Marzo 21 2016

I russi fuori dalla Siria: sarà vero?

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L’intervento dei russi in Siria ha: addestrato le proprie truppe e ha dimostrato che Mosca è un attore importante nella regione. Il contingente russo che resta non solo è capace di sostenere una guerra, ma di ripristinare la campagna militare ad un cenno di Putin.

L’intervento militare dei russi in Siria ha due scopi fondamentali. Prima di tutto, prevenire la sconfitta militare di Assad e sostenere il regime. Inoltre, perché Mosca possa giocare un ruolo da attore principale nella soluzione della guerra civile in Siria e ancora di più all’interno della regione.

Ritiro russo solo parziale

e con una tempistica non specificata.
La base navale a Tartus e la base aerea a Khmeimim rimarranno pienamente operative, controllate dai russi e sorvegliate dai moderni sistemi di difesa aerea S-400. I consulenti ed istruttori militari russi resteranno nel paese e, secondo alcune stime, Mosca terrà fino a 1000 soldati sul terreno. La fornitura di armi al regime di Assad continuerà.
L’intervento russo ha significativamente indebolito l’opposizione. Assad ha solo ripreso una piccola parte del territorio che aveva perso l’anno prima dell’intervento russo e con le forze del regime impegnate in tanti fronti, sarebbe improbabile per Assad vincere la guerra.

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Un altro punto interessante del ritiro russo è la “relazione” tra Assad e Putin. Proprio perché è curiosa la circostanza per cui Assad, qualche settimana fa, dichiara che vuole riconquistare tutta la Siria e la Russia si ritira. Sembra proprio invece che Mosca voglia recapitare una busta ad Assad con un messaggio: “proteggiamo il territorio, ma non andremo oltre. Devi negoziare un accordo”. Una delle circostanze che ha indispettito Putin è stata l’emanazione del decreto presidenziale di Assad sulle elezioni parlamentari ad aprile. Questa azione è stata vista con tutta probabilità da Mosca come una decisione volta a rovesciare il cronogramma stabilito dagli accordi di Vienna. Il furbetto Assad si è dimostrato il tipo di alleato troppo costoso da mantenere nel lungo periodo.

Gli obiettivi russi

Il principale obiettivo dell’intervento dei russi in Siria è stato quello di garantire a Mosca ed al suo alleato Assad una sedia al tavolo di negoziazione. Prima dell’intervento russo l’occidente parlava della partenza di Assad come precondizione per i colloqui di pace. Se allarghiamo la nostra lente e guardiamo la situazione da un punto di vista più ampio scopriamo che con questo intervento militare i russi hanno dimostrato quanto siano importanti, decisivi, come attori nella regione. Mosca si presenta come l’attore che “risolve” e può incanalare i colloqui di Ginevra come meglio gli aggrada. Che si pensi che Putin è un opportunista tattico o che abbia una precisa strategia, ha raggiunto un obiettivo strategico: rendere la Russia geo – politicamente rilevante, forzando l’Occidente a tenere in considerazione gli interessi russi.

Un altro obiettivo raggiunto dai russi è stato quello di fornire un addestramento cruciale per le truppe di Mosca qualora Putin voglia condurre altre operazioni militari, che siano in Ucraina o in qualche vicino “scomodo”.

E, non da ultimo questo intervento e il conseguente ritiro possono essere venduti all’opinione pubblica russa come una vera e propria vittoria.

Il ritiro russo è solo formale

Alcuni aerei sono tornati in Russia, ma non sappiamo attualmente quanti ce ne siano perché arrivano altri, nuovi. Inoltre, non ci sono numeri di quanti erano all’inizio dell’intervento militare. È stato stimato che c’erano tra le 3 e le 6 mila truppe russe in Siria  e quello che sappiamo ora è che i russi hanno lasciato truppe a sufficienza per supportare logisticamente le loro forze  alla base aerea a Khmeimin e al porto di Tartus

Più importante: il dispiego di dispositivi d’arma così detti area denial weapon cioè quei dispositivi che servono a prevenire la creazione di corridoi umanitari o no – fly zone sono tutti rimasti. Le forze russe che monitorano e dominano lo spettro elettromagnetico sono rimaste.

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Anche i più avanzati velivoli SU – 35 e SU – 30 sono lì. I loro consulenti e l’artiglieria, i decisivi fattori sul terreno stanno ancora guardando il campo di battaglia siriano preparati a cosa debba avvenire dopo. 

Il contingente russo che resta non solo è capace di sostenere una guerra, ma di ricostruire la sua campagna militare ad un cenno d’ordine del presidente Putin. Mantenendo la sua capacità di area denial weapon contro l’occidente e la Turchia, si assicura che non ci siano sforzi per rovesciare il bilancio di potere sul campo di battaglia. Manda un chiaro messaggio alla Turchia e agli altri: la Russia continuerà ad assicurare che nessuno possa capovolgere la sua vittoria o minare il suo peso “riconquistato” nel sistema internazionale.
Un altro importante gruppo di attori non è definitivamente partito dal campo di battaglia siriano: le centinaia di truppe del Revolutionary Guard Corps iraniane, i combattenti di Hezbollah, un certo numero di milizie sciite provenienti dall’Iraq e dal Pakistan.

Se la vogliamo mettere proprio in termini semplici semplici: la presenza significativa di aerei russi non era più necessaria.
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Marzo 18 2016

I migranti diventano merce

Migranti

I migranti diventano merce secondo l’accordo dell’Unione Europea che possiamo tranquillamente chiamare l'”Accordo della Turchia”.

Una pagina imbarazzante della storia dell’Unione Europea e per la dignità della persona umana, soprattutto per coloro che sono stati costretti a scappare dalle loro case a causa di conflitti, persecuzioni. 

L’Unione Europea (UE) e la Turchia hanno raggiunto, all’unanimità, l’accordo sui migranti, parola di Donald Tusk intorno alle 17, 15 circa di venerdì 18 marzo 2016.
Come ha scritto il primo ministro finlandese su Twitter: “The Turkey deal has been approved”. E sì.

Migranti: la Turchia detta le regole

La Turchia ha dettato le sue regole. Tutti i rifugiati e migranti che arriveranno in Grecia da domenica saranno rimandanti in Turchia. L’accordo sembra più un contratto di scambio merce che un’azione volta alla soluzione del problema del flusso massiccio di migranti. La Turchia in cambio avrà la riapertura dei colloqui per l’accesso all’Unione Europea con la promessa che le negoziazioni saranno riaperte prima di luglio.
Ma il pezzo forte è questo, l’UE ha accordato la velocizzazione dell’esborso di ben 3 miliardi di euro alla Turchia per aiutare i rifugiati siriani in Turchia. Ulteriori 3 miliardi per il 2018 una volta che Ankara abbia compilato una lista di progetti che si possano qualificare per l’assistenza dell’UE. Quello che fa gola a Davutoglu oltre al denaro è il viaggiare in Europa senza visto, per i suoi 78m di cittadini. Grande vittoria, l’abolizione dei visti per la leadership turca. La rimozione del processo di visto è un gran salto in avanti della popolarità del Justice and Development Party al governo.
La Turchia ha promesso che tutte le persone che torneranno saranno trattate in linea con il diritto internazionale, inclusa la garanzia che non saranno rispedite nei paesi da cui provengono. Turchia, paese che da sempre ha eccelso nella protezione dei diritti umani!
Il controverso accordo 1 a 1 rimane intatto: per ogni rifugiato siriano che l’UE rimanda in Turchia, un siriano in Turchia avrà una nuova casa in Europa.

Il diavolo è nei dettagli

Il numero dei siriani che possono essere rilocati in Europa dalla Turchia è di circa 72,000 molto meno di quello che le agenzie internazionali hanno Migrantiraccomandato: 108,000. Lo schema di rilocazione sarà fermato quando 72,000 persone saranno rilocate in Europa. E dopo? NON SI SA!
L’alto commissario per i rifugiati delle Nazioni Unite ha sollevato preoccupazioni sulla legittimità nel diritto internazionale e nel diritto dell’Unione Europa, esprimendo disagio sul generalizzato ritorno di stranieri da un paese all’altro. Amnesty International ha definito la proposta “colpo mortale” per i diritti dei rifugiati. Mentre i leader europei credono che le questioni legali possano risolversi dichiarando la Turchia un “terza parte sicura”, questo concetto fa venire i capelli dritti non solo ad Amnesty, ma a tutti noi!
In principio, il diritto internazionale, “rinforzato” dall’Alto Commissario per i Rifugiati delle Nazioni Unite, fornisce un quadro per affrontare questo tipo di crisi. La Convenzione sui rifugiati del 1951 identifica sia gli individui legittimati alla protezione internazionale – coloro con delle ben fondate paure di persecuzione – e quali sono le minime responsabilità degli stati verso questi individui, in particolare il dovere di non ritorno in quei posti dove sarebbero perseguitati. Quando si è scritta la Convenzione del 1951, gli stati si sono esplicitamente impegnati in un principio chiave: avrebbero agito insieme in un “vero spirito di cooperazione” che avrebbe fornito delle soluzioni durature per la difficile situazione dei rifugiati.
Com’è stata la risposta dell’Europa nei termini di questo quadro?
In relazione all’identificazione di coloro che hanno bisogno di protezione, la risposta dell’UE è stata, nel migliore dei casi, mista. Da una parte, c’è stato un consenso, che, dati i violenti conflitti religiosi e politici che scuotono la Siria, coloro che lasciano il paese sono rifugiati secondo i termini della convenzione. Tuttavia, questa identificazione non ha incoraggiato gli stati ad aprire delle rotte legali per i siriani che viaggiano verso l’Europa, non ha prevenuto stati come la Danimarca di minacciare di sequestrare i beni dei rifugiati che arrivano come misura di deterrenza per  nuovi arrivi.
Malgrado le istituzioni comuni, gli stati dell’UE hanno agito in radicali contrastanti vie. L’entità della difficile situazione dei siriani ha teso a legittimare pratiche degli stati per cui si chiude un occhio alle rivendicazioni di protezione di persone di altre nazionalità. E’ evidente dalla chiusura della frontiera macedone: ai siriani e agli iracheni; nell’impegno della Gran Bretagna a ricollocare solamente i siriani – e solo quelli dei campi di rifugiati nella regione. Identificare coloro che hanno bisogno di protezione solo come rifugiati da specifici paesi rischia di violare le norme sui rifugiati, perché ignora i pericoli in cui particolari individui possono incorrere.
Molti stati europei, ansiosi di non vedere più nuovi arrivi, hanno argomentato che la protezione deve essere fornita in qualunque posto fuorché al loro uscio. Alcuni hanno dichiarato che coloro che cercano protezione dovrebbero stare nel paese di primo arrivo in Europa, tipicamente Grecia o Italia.

Migranti
Questo approccio europeo che ha dato vita a questo accordo è problematico moralmente e legalmente. La Turchia non è firmataria di tutta la Convenzione sui rifugiati; ha una dubbia storia di protezione dei diritti umani e prevenire i rifugiati dal lasciare il paese sembra proprio violare il diritto dei rifugiati di cercare asilo.
Finora abbiamo visto quanto poveramente l’Europa si è adoperata per lo “spirito di cooperazione” che è stato immaginato dai firmatari della Convenzione sui rifugiati. Svezia e Germania hanno mostrato livelli di apertura senza precedenti, mentre Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia e Slovacchia, hanno agito in vie che vanno dal filo spinato alla selezione delle richieste di asilo. Il principio di non refoulement, che proibisce espressamente di rimandare i rifugiati verso un un paese dove le loro vite sarebbero minacciate, sancito dalla Convenzione sui rifugiati, sostiene il diritto internazionale dei diritti umani e sembra essere stato messo da parte.

Un giorno triste per l’umanità.

Marzo 17 2016

Tunisia: preoccupati della sicurezza interna

Tunisia

La Tunisia non dovrebbe negare a sé stessa i problemi di sicurezza interna e concentrarsi sulle regioni del sud, possibile fucina di estremisti.

Ricordiamo gli scontri nella città tunisina di Ben Guerdane di qualche settimana fa quando sono stati attaccati posti militari e di polizia. Civili uccisi, 13 ufficiali di sicurezza e 46 estremisti morti. L’assalto, accaduto a circa 32 km dalla frontiera con la Libia è l’ultimo esempio di una pericolosa ricaduta del conflitto libico attraverso una frontiera porosa. L’attacco rivela che anche se lo stato islamico prende piede in Libia, la più significativa minaccia alla sicurezza tunisina risiede all’interno delle sue frontiere. Questo perché i militanti che hanno rivendicato la presa della città come “liberatori” avevano accento locale, secondo i residenti, aumentando i timori che cellule non identificante “dormienti” siano aumentate. I funzionari tunisini hanno ammesso che nessuno dei perpetuatori dell’attacco a Ben Guerdane aveva attraversato la frontiera dalla Libia, piuttosto erano tunisini che vivevano in Tunisia. 

Tunisia maggior esportatore di foreign fighters

La lodevole transizione della Tunisia verso la democrazia dopo il 2011 è stata rovinata da episodi di violenza con picchi nel 2015 con un’ondata di attacchi terroristici, incluso quelli diretti contro il settore del turismo in una già fragile economia. La Tunisia è anche diventata il maggior esportatore di foreign fighters per lo stato islamico e altri gruppi estremisti in Siria.
La Tunisia si affida al contro – terrorismo convenzionale e a tattiche di guerra, andandoci con la mano pesante in assalti su scala militare. La strategia tende ad aumentare l’ostilità e ad alimentare la narrativa anti – statale, perpetrando il problema.
La Tunisia sta facendo il classico errore di rifiutarsi di riconoscere che focalizzandosi su un incidente isolato, si negano le linee che guidano le azioni sistematiche verso la radicalizzazione.
La frustrazione di molti tunisini discende dalle prestazioni governative inefficienti nell’incrementare l’occupazione e dalla gestione dell’economia, particolarmente nelle regioni più povere che sono state il punto focale delle proteste che poi portarono alla caduta di Bel Ali. A gennaio ci sono state delle manifestazioni per la disoccupazione nella provincia di Kasserine che si sono allargate fino alla capitale, Tunisi. Le manifestazioni che durarono per settimane furono spente con la mano mortale della polizia. Sebbene sia difficile identificare gli esatti fattori chiave della radicalizzazione, i tunisini marginalizzati, frustrati da una persistente povertà e un apparente governo inefficace, vedono gruppi come lo stato islamico come una risposta alle loro lamentele.

Tunisia + problematiche sociali irrisolte = risposta aggressiva all’estremismo religioso

Invece di avere come obiettivo le problematiche sociali che aiutano a nutrire l’estremismo a casa, la Tunisia ha adottato una risposta aggressiva di contro- terrorismo in risposta a minacce domestiche – interrogando o mettendo sospetti terroristi agli arresti domiciliari e istituendo un divieto di viaggio che ha impedito a centinaia di tunisini, particolarmente i giovani, dal lasciare il paese. Misure che erano tipiche del regime di Ben Ali.

Costruire una recinzione (con i buchi) non è la panacea per tutti i problemi

Tunisia

Con il supporto statunitense ed europeo, la Tunisia ha completato la recinzione lungo la frontiera con la Libia, costruzione iniziata dopo l’attacco al resort di Sousse. (la stessa Europa che si stupisce perché i suoi stati membri costruiscono recinzioni, finanza la costruzione di recinzioni fuori dalle sue frontiere. Evidentemente è nel filo spinato che si intravedono le soluzioni europee a qualsiasi problema).

Mentre il ministro della difesa tunisino si è detto entusiasta del successo della recinzione, dicendo di aver sequestrato ingenti somme di materiale illegale tra dicembre 2015 e gennaio 2016, la recinzione non è una panacea per i problemi di sicurezza tunisini. Essa copre solo metà della frontiera ed appare più come una trincea; inoltre si parla dell’esistenza di buchi costruiti sulla recinzione per mantenere le rotte di traffici illegali così come frequenti furti delle guardie di frontiera. Molte delle città tunisine di frontiera dipendono dai traffici illegali per sopravvivere economicamente. Mentre beni illeciti (droga, armi e persone) dovrebbero essere prevenuti in entrata, la Tunisia dovrebbe trovare una via per replicare il commercio frontaliero di beni non illeciti.
Sicuramente la roccaforte dello stato islamico a Sirte è una minaccia per la Tunisia, è importante non dimenticare che gli estremisti che conducono attacchi sul territorio tunisino sono quasi esclusivamente tunisini non libici. Si è notato che i tunisini iniziano a ricoprire alte posizioni all’interno dello stato islamico in Libia e che la sua base a Sirte ha incoraggiato alcune migliaia di tunisini che hanno viaggiato verso l’Iraq e la Siria a ritornare nel Nord Africa, ponendo una maggiore, diretta, minaccia alla Tunisia.

Continuare a negare il problema interno alla Tunisia, le difficoltà economiche, particolarmente nelle regioni del sud, la disoccupazione giovanile non farà altro che alimentare la retorica di reclutamento di organizzazioni estremiste come lo stato islamico. Non è colpa della Libia se estremisti, cittadini tunisini, conducono attacchi nel loro paese!

Marzo 8 2016

8 marzo 2016 ricordo le martiri della carità

8 marzo

8 marzo 2016 

8 marzoOggi, 8 marzo, giornata internazionale della donna, voglio ricordare il sacrificio delle Suore di Madre Teresa di Calcutta in Yemen, assassinate qualche giorno fa, con le parole di Madre Teresa per tutte le donne che vedono in questa ricorrenza più di una mimosa e di un augurio retorico.

Il meglio di te

L’uomo è irragionevole, illogico, egocentrico: non importa amalo.

Se fai il bene, diranno che lo fai per egoismo e secondi fini: non importa, realizzali.

Il bene che fai forse domani verrà dimenticato: non importa, fà il bene.

L’onestà e la sincerità ti rendono vulnerabile: non importa, sii onesto e sincero.

Quello che hai costruito può essere distrutto: non importa, costruisci.

La gente che hai aiutato forse non te ne sarà grata: non importa, aiutala.

Dai il meglio di te, e ti tirano le pietre: non importa, da’ il meglio di te.

*foto: theorthodoxchurch.info

Marzo 7 2016

Il labirinto libico

labirinto libico

Il labirinto libico è fatto di divisioni politiche, fazioni estremiste, lo stato islamico e le risorse idriche che se cadessero in mano del gruppo di Abu Bakr al – Baghdadi potrebbero disegnare scenari peggiori di un semplice caos.

In questi giorni le notizie sulla Libia sono state riportate creando, se possibile, più caos di quello che c’è in Libia. Mi sono sempre chiesta: ma come fa una persona che non è del “mestiere” a capire che diavolo succede in Libia?. Cerco allora di aiutarvi a mettere in ordine le idee, se non altro per cambiare canale quando sentite le frasi “beduini del deserto che cambiano idea ogni secondo”. 

Il 17 dicembre 2015 dozzine di delegati delle due compagini governative rivali libiche, così come municipalità locali e la società civile, hanno firmato un accordo delle Nazioni Unite (NU) per formare un governo di unità nazionale. I colloqui sono andati avanti per quasi un anno. Il nascente Governo di Accordo Nazionale (GNA) deve ancora essere pienamente formato. Un consiglio presidenziale di 9 membri è stato stabilito e sta funzionando anche se lavora per la maggior parte da Tunisi. Nel complesso, il processo di divisione del potere indicato nell’accordo è indietro rispetto alla programmazione. La precedente pressione dalla comunità internazionale per restare incollati ad una sequenza temporale spesso affrettata ha dato il via ad errori fatali in Libia, come le elezioni del 2014 senza una massiccia registrazione ed un accordo tra le fazioni per rispettare il risultato. La riconciliazione richiede tempo.
Dopo tutto i due speaker dei parlamenti rivali restano opposti all’accordo. Il leader dell’House of Representatives (HoR) a Tobruk, Agila Saleh, ha ammorbidito la sua posizione dopo che importati tribù nell’est della Libia hanno appoggiato l’accordo, sebbene con la condizione che il ruolo dell’esercito nazionale libico e il suo leader, il Generale Khalifa Haftar sia preservato. A Tripoli, Nuri Abu Sahmain, lo speaker del General National Congress (GNC), ha offerto una concessione al nuovo mediatore delle NU, Martin Kobler, accordandosi per facilitare lo spostamento della Missione Speciale NU per la Libia nella capitale. Nelle ultime settimane, diverse municipalità hanno appoggiato il nuovo governo di unità nazionale con l’offerta del consiglio locale di Benghazi di una capitale temporanea per la Libia, fino a che il governo non sia riportato a Tripoli.

Labirinto libico: i problemi

Il nuovo primo ministro designato, Faize Serraj e Kobler affrontano diversi problemi. Il più stringente è l’ISIS. Il gruppo ha espanso le sue operazioni in Libia, lanciando un’offensiva contro le più grandi istallazioni di petrolio sulla costa e uccidendo dozzine di reclute della polizia. Catturando la piccola città di Ben Jawad, lo stato islamico ha mosso le sue “frontiere” dell’area che controlla lungo la costa libica di 29 km ad est.

L’offensiva dell’ISIS sui giacimenti di petrolio è particolarmente preoccupante. Gli jihadisti sembrano tesi a distruggere piuttosto che prendere il controllo e sfruttare le istallazioni di petrolio, che danneggerebbero permanentemente il budget della Libia, rendendo il lavoro del nuovo governo ancora più arduo. Se avesse successo, l’ISIS potrebbe attrarre nuovi foreign fighters dalla vicina Tunisia, dal Sudan, e dall’Algeria. Questo compenserebbe la mancanza di significativi numeri di reclute libiche che è stata la principale debolezza del gruppo.
L’offensiva dell’ISIS è stata contrastata dalla combinazione di attacchi aerei da Misurata e forze di terra delle Petroleum Facilities Guard, due forze che recentemente si sono allineate rispettivamente con il governo di Tripoli e Tobruk.
I vertici più anziani dell’ISIS sono composti da foreign fighters dall’Iraq, Arabia Saudita e Yemen arrivati la scorsa estate per coordinarsi con i jihadisti locali. Come l’ISIS in Iraq e Siria i ranghi in Libia sono variegati, con cittadini tunisini, sauditi e libici che portano a termine le loro missioni suicide. Il gruppo ha anche intercettato gli jihadisti libici che hanno combattuto con altri gruppi estremisti locali, come Ansar al- Sharia così come i libici che sono tornati dai combattimenti per lo stato islamico in Iraq e Siria.
Mentre lo stato islamico manca di una maggiore base di supporto locale in Libia, la sua presenza nel paese è cresciuta costantemente nei mesi recenti. Il gruppo beneficia della mancanza di una strategia della comunità internazionale. Inoltre, l’ISIS non deve rimanere popolare in Libia per dominare ed espandersi, tutto quello di cui ha bisogno è la perpetuazione dello status quo.
L’altro problema sono le emblematiche radici del caos in Libia. Un mese dopo l’accordo di divisione del potere, il paese ora ha 3 governi, il non ancora funzionante GNA, Tobruk e il governo di Tripoli allineato agli islamisti. Questa settarietà si trascina, malgrado il fatto che 17 paesi che hanno supportato l’accordo di pace, incluso gli Stati Uniti e l’UE, si sono impegnati ad avere a che fare solo con il GNA, una mossa che il Consiglio di Sicurezza ha sostenuto il 23 dicembre 2015.
Inoltre, le divisioni fanno sì che la capitale Tripoli resti isolata. Gheddafi aveva creato uno stato altamente centralizzato, e tutte le leve di potere sono ancora a Tripoli: i ministeri, le agenzie governative e, più importante, la Banca Centrale e la National Oil Corporation: la prima gestisce i soldi del petrolio e la seconda i contratti petroliferi. Per aiutare a riconnettere queste istituzioni chiave con il governo, le Nazioni Unite stanno guidando delle negoziazioni di sicurezza sotto la gestione del generale italiano Paolo Serra, che sta mediando tra le differenti milizie per raggiungere un accordo affinché il nuovo governo possa operare in sicurezza a Tripoli.
Il terzo problema è istituzionale. L’accordo di unità nazionale fa dell’House of Representatives a Tobruk il principale organo legislativo della Libia. Non funziona effettivamente dalla scorsa estate; nei mesi scorsi ha ripetutamente fallito nel raggiungimento di un quorum anche solo per discutere l’accordo politico. Senza la HoR il nuovo governo di unità non può operare pienamente perché manca del voto di fiducia. In più, l’accordo di divisione del potere deve essere supportato da emendamenti costituzionali che devono essere approvati dal parlamento a Tobruk. Il GNC, basato a Tripoli dovrebbe formare buona parte di una seconda camera consultiva conosciuta come State Council la quale, congiuntamente, deve nominare le più importanti istituzioni militari e finanziarie. Ma lo speaker non ha ancora dato il via libera.
Queste nomine militari sono la sfida finale che deve affrontare il nuovo governo di unità.

La grande incognita della falda acquifera Nubian Sandstone

labirinto libicoLa scorsa primavera tre delle quattro nazioni sotto cui si snodano le acque del Nubian Sandstone, il Ciad, l’Egitto ed il Sudan, si sono accordate a continuare il coordinamento per estrarre l’acqua della falda e per una divisione della gestione delle responsabilità. Tuttavia, il caos politico in Libia, la quarta nazione che condivide la falda acquifera, potrebbe far affondare gli sforzi regionali per uno sviluppo sostenibile di questa risorsa vitale.
L’ammontare stimato di acqua accessibile va dai 150 milioni di metri cubici agli 8 bilioni di metri cubici. Come le più grandi falde acquifere del mondo, questa riserva sotterranea si espande in una grande area geografica. Il territorio libico ed egiziano, hanno la quota da leone dell’acquifero e sono stati i più attivi estrattori rispetto al Ciad ed al Sudan.
Nel 2013, la falda acquifera è stata completamente mappata da un gruppo di geologi inglesi, e la Libia ha seguito le altre tre nazioni nel firmare un accordo supportato dalle Nazioni Unite per il coordinamento dell’estrazione dell’acqua e per le abilità dei paesi di monitorare i prelievi così che la falda potesse essere sviluppata sostenibilmente. Due anni dopo, quando i paesi dovevano rinnovare i loro impegni, la Libia era assente.
La connessione tra il caos politico in Libia e la sicurezza delle risorse idriche in Libia non è immediata ma c’è. Per decadi, uno dei più grandi progetti di Gheddafi era il così detto Great Man – Made River, un massiccio progetto infrastrutturale responsabile per l’estrazione e il trasporto dell’acqua della falda sotto e sopra i centri maggiori di popolazione del deserto del Sahara a nord. La rete di trasporto dell’acqua è stata un enorme orgoglio civile soprannominato “l’ottava meraviglia del mondo”. Oggi resta centrale all’identità nazionale del paese e critica per il suo sviluppo economico. Non sorprendentemente l’infrastruttura è diventata il primo obiettivo per i gruppi di insorti che cercavano di far cadere il regime.

Dal momento che i militanti affiliati all’ISIS hanno guadagnato territorio lungo la Libia, hanno visto come possibile obiettivo il controllo dell’infrastruttura lungo il Great Man- Made River. In questo si possono vedere evidenti similitudini con quanto accaduto in Iraq e Syria, (guerra dell’acqua, ISIS e dighe). La Libia è particolarmente vulnerabile a questo proposito. Il sistema di distribuzione dell’acqua si estende per distanze enormi, terreni scarsamente popolati e poco sicuri.

labirinto libico

Diverse settimane fa, i militanti affiliati all’ISIS hanno rivendicato (anche se non è stato confermato) di aver preso il controllo di installazioni lungo il Great Man – Made River, che se vero potrebbero avere enormi implicazioni per il futuro della Libia.
Nel deterioramento della situazione di sicurezza del paese, il comportamento della Libia, su tutte le questioni strategiche, incluso la negoziazione dei diritti delle risorse idriche della falda acquifera Nubian Sandstone, sarà imprevedibile. Inoltre, se gli affiliati dell’ISIS alla fine si assicureranno le infrastrutture libiche per l’estrazione ed il trasporto delle acque del Nubian Sandstone, e le lezioni dall’Iraq e la Siria ne sono un’indicazione, non si preannuncia niente di buono.
Le conseguenze del controllo dei gruppi affiliati all’ISIS della fornitura di acqua della Libia è importante perché la falda acquifera Nubian Sandstone non è una risorsa illimitata. Questo sistema d’acqua sotterranea è conosciuto come una “falda acquifera fossile”, ciò vuol dire che è geologicamente sigillato dalla superficie e non può essere ricaricato da mezzi naturali, come la pioggia che filtra dalla superficie. Mentre la falda acquifera Nubian Sandstone può essere considerata la più grande falda acquifera fossile al mondo: una volta che le acque della falda sono estratte se ne sono andate per sempre! Se i gruppi affiliati all’ISIS prendessero il controllo delle infrastrutture dell’acqua (assumendo che non l’hanno ancora fatto), rapidi e irregolari estrazioni possono facilmente risultare nello svuotamento della vasta falda acquifera più velocemente di quanto ci si aspetti.

Marzo 1 2016

Supertuesday: chi è costui?

Supertuesday

1 marzo 2016: nella corsa alla Casa Bianca oggi è il giorno del Supertuesday. Noi cerchiamo di capire cos’è.

Noi non chiameremo Supertuesday: Supermartedì, abbiamo adottato nella nostra lingua italiana termini in inglese di ogni genere e ora non ci metteremo a tradurre un giorno della settimana. E lo scriveremo tutto attaccato, perché in fondo è un martedì super!

Supertuesday per tutti

Estraggo dal mio quaderno qualche pagina che ci aiuta a capire brevemente e chiaramente cosa è questo giorno nel processo elettorale per la presidenza degli Stati Uniti.

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In questo ciclo elettorale l’inclusione di così tanti stati del Sud nel Supertuesday ha cambiato le dinamiche delle primarie dei Repubblicani e dei Democratici. Ted Cruz che vuole vincere il sostegno dei conservatori e degli evangelici, ha chiamato le SEC primary il suo “firewall”.

Nel campo dei democratici, la Clinton potrebbe accumulare un alto numero di delegati negli stati del sud, grazie al forte supporto che viene accordato dagli afro – americani.

 

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Come si decidono i delegati nel Supertuesday?

Questo giorno elettorale potrebbe essere cruciale per candidati come la Clinton e Trump, ciò dipende dal numero di delegati che riescono ad assicurarsi. I repubblicani nel Supertuesday hanno l’opportunità di vincere metà dei 1,237 delegati di cui si ha bisogno per rivendicare la nomination. I democratici Hillary Clinton e Sanders si batteranno su più di 800 delegati, circa 1/3 dei delegati necessari per vincere la nomination.
Il Cominato Nazionale Repubblicano decise, nel 2014, che tutti gli stati che tenevano le competizioni per la nomination prima del 15 marzo assegnavano i delegati ai candidati proporzionalmente, piuttosto che sulle basi del “il vincitore prende tutto”. Questo significa che, nella maggior parte degli stati, saranno decisi basandosi sul voto complessivo di tutto lo stato oppure su chi vince in ogni distretto congressuale. I democratici seguono un’assegnazione dei delegati proporzionale.

Quali candidati partecipano?

Repubblicani: l’uomo d’affari Donald Trump, il senatore della Florida Marco Rubio, il senatore del Texas Ted Cruz, il governatore dell’Ohio John Kasich e il neurochirurgo in pensione Ben Carson.

Democratici: Hillary Clinton, ex segretario di stato e il senatore del Vermont Bernie Sanders.

Cosa ci dicono i sondaggi sul SuperTuesday?

Trump e la Clinton sembrano essere in testa in un certo numero di stati. Per i repubblicani Trump sembra che sia in testa in Virginia, Georgia, Oklahoma e Vermont. Come per il Texas, Cruz è in testa in alcuni sondaggi mentre Trump in altri quindi sembra essere una battaglia molto agguerrita. La Clinton è in testa in molti stati che voteranno oggi: Texas, Virginia, Georgia, Arkansas e Alabama. Sanders chiaramente è in testa nel suo stato il Vermont ed è vicino oppure un pochino più avanti in Massachusetts e Oklahoma.

Cosa vuol dire per i candidati questo SuperTuesday?

Una prestazione forte in questo giorno elettorale, specialmente in Texas, è assolutamente critica per Ted Cruz che ha fondato la sua campagna elettorale sul supporto dei conservatori e degli evangelici. Se Cruz non vincesse in Texas, ci sarebbero seri dubbi sulla sua possibilità di sopravvivenza nella corsa alla nomination.

Per la parte democratica, il SuperTuesday potrebbe essere il giorno in cui la Clinton sarà in grado di cementare un grande numero di delegati rispetto a Sanders.

E dopo il SuperTuesday che si fa?

Altri stati andranno al voto. Sabato sarà la volta del Kansas e della Lousiana per entrambi i partiti: poi nel Kentucky e nel Maine si terrà il caucus repubblicano e nel Nebraska il caucus repubblicano. Il Michigan e il Mississippi terranno le primarie e le Hawaii e l’Idaho il caucus l’8 marzo. Occhi puntati su grandi primarie il 15 marzo in Florida e nell’Ohio, gli stati di Marco Rubio e John Kasich.

Ed infine:

supertuesday

 

Febbraio 29 2016

Israele e Russia: l’amicizia nel Medio Oriente di oggi

Russia Israele

Il Medio Oriente è nel bel mezzo di una violenta rivalutazione delle sue idee, priorità ed alleanze; la questione dei legami di Israele è parte del ri – assestamento della regione.

Qualche giorno fa il presidente dello stato d’Israele, Reuven Rivlin ha cancellato un viaggio previsto per marzo in Australia per incontrare il presidente russo Putin a Mosca.

Israele e Russia un’amicizia oscillante

La recente storia delle traiettorie delle relazioni russo – israeliane è stata oscillante. Putin è stato il primo presidente russo a visitare Israele e il primo ministro Benjamin Netanyahu ha coltivato legami con la Russia per una serie di ragioni. Israele ha una grande diaspora russa che conta per circa il 10 – 12 percento della popolazione israeliana, e il loro profondo legame con il paese di origine li spinge a coltivare dei legami più stretti con la Russia: un espediente politico per i politici israeliani. Inoltre, Israele e Russia hanno entrambi inteso trarre un vantaggio dalla percezione del ritiro americano dal Medio Oriente per forgiare legami più stretti. Israele cerca di contenere le sue scommesse con un’altra potenza che sta al di fuori dalla regione e la Russia cerca di trafiggere gli Stati Uniti guadagnando influenza con un altro dei suoi principali alleati nella regione. Questo si è manifestato nella sfera politica anche attraverso il silenzio di Israele su questioni che sono importanti per la Russia come l’annessione della Crimea.
I legami economici sono aumentati. Il commercio tra i due paesi che ammontava a 3.5 miliardi di dollari nel 2013 è aumentato negli scorsi anni visto che le importazioni russe dei prodotti israeliani hanno rimediato alle sanzioni imposte dall’Unione Europea. Qualche settimana fa funzionari di entrambe le parti hanno confermato che è imminente un accordo di libero commercio tra i due paesi. Sul lato militare, Israele ha accordato la vendita alla Russia di 10 droni israeliani “Searcher” per la raccolta di informazioni già lo scorso autunno.
L’intervento della Russia nella guerra civile siriana in favore di Assad ha introdotto tensioni tra Israele e Russia, circostanza che è stata gestita da entrambe le parti ragionevolmente bene. Per esempio, Israele e Russia si sono tenute entrambe informate sul rispettivo utilizzo dello spazio aereo siriano per evitare scontri. Israele non ha preso una posizione ufficiale sull’uscita di scena di Assad, ma ha dichiarato di aver tracciato una linea rossa contro il trasferimento di armi a Hezbollah. I bombardamenti israeliani contro questo trasferimento di armi appaiono essere stati coordinati con i militari russi, dal momento che aerei israeliani hanno volato attraverso lo spazio aereo siriano che è pattugliato dalla Russia senza alcun incidente.
Le violazioni dello spazio aereo israeliano non hanno provocato il tipo di crisi che è occorsa tra la Russia e la Turchia. Visto che gli aerei russi e israeliani volano lungo lo stesso corridoio nel sud della Siria e operano conto differenti attori ovviamente ciò ha il potenziale di dare vita ad una catastrofica esplosione, ma le buone relazioni tra Israele e Russia sono state la chiave per prevenire ogni fraintendimento. Questo non vuol dire che una crisi non potrebbe verificarsi nel futuro, particolarmente in vista della vendita di Mosca dei missili S- 300 all’Iran. Israele a tutti costi farà in modo che questo sistema d’arma non possa essere trasferito ad Hezbollah.
Israele sembra preparata a compartimentalizzare la sua relazione con la Russia e cercare di mitigare i suoi dubbi sul comportamento russo in Siria, finché le armi russe non cadano nelle mani di Hezbollah.

Altrove nella regione c’è più movimento

Israele sta aprendo un ufficio ad Abu Dhabi, ufficialmente con l’obiettivo di facilitare le sue interazioni con l’agenzia delle Nazioni Unite per l’energia rinnovabile (IRENA) che sarà basata negli Emirati Arabi Uniti. Questi ultimi ribadiscono che l’apertura dell’ufficio israeliano non ha niente a che fare con relazioni bilaterali. Quindi mentre le relazioni formali rimangono ufficialmente fuori dal tavolo, sotto il tavolo le comunicazioni continuano.
I legami con l’Egitto, il primo paese arabo a stabilire relazioni diplomatiche con Israele, hanno iniziato a diventare più “caldi”. L’Egitto ha mandato un ambasciatore in Israele a gennaio per la prima volta dal 2012.
Ci sono alcuni segni che le visioni popolari di Israele stanno forse cambiando. Il Kuwait Times, ha recentemente pubblicato un articolo intitolato “Israele non è il nostro nemico”, nel quale si affermava che mentre i palestinesi hanno ragioni per vedere Israele come un nemico, il Kuwait non ne ha. Una simile visione è stata espressa da uno storico egiziano Maged Farag che ha asserito: “il nostro nemico oggi è Gaza, non Israele”.

*immagine: www.timesofisrael.com

Febbraio 24 2016

Majlis – Iran elezioni 2016

Majlis

Il 26 febbraio gli iraniani inizieranno il processo di elezione del loro decimo parlamento: il Majlis.

Molti discutono delle elezioni iraniane per le possibili implicazioni sulla politica estera iraniana. Sebbene il processo elettorale in sé stesso resta un mistero per molti; noi ci accontentiamo di avere le basi e quindi di capire cos’è il Majlis. Iniziamo innanzitutto con un foglio di appunti del mio quaderno per vedere quali sono i passaggi temporali che portano al 26 febbraio, per l’elezione del Majlis.

Majlis

Majlis: poteri e composizione

Ufficialmente: Islamic Consultative Assembly (Majlis-e shoura-ye eslami), per dirla in termini più vicini a noi  è un parlamento eletto con voto popolare, stabilito nella scia della rivoluzione iraniana del 1979. Mentre il Majlis è istituzionalmente separato dal Consiglio dei Guardiani, un organo di 12 giuristi islamici, il Consiglio gioca un ruolo più esteso nelle elezioni parlamentari e nel suo ruolo legislativo. I 290 membri del Majlis rappresentano i 207 distretti elettorali dell’Iran. Trenta seggi sono dedicati ai rappresentanti provenienti da Teheran, il più grande distretto. Il secondo distretto più grande ha solo 6 seggi.

Successivamente al dibattito svoltosi nel Majlis la legge passa al Consiglio dei Guardiani, il quale deve confermare che la legge sia conforme alla Costituzione e all’Islam. Il potere di veto del Consiglio dei Guardiani sulla legislazione ha significato che sostanziali riforme politiche ed economiche, anche se supportate dal Majlis – sono state spesso ostruite. Siccome, quasi metà delle leggi approvate dal parlamento erano poi ricusate dal Consiglio dei Guardiani, nel 1989 fu stabilito un terzo organo legislativo: Expediency Council (Consiglio dell’opportunità in italiano n.d.a) che ha il potere di mediare tra i due organi e di annullare le loro decisioni. Se approvato dal Consiglio dei Guardiani, la legge deve essere firmata dal presidente prima di entrare in vigore. Il Majlis approva e rivede il budget annuale, può approvare e mettere in stato d’accusa ministri, emettere questioni formali al governo. Approva i trattati internazionali.

Ogni rimostranza pubblica contro organizzazioni governative è gestita dal Majlis. In ogni caso è necessario il consenso del Leader Supremo affinché il Majlis possa entrare nel merito di un’ istituzione.

I membri sono eletti ogni 4 anni dal voto popolare diretto. Sebbene siano soggetti a considerevoli restrizioni, le elezioni parlamentari si sono tenute regolarmente dal 1980. Per essere qualificati a concorrere per un seggio, i candidati sono soggetti a numerosi cicli di controlli accurati. Il Ministro dell’Interno supervisiona l’iniziale esame delle credenziali, ma il Consiglio dei Guardiani ha l’ultima parola e statuisce chi è qualificato a concorrere. Secondo l’art. 28 dell’Atto elettorale dell’Assemblea Consultativa islamica i candidati devono soddisfare i seguenti criteri al momento della registrazione:

  1. Credere e praticare obbligatoriamente l’Islam e il Sistema sacro della Repubblica Islamica dell’Iran.
  2. Essere cittadini della Repubblica Islamica dell’Iran.
  3. Espressa fedeltà alla Costituzione e al principio di assoluto custode della giurisprudenza.
  4. Un documento che provi il possesso di almeno un diploma ed equivalente.

Nel 2006, il parlamento ha approvato una legge che richiede a tutti i candidati essere in possesso di un Master. Questa valutazione della formazione educativa va in parallelo con il declino dei membri del parlamento che sono religiosi, da un picco di 131 nel primo parlamento ai 33 in quello odierno.

  1. Non avere una cattiva reputazione nel distretto elettorale.
  2. Salute fisica tale per cui almeno godano della benedizione della vista, udito e parola.
  3. Almeno 30 anni e non più di 75.

Ai candidati delle minoranze religiose non è richiesto di soddisfare il primo criterio. Anche se il candidato ha tutti i requisiti elencati, il Consiglio dei Guardiani può trovare (come già accaduto) una scusa per squalificare il candidato.

La manipolazione del Sistema elettorale iraniano si è guadagnata un significativo criticismo internazionale.

Freedom House ha dichiarato che sebbene non ci siano state accuse di frode sistematica  nelle elezioni del 2012, “molti legislatori in carica hanno accusato Islamic Revolutionary Guard Corps di manovrare le attività elettorali”.

I candidati approvati possono fare campagna elettorale ufficialmente solo per 7 giorni. La campagna elettorale è iniziata il 18 febbraio.

Un candidato è dichiarato vincitore se lui (o lei) ottiene la maggioranza dei voti in un distretto  cioè il 25% di tutti i voti raccolti. Nel sistema iraniano chiamato: Two-Round System entra in gioco se nessun candidato riesce ad ottenere la maggioranza dei voti, per cui viene indetto un altro election day dove i primi due candidati competono in quel distretto.

Un certo grado di rappresentanza è garantito alle minoranze religiose: 2 seggi agli armeni cristiani, o uno ai cristiani assiri e caldei, uno agli ebrei e uno ai credenti dello Zoroastrianesimo o Mazdeismo. La più grande minoranza iraniana, Baha’i, non è ufficialmente riconosciuta e non gli è garantito un seggio (peraltro i loro diritti sociali e politici sono severamente ristretti dal regime).

Verso la fine di gennaio solo la candidatura una donna, una delle maggiori riformiste del paese, è stata approvata dal Consiglio dei Guardiani, nel parlamento in carica ci sono 9 donne, il 3%. Molti credono che la squalifica dei candidati donna è legata al fatto che molte delle donne che si sono registrate hanno esperienza come attiviste dei diritti umani o femministe.

Correnti politiche e non partiti politici

Come spiega il sito Majlis Monitor affiliato all’Università di Toronto, i gruppi politici che si mobilitano per competere nelle elezioni iraniane possono essere descritti più accuratamente come “correnti politiche” piuttosto che come partiti politici nel senso occidentale del termine. Le “correnti politiche”, secondo Majlis Monitor, “usualmente emergono come alleanze di comodo per perseguire agende politiche – ideologiche comuni, interessi economici”.

Per saperne di più: leggi l’Assemblea degli esperti – Iran elezioni 2016.

Febbraio 23 2016

Assemblea degli esperti – Iran elezioni 2016

assemblea degli esperti

Il 26 febbraio ci saranno le elezioni in Iran. Arriviamoci preparati! Si eleggerà l’Assemblea degli Esperti ed il Majlis.

Iniziamo dall’Assemblea degli esperti

L’assemblea degli esperti (Majlis-e Khobregan) è uno degli organi più importanti nel governo iraniano. Per questa ragione, le prossime elezioni dell’Assemblea degli esperti, stanno attirando una grande attenzione(in Italia ovviamente dato il peso che si dà alla politica internazionale probabilmente se ne accorgeranno il 27 sera), perché la prossima Assemblea è il giocatore chiave nella selezione del successore del 76enne Leader Supremo Ayatollah Ali Khamenei.

Cos’ è l’Assemblea degli esperti?

Assemblea degli Esperti

L’Assemblea degli esperti è un organo di 88 membri formato da giuristi islamici, eletto direttamente dal voto popolare ogni 8 anni. Secondo la costituzione, l’Assemblea ha il mandato di nominare, monitorare e far decadere (se é il caso) il leader supremo. In pratica l’Assemblea non ha mai realmente messo in discussione il leader supremo. Quest’organo è formato da un consiglio di leadership e sei comitati, che si incontrano due volte l’anno.

L’Assemblea fu stabilita per la prima volta dopo la rivoluzione iraniana del 1979 per scrivere la nuova costituzione. Dopo aver adempiuto a quel compito, fu sciolta per poi essere ristabilita nel 1982. Basato su un ciclo elettorale di 8 anni, la quinta Assemblea doveva essere eletta nel 2015, ma nel 2009 una legge ne ha posposto l’elezione per farla coincidere con le elezioni parlamentari del 2016.

Per essere qualificati a competere, i candidati devono essere specialisti della giurisprudenza islamica, passare diversi esami scritti ed orali, e approvati dal Consiglio dei Guardiani, un organo di 12 membri nominato dal Leader Supremo e dal Parlamento. Cinque dei dodici membri del Consiglio dei Guardiani sono anche membri dell’Assemblea degli esperti.

Sebbene la costituzione assegni all’Assemblea degli Esperti il compito di monitorare il leader supremo, non ci sono meccanismi formali, costituzionalmente regolati, attraverso cui l’Assemblea può “sfidare” il Leader Supremo.

La corsa 2016 per l’Assemblea degli Esperti ha visto un record nel numero delle domande. Si sono registrati 800 candidati di cui 16 donne. E’ molto probabile che il prossimo leader supremo esca proprio dalla quinta Assemblea di Esperti. Anche se l’Assemblea ha il compito di selezionare il prossimo leader supremo, altre figure molto potenti ed istituzioni come il Corpo delle Guardie rivoluzionarie, presumibilmente influenzeranno la selezione.

Concludo con una curiosità: il Presidente Rouhani è stato due volte membro dell’Assemblea degli Esperti.

Per saperne di più sulle elezioni in Iran, clicca qui:  Majlis – elezioni Iran 2016

Febbraio 19 2016

Guerre civili: fallimento del sistema degli stati

guerre civili

Il problema principale nel Medio Oriente è il fallimento dei sistemi di stato arabi nel dopoguerra, lo scoppio delle guerre civili è diventato il secondo problema principale,  egualmente importante.

I conflitti in Libia, Siria, Iraq e Yemen, hanno preso una loro vita, diventando motori di instabilità che adesso pongono una più grande minaccia sia ai popoli della regione che al resto del mondo. Le guerre civili hanno la brutta abitudine di tracimare sui loro vicini. Vasti numeri di rifugiati attraversano le frontiere, come lo fanno, di meno, ma non meno problematici, un certo numero di terroristi e di altri combattenti armati. Così passano le frontiere anche le idee di promuovere la militanza, la rivoluzione e la secessione. In questo modo, gli stati vicini possono essi stessi soccombere all’instabilità o anche al conflitto interno. Studiosi ci indicano che il più grande predittore che uno stato farà esperienza di una guerra civile è se confina con un paese che ne è già coinvolto.

Le guerre civili hanno anche la brutta abitudine di estrarre qualcosa dai paesi vicini. Cercando di proteggere i loro interessi e per prevenire ripercussioni, gli stati, tipicamente, scelgono particolari combattenti da appoggiare. Ma questo li porta in un conflitto con altri stati vicini che sostengono a loro volta i loro favoriti. Anche se questa competizione rimane una guerra “proxy”, può assorbire energie politiche ed economiche, anche rovinose. Nel peggiore dei casi, il conflitto può dare vita ad una guerra regionale, quando uno stato è convinto che il suo proxy non sta facendo il proprio lavoro, manda le sue truppe. Per avere la prova di questa dinamica non bisogna andare tanto lontano quanto l’intervento a guida saudita nello Yemen o le operazioni militari iraniane o russe in Siria ed Iraq.

E come se il fallimento del sistema degli stati arabi del dopoguerra e lo scopguerre civilipio di 4 guerre civili non fosse stato abbastanza, gli Stati Uniti si sono allontanati dalla regione. Il Medio Oriente non è stato senza un grande potenza supervisore, di un tipo o di un altro, dalle conquiste ottomane del sedicesimo secolo.

Questo non suggerisce che l’egemonia esterna è sempre stata genuinamente buona; non lo era. Ma spesso ha giocato un ruolo costruttivo di mitigazione dei conflitti. Buono o cattivo, gli stati della regione sono cresciuti abituati ad interagire l’uno con l’altro con una terza parte dominante nella stanza, figurativamente o spesso letteralmente.

Il ritiro degli Stati Uniti ha forzato i governi ad interagire in un nuovo modo, senza la speranza che Washington avrebbe fornito una via cooperativa per i dilemmi della sicurezza seminati nella regione. Il disimpegno degli Stati Uniti ha fatto temere a molti stati che altri diventassero molto aggressivi senza gli Stati Uniti che li avrebbero frenati. Questa paura li ha fatti agire aggressivamente, che di conseguenza, ha dato via, a turno, a contro mosse, ancora con l’aspettativa che gli Stati Uniti non guarderanno né la mossa originale né la risposta. La dinamica è cresciuta in maniera più acuta tra l’Iran e l’Arabia Saudita, il cui scambio di diplomazia tit – for tat è cresciuto più vituperoso e violento. I sauditi hanno preso l’iniziativa di intervenire direttamente nella guerra civile nello Yemen conto la minoranza Houti, che loro considerano essere un proxy iraniano che li minaccia nel loro fianco a sud.

Anche se il Medio Oriente sbanda verso il fuori controllo, l’aiuto non è per via. Le politiche dell’amministrazione Obama non sono disegnate per mitigare i suoi problemi reali: la regione da quando Obama è in carica è scivolata sempre più verso il peggio e non c’è ragione di credere che andrà meglio prima che finisca il suo incarico.

La storia delle guerre civili ci dimostra che è estremamente duro contenere le ripercussioni ed il Medio Oriente di oggi non fa eccezione. L’eco della guerra in Siria ha aiutato a far tornare l’Iraq nella guerra civile. A turno, le ripercussioni delle guerre civili in Siria ed Iraq hanno generato una guerra civile di basso livello in Turchia e minaccia di fare lo stesso in Giordania ed in Libano. Le ripercussioni della  guerra in Libia stanno destabilizzando l’Egitto, il Mali e la Tunisia. Le guerre civili irachena, siriana e yemenita hanno risucchiato l’Iran e gli stati del Golfo in una feroce guerra proxy in tutti e tre i campi di battaglia. Rifugiati, terroristi e radicalizzazione traboccano da tutte queste guerre e creano nuovi dilemmi per l’Europa ed il nord America.

Guerra civile: curare le cause e non le conseguenze

E’ effettivamente impossibile eradicare i sintomi delle guerre civili senza trattare le malattie che sono alla base. Non importa quante migliaia di rifugiati l’Occidente accetti, finché le guerre civili si trascineranno, milioni ne scapperanno. E non importa quanti terroristi verranno uccisi, senza una fine alle guerre civili, molti più giovani uomini diventeranno terroristi. Negli ultimi 15 anni, la minaccia del jihadismo salafita è cresciuta in ordine e magnitudo malgrado i danni inflitti ad Al Qaeda in Afghanistan. Nei posti scossi dalle guerre civili, i rami del gruppo, incluso l’ISIS, trovano nuove reclute, nuovi santuari e nuovi terreni di jihad.

Contrariamente alla saggezza convenzionale, è possibile per una terza parte risolvere una guerra civile. Studiosi delle guerre civili hanno trovato che in circa il 20% dei casi dal 1945 e approssimativamente il 40%dei casi dal 1995, un attore esterno è stato in grado di rendere possibile un tale risultato. Farlo non è semplice, ovviamente, e non deve essere rovinosamente costoso come ad esempio l’esperienza degli Stati Uniti in Iraq.

Guerra civile: 3 passi per farla finire

Mettere fine ad una guerra civile richiede che la potenza che interviene realizzi tre obiettivi:

1) cambiare le dinamiche militari in modo che nessuna delle parti in guerra creda che possa vincere militarmente e nessuno abbia paura che i suoi combattenti siano uccisi una volta che depongano le armi;

2) deve forgiare un accordo di condivisione del potere tra i vari gruppi così che tutti abbiano una partecipazione equa nel nuovo governo;

3) deve porre in essere istituzioni che rassicurino tutte le parti che le prime due condizioni siano durature.

La storia però ci mostra che quando le potenze esterne si allontanano da questo approccio oppure gli dedicato risorse inadeguate, i loro interventi inevitabilmente falliscono e tipicamente rendono il conflitto più sanguinoso, lungo e meno contenuto.

Lguerre civili‘odierna campagna militare degli Stati Uniti contro l’ISIS in Iraq e in Siria condurrà allo stresso risultato della sua precedente contro al Qaeda in Afghanistan: possono danneggiarli molto, ma a meno che non finisca il conflitto che li sostiene, il gruppo si trasformerà e si diffonderà e alla fine avrà successo come il “figlio di ISIS”, come è successo all’ISIS che era figlio in qualche maniera di Al Qaeda.

Stabilizzare il Medio Oriente richiede un nuovo approccio, uno che attacchi le radici dei problemi della regione e sia sostenuto da risorse adeguate. La priorità dovrebbe essere far finire le odierne guerre civili. In ogni caso, sarà  necessario prima di tutto cambiare le dinamiche del campo di battaglia per convincere tutte le parti in lotta che la vittoria è impossibile. In tutte e quattro le guerre civili è necessario intraprendere maggiori sforzi politici indirizzati a forgiare accordi di equa distribuzione del potere.

Esempio siriano

In Siria, i colloqui di pace hanno fornito un punto d’inizio per una soluzione politica, ma non hanno fatto più di questo, perché le condizioni militari non favoriscono un reale compromesso politico. Né il regime di Assad né l’opposizione appoggiata dall’Occidente crede che possa permettersi di fermare i combattimenti e ognuno dei tre più forti gruppi di ribelli – Ahrar al – Sham, Jabhat al – Nusra e l’ISIS, rimane convinto che può raggiungere una vittoria totale. Così la realtà sui campi di battaglia cambia e poco può essere raggiunto ad un tavolo di negoziato. Se la situazione militare cambia, i diplomatici occidentali dovrebbero aiutare le comunità siriane a formare un accordo che distribuisce il potere politico ed economico che li benefici equamente.

E’ il fallimento dello stato – non gli attacchi esterni dell’ISIS, di Al Qaeda o dei proxy iraniani, che rappresenta la vera fonte dei conflitti che dilaniano il Medio Oriente oggi. Siria, Iraq, Yemen e Libia sono in disperato bisogno di assistenza economica e di infrastrutture. Ma prima di ogni cosa hanno bisogno di una riforma politica che eviti il fallimento dello stato. Qui, l’obiettivo non è la democratizzazione per se, ma dovrebbe essere una buona governance, nella forma della giustizia, della regola di legge, della trasparenza e dell’equa distribuzione dei servizi e dei beni pubblici.
Questi paesi sono in un disperato bisogno di aiuti economici, di incentivi finanziari, allora perché per una volta non si mette sul tavolo una proposta di aiuti economici che verranno dati SOLO quando sarà firmato un accordo di distribuzione del potere e cadenzati ad ogni risultato raggiunto per una buona governance? Se non si preme per le riforme: sociali economiche e politiche e non si mette in piedi un nuovo sistema statale, gli stessi vecchi problemi torneranno.