebrata la vittoria della “riconquista” della città di Kubaisa nella provincia di Anbar dalle mani dell’ISIS.

Iraq
Gli Stati Uniti hanno impiegato assetti aggiuntivi in Iraq l’artiglieria a Makhmur e sistemi avanzati lancia missili. Ci sono circa 5000 soldati americani in Iraq.

La paralisi politica

Il primo ministro Abadi ha commesso un bel po’ di passi falsi: non si è consultato con i personaggi influenti prima di annunciare la sua agenda di riforme. Ha ripetuto lo stesso errore annunciando un rimpasto di governo, vedendosi svanire nel nulla il suo sforzo perché osteggiato da vari partiti politici in particolare dai gruppi sciiti rivali.
Lo staff del primo ministro sta lavorando su una serie di riforme politiche ed economiche di lungo termine, le riforme strutturali sebbene necessarie richiedono inevitabilmente un lungo periodo di tempo prima che possano mostrare dei risultati.
La riconciliazione tra sunniti e sciiti rimane fievole. Il presidente Fuad Massoum ha riunito un comitato sulla riconciliazione per cercare di spingere in avanti il processo, ma il comitato si incontra raramente e quando lo fa non raggiunge che poco. I leader sunniti sono contenti della volontà di Abadi di decentralizzare l’autorità e le risorse ai governatori delle province di Anbar e di Salah al – Din per aiutare la ricostruzione di Ramadi e Tikrit, ma continuano a guardarlo con sospetto, temendo che queste risorse sostituiscano la possibilità di avere un posto al tavolo a Baghdad.
La leadership sunnita rimante fortemente frammentata, ma il governo fa pochi sforzi per unificarli.

La crisi finanziaria dell’Iraq rimane acuta risultato di prezzi del petrolio persistentemente bassi. Inoltre, le frustranti lungaggini burocratiche e l’aumento di problemi di sicurezza nel sud Iraq (risultato dello spostamento delle forze di sicurezza irachene a nord, per combattere l’ISIS), hanno creato grandi problemi alle compagnie petrolifere internazionali che operano nel sud del paese.
L’Iraq sta negoziando con il Fondo Monetario Internazionale un aiuto finanziario che dovrebbe ammontare complessivamente a più di 9 miliardi di dollari.

Se solo si implementasse la famigerata PHASE IV

E’ un fatto assolutamente acclarato e più volte sottolineato dagli analisti politici di tutto il mondo che la vittoria contro lo stato islamico potrebbe risultare effimera se non si crea un contesto politico che traduce le vittorie militari tattiche in obiettivi politici.
Si parla di Mosul, di toglierla dalle mani dell’ISIS, ma non si è mai sentito parlare di un piano di ricostruzione e stabilizzazione. Ricordiamoci che la famosa fase IV dei piani cioè quella appunto di ricostruzione e stabilizzazione nell’invasione dell’Iraq del 2003, non era stata evidentemente articolata e meno che mai fornita delle risorse necessarie, visto il catastrofico fallimento del post invasione nei successivi 3 anni. Non metto in dubbio che la fase sia stata pianificata effettivamente dai militari, ma evidentemente mai realizzata dalla parte civile, quando i militari si sono ritirati. Il ritorno alla guerra civile nella metà del 2014 è il risultato inevitabile di questi fallimenti, di entrambe le parti, civile e militare. Se si sta pianificando la riconquista di Mosul, e allora costruiamo un piano per la fase successiva, dandogli le risorse adeguate, piano che sarebbe stato meglio pianificare nello stesso momento in cui si pensava di riprendere Mosul.
Il grave problema è che il compito della missione della coalizione, della campagna militare, è quello di distruggere l’ISIS. Stabilizzare l’Iraq sembra essere un compito meno importante, e questo vuol dire meno risorse e meno attenzione. Forse sarà che è difficile imparare dal passato, ma il fatto di distruggere l’ISIS non significa automaticamente che tutti gli estremisti cadano in un buco nero, spazio – tempo, ma potrebbe presumibilmente verificarsi la nascita di una nuova formazione estremista, proprio dalle sue ceneri come fu per AQI (al Qaeda in Iraq) e poi ISIS.

La stabilizzazione e la ricostruzione è quella in cui il fulcro sono i civili. Le città, prima conquistate dall’ISIS, soggiogate ai suoi dettami, poi riconquistate dalle forze governative, non possiamo certo immaginare che non abbiamo bisogno di risorse specifiche o che siano intonse come quando furono costruite.

Marzo 31 2016

Jihad, califfo e califfato: istruzioni per l’uso

jihad

Jihad, califfo e califfato sono i termini più usati nei talk show, ma sanno veramente ciò di cui parlano?

Tutti coloro che cercano di fare chiarezza su temi complessi, per renderli fruibili a tutti, perché ognuno deve poter elaborare una sua personale opinione, sono le voci fuori dal coro, scomode e alle volte finanche fastidiose.  Ritengo invece che sia necessario e oserei dire: fondamentale, conoscere il significato dei termini che si usano, la loro storia, per poter anche decodificare i discorsi di coloro che si servono di questi termini per fare propaganda politica, per l’audience o qualche copia in più. 

Jihad

E’ un termine incredibilmente complesso. Nel Corano esso è utilizzato in riferimento all’attitudine di essere proteso al servizio degli scopi di Dio su questa terra. La parola è stata usata per catturare un ampio spettro di comportamenti che oscillano dal sacrificio spirituale (alle volte ci si riferisce a ciò con il termine greater jihad) al conflitto armato (lesser jihad). Uno studioso indo – pakistano islamista del XX secolo sostenne che dal momento che il mondo stava facendo esperienza di una moderna jahiliyya – periodo di ignoranza che minaccia l’Islam -, era dovere del vero musulmano rispondere a queste crisi combattendo contro l’influenza di individui eretici. Lui raccomandava un approccio metodico per le riforme e soluzioni politiche. Sosteneva che solo un governo può dichiarare il jihad, insistendo che fosse l’ultima possibilità.
Sayyid Qutb salafista, invece, criticava l’idea che governi corrotti potessero essere cambiati da dentro il sistema e sosteneva la rivoluzione. Tuttavia aveva comunque capito che il jihad militante era solo una parte della soluzione ed insisteva che dovesse andare di pari passo alla rivoluzione interna. A dispetto della sua reputazione come fondatore del moderno jihadismo, non esortava alla violenza indiscriminata. Mohammed Abd Al Salam Faraj scrisse che il jihad è secondo solo al credo, un obbligo per ogni devoto musulmano: il jihad militante e l’unica via sostenibile.
Una posizione simile fu articolata da Abdullah Azzam. L’invasione dei non – musulmani nel territorio musulmano ha creato, secondo Azzam, un obbligo d’impegno nel jihad anche se la minaccia non è locale. Azzam essenzialmente sposta i parametri di Qutb verso la difesa delle terre dei musulmani. Jihad difensiva, dunque, risposta giustificata, sempre secondo Azzam, ad una parte esterna che invade uno stato musulmano e in questa situazione i musulmani sono obbligati a rispondere. Pensatori come Qutb, Feraj, Azzam hanno influenzato movimenti salafisti come Al Qaeda e l’ISIS. Ognuno di questi pensatori ha contribuito con un piccolo pezzo agli argomenti utili per giustificare il jihad oggi.

Califfo

Dal momento che il messaggio di Dio indicava che Maometto sarebbe stato l’ultimo profeta, non era chiaro chi dovesse guidare la giovane comunità dopo la sua morte. Secondo un consenso generale la sua famiglia e i suoi seguaci decisero che la comunità sarebbe dovuta essere guidata da un califfo. Non era visto quindi come il sostituto di Maometto o come un profeta, ma semplicemente come leader selezionato per governare nella tradizione che lui (Maometto) aveva stabilito. I primi 4 califfi che governarono consecutivamente dal 632 – 661, conosciuti come Rightly Guided Caliphs continuarono il lavoro che Maometto aveva iniziato supervisionando la compilazione del Corano, consolidando il potere e impegnandosi in una serie di conquiste. La morte del terzo califfo, tuttavia, finì per fratturare la comunità islamica/musulmana in sunniti e sciiti. Per i sunniti, il leader doveva essere qualsiasi componente maschile della tribù Quraysh scelto dalle autorità della comunità. Da qui il termine sunnita che deriva dalla frase “persona della tradizione e della comunità”. Per gli Sciiti, il leader doveva essere un diretto discendente maschio di Maometto. Da qui il termine sciita che è un’abbreviazione di Shi’at’Ali che significa “seguaci di Ali” – genero e cugino di Maometto. Ali, infatti, scelto per essere il quarto Califfo (e l’ultimo dei rightly guided caliphs), fu assassinato e i califfi che seguirono non furono discendenti di Maometto e non ebbero il supporto dell’intera comunità.

Califfato

Durante i primi secoli del califfato, approssimativamente tra il VII e il IX secolo, il mondo islamico fa esperienza di una crescita significativa per una delle società più avanzate dell’epoca. La sua crescita geografica al suo massimo, si estendeva dalla Spagna all’India. Un certo numero di fattori ne determinarono il declino: l’estensione dell’impero rendeva l’amministrazione da un unico punto di potere difficile; le tensioni interne minarono la stabilità del governo. La comunità sciita continuava a sfidare l’autorità del califfo. Per la metà del IX secolo, il califfato era un istituzione indebolita e coloro che credevano nella sua importanza furono costretti a giustificarne la continua esistenza e così facendo offrirono una descrizione accurata dell’ufficio del Califfo: “mantenere l’ortodossia, eseguire decisioni di natura legale, proteggere le frontiere dell’Islam, combattere coloro che si rifiutano di diventare musulmani (quando convocati), raccogliere le tasse (canoniche) e in generale supervisionare lui stesso l’amministrazione degli affari senza delegare troppa autorità”. Doveva avere qualità fisiche, intellettuali, spirituali e appartenere alla stessa tribù di Maometto. Dopo l’assassinio del califfo regnante nel 1258, durante l’invasione mongola di Baghdad, il mondo islamico viene amministrato localmente senza una sovrastruttura di governo che unisca quello che una volta era un vasto impero. Nel XV secolo emergono un numero di potenti imperi musulmani che controllano la regione. Il più importante è l’impero ottomano che “resuscitò” l’ufficio del califfo e durò più di 400 anni. L’impero ottomano collassa nel XX secolo quando i suoi territori vengono divisi tra francesi e inglesi dopo la prima guerra mondiale e il governo turco (3 marzo 1924, Kemal  Ataturk ) che prese il suo posto abolisce l’ufficio del califfato. Malgrado la comunità musulmana sia stata guidata da un califfo per molta della sua storia, l’ufficio del califfato è mutato nel corso del tempo. Il risultato è che i richiami contemporanei per un ritorno al califfato restano poco chiari su come dovrebbe essere ripristinato l’ufficio del califfo.

Marzo 23 2016

Di interventisti da poltrona e altre amenità

interventisti

Dopo gli attacchi di Bruxelles, parliamo di un pericolo tangibile in Italia: gli interventisti da poltrona e la disinformazione.

Quando pensavamo che gli esperti da salotto si fossero estinti dopo gli attacchi di Parigi ecco ricomparire sulla scena l’interventista da poltrona, che seduto comodo con l’ipad in mano ci illumina con le sue svariate competenze e conoscenze.

L’interventista da poltrona

E’ un individuo che compare ovunque, sui social, nelle trasmissioni televisive, nei telegiornali, alle radio e persino sulla carta stampata. Lui sa tutto! Lui sa cosa pensano gli jihadisti violenti, lui sa cosa si doveva fare e soprattutto lui non sa cosa si deve fare. L’unica cosa che sa è che si deve: “andare a combattere” in un imprecisato spazio temporale, in un qualsivoglia paese lontano. Questi personaggi non hanno rispetto per i morti, meno per i famigliari dei morti, per nulla per le persone ferite, scioccate, perché l’importante è dire che lui lo sa!

La disinformazione

Puntuali arrivano tutta quella serie di servizi con le stesse immagini ripetuti fino alla nausea. I titoli attira pubblico, quelle interviste con le domande: “hai avuto paura?“. Oppure quelli fuori dalla stazione Termini a Roma che chiedono ad un ignaro viaggiatore: “lei si sente al sicuro?“. Che domande sono? Forse io non ho la sensibilità per apprezzare questo genere di informazione, che invece di mostrare immagini di vita ci propone le macchie di sangue, le persone ferite, a ripetizione le immagini dell’esplosione (peccato che qualcuno ha messo al posto dell’immagine dell’aereoporto di Bruxelles quelle di un attentato a Mosca del 2011). Il diritto alla cronaca, per carità, giustissimo, ma noi abbiamo bisogno di immagini di vita, dei colori dei gessetti sulla piazza di Bruxelles, abbiamo bisogno di sentire ridere i bambini, non sentire quello straziante pianto del bambino nella metro a Bruxelles, subito dopo l’esplosione. Perché a voler essere precisi, le organizzazioni estremiste di natura religiosa come l’ISIS, si combattono anche attraverso delle campagne di comunicazione mirate. La strategia di comunicazione, di contrasto al loro modo di comunicare, riveste una particolare importanza, soprattutto per chi come loro dell’informazione ne fa un’arma. Lo stato islamico semplifica la visione del mondo in buono e cattivo per fornire terreno fertile alla loro ideologia e dall’altra parte intere campagne di informazione a dire: l’ISIS è il male! Ho letto di un’intervista (spero sia falsa) di padre Amorth che dice che l’ISIS è il demonio. Complimenti! Riproduciamo quello che loro vogliono: la dicotomia tra bene e male, la semplificazione della visione del mondo e l’appiattimento di tutte le sfumature delle nostre società.

L’espertone di intelligence

L’ultimo nato in fatto di figure post attentati è l’espertone di intelligence. Posto che chi scrive ha qualche esperienza nel settore dell’intelligence e qualche corso in questo ambito, mai mi sognerei di dichiarare delle certezze. La colpa dell’attentato di Bruxelles è dell’intelligence è il nuovo slogan. E sentiamo, perché dobbiamo identificare un capro espiatorio? Se poi il Ministro della difesa italiano ieri sera a Ballarò dice che: “non possiamo pensare che i nostri servizi segreti siano più veloci dei terroristi”, beh mi viene da piangere seriamente. Evidentemente al Ministro (Ministra è un’altra amenità di una politicante che mette la “a” e però tollera una discriminazione di genere inquietante nel nostro paese per un governo che ha tolto il ministero delle pari opportunità) era stato detto che è molto molto difficile poter stabilire quando gli attentatori si siederanno ad un tavolo, su una panchina, al bar, alla fermata del bus, al parco, per decidere ora e giorno dell’attentato. Avrebbe potuto rassicurare tutto il paese dicendo, per esempio, che i servizi segreti italiani lavorano indefessamente per la sicurezza della Repubblica e che fanno molto bene un lavoro di prevenzione, sebbene non siano maghi con la sfera di cristallo. Avrebbe potuto magari dire che coloro che si fanno saltare in aria sono proprio l’ultimo anello di una catena, una rete, enorme, le cui cellule non si conoscono tra di loro, che proprio per questo il lavoro di prevenzione è essenziale.

Si può ipotizzare che i politici belgi, il procuratore, siano stati tanto superficiali da divulgare a tutti i costi le dichiarazioni di Salah e che siano stati abbastanza imbranati dal non predisporre misure di controllo più efficaci, posto che ovviamente l’attentatore non va con un segnale luminoso in volto: “sto per saltare in aria”. E’ facile con i fotogrammi dire: “ecco li vedete sono i due che portano i guanti e lì c’è il telecomando”. Ma certo fermiamo tutti quelli con i guanti allora.

La semplificazione a tutti i costi di temi complessi è un danno per tutti.

Sono sempre dell’idea che chi non abbia una formazione su temi complessi come il terrorismo internazionale, piuttosto che gli estremisti di natura islamica, sentendo le trasmissioni televisive e leggendo i giornali si confonda ancora di più e la paura, fisiologica di tutti, si centuplichi. Semplificare a tutti i costi riunendo in un calderone fumante, i temi della migrazione, dell’estremismo, delle religioni è un danno! Non si fa un servizio alla comunità, per qualche attimo di visibilità in più, ridurre tutto ad un unico argomento.

Le quantità di informazioni in mano agli operatori di intelligence noi non le conosciamo, non possiamo dire non si parlano o si parlano poco tra di loro, perché nella realtà a parte la relazione del COPASIR al parlamento, di quello di cui parlano e su cui investigano i servizi segreti, se si chiamano segreti un motivo ci sarà.
Non sono d’accordo che siccome la persona della strada non può capire la complessità del fenomeno dello stato islamico bisogna girare il minestrone del calderone. No, io piuttosto credo che bisogna anzitutto scomporre il problema nelle sue sfaccettature e soprattutto attuare una strategia di contro – comunicazione a quella dello stato islamico. Ritengo inoltre, che intervenire militarmente non è uno gioco elettorale, ci vuole una strategia di lungo termine e non è il solo e unico strumento per sconfiggere la minaccia di un gruppo transnazionale terrorista che al suo interno si comporta come uno stato.

Credo, infine, che i quartieri di Bruxelles, dove hanno sputato ai poliziotti che cercavano i presunti terroristi, siano l’emblema del fallimento delle politiche di integrazione, se mai si siano attuate, visto che quei quartieri, già quando frequentavo io la Scuola Europea (e si parla veramente di moltissimo tempo fa) erano già piuttosto ghetti che quartieri integrati nel tessuto della società belga.

Marzo 22 2016

Riflessione a caldo sugli attentati a Bruxelles

Bruxelles

Bruxelles colpita da esplosioni, la tattica terroristica c’è, in attesa di altre notizie e della rivendicazione, rifletto, a caldo sulla situazione.

ore 7;45 del 22 marzo 2016 l’aereoporto di Bruxelles viene sconvolto da due esplosioni, una mezzora più tardi giornali online, televisioni, social media ci rivelano che un’altra esplosione avviene nella metro di Maelbeek, che corrisponde al cuore delle istituzioni europee.

E da qui inizia un rincorrersi di notizie di tutti i generi, dai nomi sbagliati della metro, ai twitter: ” Rettifichiamo”. E ancora immancabile in Italia: solo in Italia: kamikaze! E’stato un kamikaze. Ricordiamo qui che è del tutto errato parlare di kamikaze, basta semplicemente dire: attacco suicida. Non è difficile!

E i social come Facebook si scatenano in un tripudio di bandiere cuore belga. La Farnesina si affretta a dire che finora non ci sono italiani morti, la solita orribile agenzia di stampa che ci fa sembrare il paese che se non sono morti italiani se ne frega. Scorrendo su twitter trovo una cosa che mi ha veramente stupito. Qualcuno Bruxellessi domanda perché i bombardamenti russi in Ucraina, che pure fanno vittime civili, non ricevono la stessa copertura mediatica degli attentati di Bruxelles di oggi.

Qualcun’altro si chiede perché i morti degli attentati in Turchia non hanno ricevuto la stessa attenzione dai media internazionali.

Bruxelles

Quello che sappiamo è che la tattica terroristica usata è ancora quella degli attacchi simultanei contemporanei su luoghi a grande frequentazione di civili. Non sappiamo null’altro per ora, solo una notizia su Telegram che farebbe capo allo stato islamico, ancora da confermare. Non c’è stata nessuna rivendicazione, le uniche dichiarazioni che abbiamo sentito sono quelle del premier belga.

Come in un copione oramai riprodotto a memoria iniziano le interviste e le opinioni di esperti da salotto, degli interventisti da poltrona, di coloro che sanno già tutto, che lo sapevano. Sì, quelli che lo sapevano che colpivano Bruxelles. E immancabili in Italia, puntuali come orologi svizzeri: è colpa dei migranti! Di quelli che in questo momento annegano nel Mediterraneo. Non si può pensare minimamente, come confermano le indagini sugli attentati di Parigi, che sono immigrati di seconda generazione, gente perfettamente integrata nei paesi europei. Perché non si dice? Presto detto: dimostrerebbe il fallimento dei processi d’integrazione finora adottati. Che il pericolo non era al di fuori delle frontiere europee, ma dentro. Che ci sono tante problematiche irrisolte all’interno del carrozzone dell’Unione Europea, come una struttura condivisa di informazioni di intelligence. Che ogni paese se la canta e se la suona da solo senza agire nel quadro delle istituzioni belghe. Ed indipendentemente da chi rivendicherà gli attentati hanno vinto nel dimostrare la debolezza delle istituzioni belghe nel coordinarsi insieme nel fornire la sicurezza.

E nessuno mai ci dirà che bombardare a tappeto la Siria non è servito a niente. Che uccidere con i droni un leader dello stato islamico non ha fermato niente, che le bombe senza strategia non servono proprio a niente!