Gennaio 21 2016

E se ci pensassero le potenze regionali all’Afghanistan?

potenze regionali

Sarebbe ora che al futuro dell’Afghanistan ci pensassero le potenze regionali: Cina, India e Pakistan, visto che hanno un vantaggio geopolitico e conoscono bene, loro, dinamiche e comunità locali.

Islamabad, dicembre 2015, Conferenza dal titolo: “Heart of Asia”, partecipanti: Pakistan, Cina, Stati Uniti, il presidente dell’Afghanistan Ashraf Ghani, il ministro degli esteri indiano: Sushma Swaraj.
Cosa c’è di strano? La presenza di Swaraj all’incontro; simbolo di un cambiamento dopo che colloqui di più basso livello furono cancellati nell’estate del 2015. Il ministro in questione e la controparte pakistana hanno annunciato un rinnovato dialogo “comprensivo”. Queste mosse diplomatiche ci suggeriscono che mentre in Afghanistan la battaglia contro i talebani peggiora, il contesto regionale tra l’India e il Pakistan – ognuno guidato dall’unicità delle loro dinamiche – resta come intrecciato.

Una questione tra potenze regionali

L’Afghanistan sta attraversando una serie di sfide economiche, politiche e di sicurezza. La NATO si ritira progressivamente e gli stati nella regione come la Cina, l’India e il Pakistan si coinvolgono in maniera attiva nella ripresa dell’Afghanistan attraverso luoghi di incontro multilaterali come il Processo di Istanbul, la Shanghai Cooperation Organization. In particolare, le capacità di crescita cinesi, il  desiderio di una stabilità regionale e la sua prossimità geografica all’Afghanistan rendono la Cina ben piazzata per giocare un ruolo positivo nella ricostruzione dell’Afghanistan.

Il ruolo della Cina. La Cina ha cambiato la sua politica in Afghanistan, da una posizione di non interferenza ad una di attiva partecipazione nell’assistere la ricostruzione dell’Afghanistan, questo cambiamento è occorso per una serie di ragioni. La pace interna e la stabilità afghana non solo influenzano direttamente la sicurezza della frontiera occidentale cinese ma hanno anche un impatto diretto sugli investimenti cinesi in Afghanistan. La Cina non intende riempire il vuoto militare dal ritiro delle truppe NATO, piuttosto assistere il governo afghano prendendo parte in forme multilivello di cooperazione internazionale e mediazione.
Il vice rappresentante cinese alle Nazioni Unite, Wang Min, ha dichiarato che la Cina è pronta ad incoraggiare attivamente l’Afghanistan a prendere parte allo sviluppo economico regionale attraverso One belt One road, una iniziativa a guida cinese che finanzia progetti di infrastrutture nell’Asia centrale, sud – est e sud.

Il ruolo dell’India. Sebbene implementati silenziosamente, i grandi investimenti economici indiani e i legami con alcuni leader delle fazioni afghane, incluso l’ex presidente Karzai, contribuiscono significativamente ad incrementare le paure pakistane di un accerchiamento geo strategico dal suo rivale di lungo corso. L’Afghanistan per se, non sembra presentare una preoccupazione strategica per l’India. New Dehli nutre l’interesse nel contro bilanciare il Pakistan proprio in Afghanistan e prevenire che gruppi militanti pakistani attacchino l’India, come fu il caso di Lashkar – e – Taiba, (responsabili per gli attacchi di Mumbai del 2008) e dall’utilizzare le basi afghane per addestrare ed equipaggiare gruppi estremisti.
L’India non ha dispiegato truppe di combattimento in Afghanistan, ma ha addestrato diverse classi di soldati afghani ed ufficiali da quando ha firmato l’accordo di partneriato strategico con Karzai nel 2011. L’India è anche partner con l’Iran per lo sviluppo del commercio delle infrastrutture nell’Afghanistan occidentale, una mossa che consentirebbe agli esportatori afghani di oltrepassare il Pakistan per avere accesso diretto ai mercati indiani, e ha supportato progetti di infrastrutture come la ring road e la diga Salma nella provincia di Herat. Dopo lo scetticismo per il supporto dei Pakistani per i colloqui di pace in estate, le negoziazioni tra l’Afghanistan e l’India sono riprese per il trasferimento di almeno 4 Mi-35 (elicotteri d’assalto).
Si può dire che l’impegno indiano in Afghanistan opera il larga parte nell’ombra delle relazioni indo – pakistane.

Il ruolo del Pakistan. Ghani ha un approccio più conciliatorio verso il Pakistan, rispetto a quello che aveva Karzai, ma è anche più limitato come esecutivo rispetto a Karzai: la sua amministrazione è divisa in un governo di unità; deve lottare con le contrazioni dell’economia e adempiere al compito di combattere i Talebani senza un supporto internazionale di larga scala.
Dal momento che gli Stati Uniti e le altre forze internazionali si sono mosse verso il disimpegno dalla partecipazione diretta nel conflitto afghano, i funzionari pakistani appaiono entusiasti di essere visti come i facilitatori di una ripresa del dialogo tra i Talebani e Kabul. Sebbene i Talebani non abbiamo dato nessun segno di essere pronti ad accettare una “pace” con il governo afghano.
Tra i funzionari afghani c’è però chi sostiene e descrive i loro oppositori come pupazzi delle potenze esterne e sono quasi unanimi nel descrivere il Pakistan come direttore d’orchestra dei Talebani. I due vice di Mansour, al vertice del movimento jihadista in Afghanistan, sono membri della rete Haqqani (una fazione molto legata all’intelligence pakistana), Mansour stesso pare che abbia sostanziosi affari illeciti nel Pakistan e che lì operi con il consenso dei funzionari locali. Chiaramente un processo di pace che porterebbe l’odierna leadership talebana in qualche ruolo politico riconosciuto potrebbe conferire all’establishment di sicurezza pakistano un nuovo grado di influenza in un futuro governo afghano, mentre, allo stesso tempo, ridurre la pressione internazionale e degli Stati Uniti sul fatto che il Pakistan sia lo sponsor dell’insurrezione.

Il gioco tra i due rivali di sempre: l’India e il Pakistan

Ecco che rientra in gioco l’India. Alcuni funzionari indiani hanno espresso una sorta di allarme che l’amministrazione di Ghani, raggiunta dal Pakistan, possa dare il via ad una marginalizzazione degli interessi dell’India o alla legittimazione dei proxies pakistani in Afghanistan e hanno sostenuto un intervento più diretto. Quest’ultima proposta, ad ogni modo, non appare avere consenso tra i politici indiani

Se l’India e il Pakistan riuscissero a raggiungere una détente dopo il raffreddamento delle loro relazioni negli ultimi due anni, gli effetti hanno il potenziale di estendersi all’Afghanistan.

L’Afghanistan non è ancora capace si sostenersi da solo economicamente; le finanze governative dipendono fortemente dall’aiuto internazionale e dagli investimenti esteri. Le forze della coalizione stazionate nel paese sono servite come una sostanziale fonte di crescita economica nel paese, specialmente nel settore dei servizi. Il graduale ritiro di queste forze peggiorerà le sfide economiche dell’Afghanistan.
Politicamente i signori della guerra rimangono un problema serio. Gli ex signori della guerra sono stati inclusi nel governo afghano, rafforzando la loro influenza politica a livello locale. La competizione tra le diverse fazioni per la divisione del potere dello stato è diventata una regola politica. Il governo democratico eletto è debole e frammentato, incapace di combattere la corruzione, di esercitare il controllo effettivo su un paese nella sua totalità o di assicurare la sicurezza pubblica di cui i cittadini hanno bisogno. La mancanza di fiducia popolare nel governo è diventata una grande sfida.
Al contrario delle organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite, gli attori regionali hanno un vantaggio geopolitico e sono molto più familiari con dinamiche e bisogni locali. Ed è proprio per questo che la cooperazione regionale giocherà un ruolo cruciale nella ricostruzione dell’Afghanistan.

Gennaio 20 2016

Implementation day oscurato dal Prisoner day

Implentation day

L’Implementation day, giorno in cui viene diffuso dall’IAEA il rapporto che verifica gli adempimenti dell’Iran viene quasi oscurato dallo scambio di prigionieri tra Stati Uniti ed Iran.

Cos’é l’ Implementation Day?

Il giorno in cui viene diffuso il rapporto IAEA che ha verificato che l’Iran ha adempiuto agli impegni previsti dall’accordo sul nucleare. Vediamo i punti salienti:

-Reattore Arak: l’Iran ha cessato di perseguire la costruzione del reattore Arak basato sul suo disegno originale e ha rimosso l’esistente calandria ( che è il contenitore cilindrico del reattore che contiene il moderatore di acqua pesante. È penetrato da capo a piedi da centinaia di tubi calandria, che aggiustano la pressione dei tubi che contengono il combustibile e il liquido refrigerante)e non é più operativo. L’Iran ha fatto tutte le modifiche necessarie al processo di produzione esistente del combustibile naturale uranio per la modernizzazione del reattore Arak.
La capacità di arricchimento é sotto 5060 centrifughe IR – 1; rimosso tutte le centrifughe aggiuntive e le infrastrutture sono a Natanz sotto continuo monitoraggio.
– L’arricchimento R&D non accumula l’arricchimento di uranio.
Nell’impianto di arricchimento combustibile di Fordow non si sta conducendo nessun arricchimento di uranio o relative R&D
– Produzione di centrifughe e trasparenza nella produzione di componenti delle centrifughe.
Simultaneamente, l’UE termina le disposizione del Regolamento del Consiglio 267/2012 e sospende le disposizioni corrispondenti alla decisione del Consiglio 2010/413/CFSP e gli stati membri cambieranno la propria legislazione successivamente. Le sanzioni tolte includono: la proibizione e autorizzazione a trasferimenti finanziari all’Iran e dall’Iran, su: attività bancarie, assicurazioni, supporto finanziario e commercio con l’Iran, prestiti, assistenza finanziaria, obbligazioni pubbliche garantite dal governo dell’Iran, petrolio, gas e settore petrolchimico.
Nello stesso tempo, gli Stati Uniti cessano l’applicazione delle sanzioni finanziarie e misure bancarie, nel settore petrolchimico ed energetico; transazioni con operatori portuali e spedizioni, commercio dell’Iran di oro e metalli preziosi e la rimozione di centinaia di individui ed entità dalla lista delle Specially Designated Nationals and Blocked Persons List (SDN List), the Foreign Sanctions Evaders List, ovvero the Non-SDN Iran Sanctions Act List. Gli stati Uniti si impegnano anche a permettere la vendita di aeroplani trasporto passeggeri e le relative parti e servizi esclusivamente per uso civile.

Lo scambio di prigionieri oscura l’Implementation day

Implementation DayIn un giro di valzer, l’annuncio del così detto “implementation day” è stato quasi oscurato da un separata ma ugualmente significativa svolta: il rilascio di 5 iraniani – americani detenuti a lungo in Iran.  Prese insieme queste pietre miliari rappresentano un importantissimo passo in avanti per l’Iran e per gli sforzi diffusi del suo presidente, Hassan Rouhani, per muovere il suo regime rivoluzionario verso una più grande moderazione sia a casa che all’estero.
Il rilascio dei prigionieri da parte dell’Iran, la maggior parte di doppia nazionalità iraniana – Americana non è stato un atto di generosità. Ogni uomo detenuto fu messo in prigione palesemente con accuse inventate e trattato in un modo terribile durante la detenzione, in cui in un caso è durata per più di 4 anni. La loro libertà avviene come parte di uno scambio di prigionieri che includeva la clemenza per sette iraniani detenuti negli Stati Uniti, così come la rimozione di 10 iraniani dalle liste dell’Interpol. Gli accordi non includevano l’uomo d’affari americano Siamak Namazi, che era detunuto da ottobre, neppure l’ex agente dell’FBI Robert Levinson che è scomparso in Iran nel 2007.
Il rilascio di 5 americani detenuti rappresenta un passo indietro iraniano su una questione centrale per le ideologie di regime. Per Tehran, imprigionare americani non era mai stato motivato dalla prospettiva di un profitto. Piuttosto, il centro di gravità all’interno dell’elite iraniana al potere rimane che c’è una cospirazione guidata dagli americani per il cambio di regime, facilitato da coloro che hanno la doppia nazionalità come quelli arrestati.
Teheran non prende alla leggera queste minacce percepite ed i suoi leader non rilasciano presunte spie americane volentieri. Questi mesi di negoziazione che hanno dato vita allo scambio di prigionieri racchiudono un considerevole investimento di capitale politico da parte di politici iraniani più pragmatici.
Ancora più significativo è il tempo dello scambio di prigionieri.Gli sforzi fatti per enfatizzare che i colloqui sul destino dei prigionieri erano distinti dai colloqui sul nucleare, il loro rilascio lo stesso giorno in cui iraniani, americani ed europei si erano riuniti per formalizzare l’adempimento dell’accordo sul nucleare fanno evidentemente associare il rilascio dei detenuti americani con l’accordo.
La confluenza dei due eventi rafforzerà soltanto la convinzione dei conservatori iraniani dei complotto e gli alleati americani nel golfo vedranno lo scambio di prigionieri come una prova di quello che hanno sempre sospettato e di cui hanno molta paura.
L’odierna leadership iraniana non cerca nè il pieno riavvicinamento neppure è preparata a pagare il prezzo che questa retromarcia potrebbe contenere.
Molti commentatori si sono focalizzati sulle rivalità delle fazioni iraniane, prendendo gli ultimi sviluppi come una vittoria dei moderati sui conservatori. Tuttavia questa enfasi sulle fazioni tende ad essere esagerata e troppo semplificata. L’assortimento iraniano dei gruppi politico – ideologici è fluido e multi – valente, essi cooperano anche se competono e le loro differenze verranno sovrastate dal loro comune impegno per la continuazione del sistema di governo.
In contrasto, le linee divisorie dell’autorità istituzionale nella Repubblica Islamica sono sempre state più strenuamente demarcate. La presidenza iraniana è costruita con un ruolo deliberatamente subordinato e ognuno dei predecessori di Rouhani si è irritato per le sue limitazioni.
Il successo è anche un testamento dell’amministrazione Obama nella diplomazia. I repubblicani nella campagna presidenziale sono stati molto vocali nel criticare le negoziazioni e le concessioni a Teheran, ma è difficile immaginare che ci sia una trazione aggiuntiva da vincere per aver liberato americani innocenti.

Gennaio 19 2016

L’accordo sul nucleare: capirlo in pochi facili passi

accordo sul nucleare

Iniziamo la rubrica “vedremo un McDonald a Teheran” cercando di capire cosa è l’accordo sul nucleare

L’accordo sul nucleare, partorito dopo 12 mesi di negoziazione, un successo per la diplomazia, che prevede una linea temporale di 10 anni. Ci sono diversi punti a sfavore.

Il 14 luglio 2015, giorno in cui è stato raggiunto l’ accordo su un piano congiunto di azione detto JCPOA sul nucleare in Iran hanno tutti gridato al trionfo della diplomazia, all’aver evitato una guerra. Ci sono voluti ben 12 mesi di negoziazione tra i P5 (Germania, Francia, Inghilterra, Stati Uniti, Cina e Russia) e il “+1”: l’Iran.
Il testo ha un totale di 159 pagine, 18 rappresentano il JCPOA stesso, poi ci sono 141 pagine divise in 5 annessi. E’ un documento estremamente complesso, che cerca di abbracciare e indirizzare tutte le questioni sulle controversie del programma nucleare iraniano, da quali e quanti tipi di centrifughe per l’arricchimento dell’uranio l’Iran potrà mantenere operative, alle specifiche tecniche della trasformazione del reattore Arak in un design meno sensibile alla proliferazione a una quantità enorme di disposizioni dettagliate sulla precisa sequenza delle sanzioni che verranno revocate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea (UE).

Il 20 luglio 2015 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite adotta la risoluzione 2231 attraverso cui sostiene l’accordo sul nucleare.

Che cos’è l’accordo sul nucleare?

E’ un accordo di qui pro quo per il quale l’Iran accorda a delle significative limitazioni del suo programma nucleare civile e ad un’intesa attività ispettiva dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA) allo scopo di verificare la continua, pacifica natura del programma. Quindi i P5+1 hanno convenuto in una revoca coordinata delle sanzioni economiche e finanziare che sono state imposte all’Iran nei passati 6 anni sia dal Consiglio di Sicurezza agendo multi – lateralmente che dagli Stati Uniti e dall’UE in particolare, agendo unilateralmente.

Lo scopo dell’accordo

L’Iran verrà sostanzialmente trattato come uno stato che produce normalmente energia nucleare, al pari del Giappone, della Germania e di altri stati parte del Trattato del 1968 sulla Non – proliferazione nucleare.

L’implementazione

La precisa sequenza dell’implementazione degli impegni del JCPOA è stato uno dei temi maggiormente discussi. Il piano prevede approssimativamente una linea temporale di 10 anni. Tecnicamente il cosiddetto giorno in cui le risoluzioni del Consiglio di sicurezza avranno termine è stato programmato tra 10 anni a partire dal giorno dell’adozione che è stato pianificato essere 90 giorni dopo l’ ”approvazione” del JCPOA da parte del Consiglio di Sicurezza. La revoca finale di tutte le sanzioni unilaterali e multilaterali dovrebbe avvenire nel giorno cosiddetto di “transizione”, che è definito essere 8 anni dopo il giorno dell’adozione ovvero quando i rapporti della IAEA indicheranno che tutto il materiale nucleare iraniano è destinato ad un uso pacifico.

Meccanismo di risoluzione delle controversie

Viene creata una commissione congiunta composta da un rappresentante di Cina, EU, Francia, Germania, Iran, Russia, UK, Stati Uniti.
Pro: Creare un giusto processo, con scadenze predefinite in modo che le controversie non si possano prolungare all’infinito. Ogni membro del Consiglio di Sicurezza con potere di veto, potrebbe, assicurare che le sanzioni vengano re – imposte se non sono soddisfatte con i risultati delle deliberazioni della Joint Commission ovvero non sono soddisfatte con la performance della parte che è sotto esame.

Contro: l’Iran ha dichiarato che se le sanzioni vengono re – imposte in tutto o in parte, le tratterà come la base per  cessare di impegnarsi ad implementare l’accordo sul nucleare in tutto o in parte. Sarà molto più difficile per i governi legittimare ogni risposta al di fuori dal JCPOA, inclusa ogni risposta unilaterale, alle violazioni iraniane all’accordo intese a prevenire l’Iran dall’acquisizione di armi nucleari almeno e fino a quando il processo della commissione si sia esaurito.
Realisticamente, la volontà degli stati di tenere responsabili altre parti per l’implementazione ed intraprendere i passi necessari per farlo rispettare dipenderanno dalle circostanze che si paleseranno. Queste circostanze includeranno la performance dei termini specifici del JCPOA così come dinamiche politiche, economiche e di sicurezza più ampie, anche se il JCPOA è confinato alla materia relativa al nucleare.

Riduzione delle centrifughe IR-1s

Oggi, molte delle delle 19000 centrifughe di gas so a bassa capacità IR – 1s, ma l’Iran ha messo su macchine più avanzate IR – 2m e sta sviluppando modelli più potenti. Per 10 anni, l’Iran ridurrà di circa 2/3 le sue 19,000 centrifughe. L’Iran potrà avere solo 6,104 centrifughe IR – 1 di prima generazione installate e non ne potrà usare più di 5,060 per arricchire l’uranio. Per 15 anni, l’Iran non potrà costruire nuovi impianti di arricchimento, ma deve ridurre le sue scorte di uranio arricchito di circa 10000 chilogrammi a 300 chilogrammi (arricchite al massimo livello di 3,67 %). l’Iran sarà soggetto a strette limitazioni su tutte le centrifughe R&D per 8 anni. Lavori saranno permessi solamente su un numero limitato dei modelli più avanzati a condizione che le operazioni di controllo e di prova non contribuiscano alle scorte iraniane di uranio impoverito. Trascorsi 8 anni, le restrizioni sullo sviluppo di tecnologie avanzate verranno rimosse.

Pro: per 8 anni, il tempo che l’Iran necessiterebbe per produrre abbastanza uranio impoverito per un’arma nucleare, il cosiddetto “breakout time” – dai 2 ai 3 mesi sarebbe aumentato ai 12 mesi. La IAEA sarebbe capace di rilevare se l’Iran sta imbrogliando sui limiti di arricchimento in ogni impianto dichiarato.
Contro: l’Iran conserverebbe un programma di arricchimento su una scala che fino a questo momento non è stata giustificata dai bisogni pratici del paese. Dopo che le restrizioni da 10 a 15 anni saranno terminate, l’Iran potrebbe espandere le sue attività di arricchimento senza restrizioni sulla tecnologia, sul livello, e sulla locazione. Potrebbe anche sviluppare centrifughe più avanzate e più potenti, incluse quelle che sono oggetto delle restrizioni dell’accordo sul nucleare.

Il sito Natanz

Natanz è il  più grande sito iraniano  di arricchimento dell’uranio e la rivelazione che nel 2002 l’Iran l’aveva costruito in segreto fece scatenare la crisi nucleare. Infatti, ci sono due impianti di arricchimento a Natanz. Uno è una struttura di scala industriale disegnata per 50,000 centrifughe ed è al momento equipaggiata con più di 15,000 centrifughe IR – 1 e circa 1,000 IR – 2ms. Una seconda, più piccola è usata per le operazioni di verifica di centrifughe avanzate e in sviluppo e fino al 2013 arricchite al 20%. Secondo il JCPOA, l’Iran è limitata a tenere operative solo 5,060 centrifughe IR – 1 a Natanz per 10 anni. Tutte le centrifughe IR – 2m saranno rimosse e conservate in un programma monitorato dall’IAEA
Pro: per 10 anni, l’Iran sarà solo capace di arricchire usando le sue centrifughe IR-1
Contro: dopo 10 anni, l’Iran potrebbe iniziare ad incrementare l’arricchimento di uranio con centrifughe più avanzare, e quindi incrementando la sua capacità di arricchimento.

Il reattore IR – 40 ad Arak

accordo sul nucleareDal 2006, l’Iran ha sfidato le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza che ordinavano la sospensione della costruzione del reattore IR – 40 ad Arak un reattore ad acqua pesante idealmente adatto alla produzione di armi al plutonio. Secondo il JCPOA l’Iran non completerà l’IR-40 come pianificato, ma modificherà il suo disegno, limiterà le sue attività che includono l’acqua pesante e rimuoverà dal reattore il combustibile irradiato. L’Iran si impegna a non ri – processare il combustibile spento per 15 anni e dichiara di non intenderlo farlo dopo.

Pro: la modifica del progetto IR-40 ridurrà significativamente la quantità del plutonio che potrebbe essere prodotto ad Arak e assicurerà che se l’Iran cerca di produrre armi al plutonio, lo potrà fare solo con piccolissime quantità.
Contro: dopo 15 anni, l’Iran potrebbe decidere di ri – processare il combustibile.

Gennaio 17 2016

Balcani a rischio ISIS

Balcani

Nei Balcani molti religiosi islamici si radicalizzano. Le connessioni con il crimine organizzato e le crisi di legittimità delle istituzioni facilitano il diffondersi dell’estremismo violento: l’ISIS ci sguazza.

Per i militanti dell’ISIS, i foreign fighters che vengono dai Balcani rivestono una particolare importanza visti i legami storici con l’Islam. La loro terra è vicina alle altre dell’Europa occidentale e le dispute etniche nella regione rimangono  appena sotto la superficie. Un video diffuso nel giugno del 2015 dal centro d’informazione dell’ISIS, l’Hayat Media Center, per esempio, enfatizza l’importanza strategica della penisola balcanica per lo stato islamico analizzando lungamente il significato storico che i musulmani dei Balcani hanno avuto nello sfidare “i crociati europei” durante l’impero ottomano, così come le durevoli avversità durante i regimi di Enver Hoxha e Josip Broz durante il comunismo di Tito, rispettivamente in Albania e Yugoslavia. In uno degli ultimi numeri di Dabiq, la rivista in inglese dell’ISIS, l’organizzazione continua a riferirsi all’importanza dei Balcani e chiama i suoi seguaci nella regione a condurre attacchi.

La radicalizzazione religiosa islamica nei Balcani

Le comunità musulmane in Albania, Kosovo e Bosnia praticano una visione moderata dell’Islam, basata sulla giurisprudenza Hanafi e sulla tradizione Sufi ereditata da decadi di regno ottomano. Tuttavia, gli sforzi guidati dai sauditi in seguito alla caduta dei regimi comunisti hanno cercato di fare dei Balcani un bastione della pratica delle dottrine salafiste ed wahhabiste. Uno dei risultati di questo processo è che negli ultimi due anni, più di 1000 foreign fighter dai balcani dell’ovest si è unito all’ISIS. Queste reclute provengono dalle comunità musulmane in tutta la regione incluso l’Albania, il Kosovo, la Bosnia Herzegovina, la Serbia ed il Montenegro.
L’anno scorso le autorità nella regione hanno condotto una serie di arresti di gruppi ed individui presumibilmente coinvolti nell’ispirare e facilitare il flusso dei foreign fighter verso lo stato islamico. In Albania, per esempio, le autorità hanno intrapreso una serie di operazioni di sicurezza nel marzo del 2014 contro una presunta rete di reclutatori basati in due moschee nei sobborghi di Tirana e hanno arrestato 9 individui per aver facilitato il reclutamento e finanziamento di attività terroristiche. Tra questi individui, due imam strumentali nella radicalizzazione dei seguaci del gruppo. In più, dall’agosto del 2014, le autorità di sicurezza in Kosovo hanno arrestato ed interrogato più di 100 individui durante  investigazioni sul reclutamento del giovane albanese e due donne del Kosovo per l’ISIS. Operazioni simili sono state condotte in Macedonia, Bosnia, Serbia.

Restano aperte le questioni circa la continuità della dottrina religiosa conservatrice in queste aree e i modi attraverso cui è utilizzata per stabilire roccaforti di supporto tra le comunità più piccole. Sebbene molti dei paesi in questa regione restano entusiasti di entrare nell’Unione Europea, alti livelli di corruzione e crimine organizzato hanno creato un ambiente in cui le ideologie più conservatrici si diffondono, specialmente in paesi con popolazione a predominanza musulmana, come il Kosovo e la Bosnia.

Mancano misure preventive contro questo boom radicale che potrebbe, potenzialmente, fare del radicalismo religioso una delle più grandi minacce alla sicurezza della regione insieme con il crimine organizzato.

La rabbia condivisa per alti livelli di disoccupazione ed estesa corruzione governativa sono state ulteriormente alimentate da una diffusa disaffezione per il processo di integrazione UE troppo lungo.

Questi elementi sono diventati il pezzo forte della narrativa che molti leader islamisti hanno promosso per vincere il supporto locale infuocando sentimenti anti – occidentali e anti – governativi tra i loro seguaci.

In aggiunta, la disaffezione con lo status quo spiega anche il graduale aumento delle persone del Kosovo e dell’Albania che migrano nell’Europa occidentale nella speranza di trovare occupazione. Per esempio i migranti albanesi si posizionano al terzo posto dopo i siriani e gli afghani in cerca di asilo in Germania.
Più le istituzioni statali mancano di credibilità maggiore è la spinta di iman radicali e gruppi simili a riempire il vuoto, rimpiazzando i leader religiosi moderati e altri attori sociali nelle comunità.
Mentre la religiosità era già una componente integrale di una società che storicamente promuove la coesistenza pacifica tra le religioni, molti in Kosovo hanno gradualmente abbracciato le ideologie salafiste e wahhabite, dando il via ad uno spostamento delle loro visioni e attitudini. Centinaia di religiosi conservatori dal Kosovo si sono uniti allo stato islamico negli anni recenti.
Oltre al cambiamento di approccio verso la religione della gioventù dei Balcani, i conservatori vicini allo stato islamico hanno apparentemente stabilito una presenza fisica nella regione comprando beni immobili e ristabilendo quelle “vecchie” linee di contatto tra fazioni combattenti locali dei conflitti del 1990. Questo è stato maggiormente visibile in Bosnia, dove questi tipi di proprietà sono spesso molto danneggiate nelle aeree remote o che sono state abbandonate dalle autorità statali. Secondo un rapporto sui combattenti bosniaci in Siria, queste tipi di acquisti sono comuni tra i salafisti locali. Le odierne comunità che abitano in questi villaggi non sono affatto timide nel fare pubblicità al loro supporto per lo stato islamico, sia facendo sventolare le bandiere del gruppo oppure mediante altri simboli del gruppo.

Il caso dell’Albania

L ’Albania è stata a lungo nella storia un paese di transito e destinazione della cannabis, dell’eroina e della cocaina ed è stata a lungo considerarla una fonte per la cannabis ai paesi dell’UE. Anche se recentemente il ministro dell’interno albanese ha dichiarato che recentemente quasi tutte le piante di marijuana nel nord e nel sud del paese, sono state distrutte a seguito di operazioni di polizia, le questioni rimangono su chi gestisce queste aree e  chi profittava dai lucrativi guadagni. Sebbene diretti legami tra lo stato islamico e gruppi organizzati in Albania, non siano confermati, la rampante corruzione in tutti i settori della società, incluso il sistema giudiziario, e sospetti di legami con la prostituzione e la droga nell’establishment politico sono un campanello d’allarme sia per l’Albania che per il resto dei Balcani perché particolarmente vulnerabili ai gruppi estremisti che vogliono stabilire la propria presenza in Europa.

Gennaio 14 2016

UE apre indagine su Varsavia: porterà alle sanzioni?

UE

Chiudere il cancello quando i buoi sono scappati non è mai una saggia idea. Così si comporta l’Unione Europea che non ha sanzionato l’Ungheria per la sua politica decisamente contraria ai principi europei ed ora indaga sulla Polonia, quando il governo polacco ha già varato leggi che imbavagliano la Corte Costituzionale e i media.

Nel precendente  post abbiamo guardato più da vicino la situazione della Polonia, delle leggi che imbavagliano i media e che riducono sensibilmente i poteri della Corte Europea. Oggi ragioniamo sulle recentissime mosse della Commissione Europea che proprio ieri ha lanciato un’indagine senza precedenti per verificare il comportamento di Varsavia proprio in relazione ai valori cardine dell’Unione Europea (UE). Konrad Szymański, il ministro polacco per gli affari europei, ha commentato che la Commissione Europea rischia di immischiarsi nel dibattito politico interno del suo paese. Nella dichiarazione ai giornalisti, dopo un incontro con membri del parlamento europeo a Bruxelles, il ministro polacco si è mostrato contento di fornire ogni spiegazione utile a capire la situazione in Polonia.

A Bruxelless iniziano a suonare le campanelle di allarme

Il diritto europeo non fornisce nessuna via per cacciare un membro che offende i valori dell’Unione Europea (UE), può però metterlo in “quarantena”. Quando un paese persiste nel violare i valori basilari dell’UE, del rispetto della democrazia, le regole di legge o i diritti umani, la più severa sanzione è quella di sospendere lo stato dal voto nelle istituzioni europee attraverso l’invocazione dell’art. 7 del Trattato dell’Unione Europea (TUE).

Dopo la mossa dell’Ungheria nel disabilitare il sistema di checks and balance del suo sistema costituzionale, la Polonia è il secondo stato a generare una minaccia tale da innescare l’art. 7 del TUE. Proprio perché la Polonia segue l’Ungheria, le più aspre sanzioni disponibili con l’art. 7 sono diventate quasi impossibili da utilizzare. Orban, il primo ministro ungherese, ha annunciato che l’Ungheria bloccherà l’invocazione dell’art. 7 contro la Polonia. E lo può fare. Le sanzioni richiedono la votazione all’unanimità del Consiglio Europeo, meno lo stato in questione, quindi l’Ungheria ha il veto.

Cosa prevede l’art. 7 del Trattato Unione Europea (versione consolidata)

L’art.7 include due parti separate: un sistema di “avvertimento” nel paragrafo 1 e un meccanismo di sanzioni ai paragrafi 2 e 3. L’unica strada che le istituzioni europee hanno a disposizione per mantenere sul tavolo le sanzioni secondo l’art,7, 2 è  di agire contro la Polonia e l’Ungheria allo stesso tempo invocando prima l’art. 7,1.

Quello che è oggi l’art. 7, fu inserito nel diritto europeo in due fasi. Il meccanismo di sanzione che è oggi l’art.7, 2 fu introdotto nel trattato di Amsterdam nel 1999 quando i paesi europei post – comunisti aspettavano nell’anticamera dell’UE, per la preoccupazione dei paesi già membri dell’Unione Europea di possibili comportamenti immorali e “anti – democratici” di questi nuovi stati.

La prima volta che la questione delle sanzioni collettive si presenta è nei riguardi dell’ Austria, quando Jörg Haider ed il suo partito furono inclusi nella coalizione di governo dopo le elezioni del 2000. Anche se le sanzioni erano disponibili, la sospensione di larga scala dei diritti del paese nell’UE fu considerata troppo dura, così gli altri membri dell’UE fecero ricorso ad un set coordinato di sanzioni bilaterali contro il governo austriaco.
Il caso austriaco dimostrava la necessità che ci fosse una mossa di avvertimento prima di invocare sanzioni su vasta scala, quindi il diritto europeo venne modificato da quello che è oggi l’art. 7,1.

UE
L’Unione Europea può rivolgere allo stato in questione raccomandazioni, fornendo quindi un’opportunità di rettificare la sua condotta.

Dato il via all’art. 7,1 per l’Ungheria resta poi un nulla di fatto

Il caso ungherese già ha evidenziato come l’utilizzo di qualsiasi parte dell’art. 7 sia difficile. Il parlamento europeo da inizio all’applicazione dell’art 7,1 con il rapporto Taveres nel luglio del 2013 quando avverte del rischio di serie violazioni dei valori europei da parte dell’Ungheria. Chiama la Commissione Europea a monitorare l’Ungheria e vede lo sviluppo della trilogia: Consiglio, Commissione e Parlamento impegnarsi in uno sforzo costruttivo per riportare l’Ungheria in linea.
La Commissione Europea annuncia un meccanismo di regola di legge nella primavera del 2014, creando un processo di dialogo multi livello con quel membro i cui comportamenti non sono in linea con le regole di legge europee, processo che deve quindi avere luogo prima dell’invocazione dell’art. 7.
Il servizio legale del Consiglio Europeo prontamente annuncia il modesto sforzo al di là dello scopo dei poteri della Commissione ed il Consiglio annuncia la creazione di un meccanismo ancora più inefficace nel tardo 2014, che prevede una revisione paritaria che sfocia più nell’autocelebrazione che nello stabilire oggettivamente se si siano infrante delle regole o dei valori.
In assenza di un serio rimprovero nei confronti dell’Ungheria da parte delle altre istituzioni europee malgrado i richiami espliciti all’azione, il parlamento europeo sta considerando il suo meccanismo di regola di legge come qualcosa che deve essere cambiato.
L’Ungheria è andata per la sua strada senza sanzioni. La drammatica mancanza di azione ha dato vita a European Citizen Initiative consesso che raccoglie firme per forzare la Commissione europea a mettere l’Ungheria sotto esame.

L’UE implementerà sanzioni per la Polonia o non saranno neanche utili come minaccia?

L’art. 7 è sul tavolo come possibile opzione per Bruxelles, ma è già troppo tardi affinché le sanzioni siano una reale minaccia. Lasciando che l’Ungheria scivolasse verso le strade non battute della politica interna senza controlli e bilanciamenti, i membri dell’UE hanno dissipato la loro abilità di agire collettivamente per sanzionare la Polonia.

Se verranno proposte sanzioni contro la Polonia, l’Ungheria apporrà il veto e vice versa. Tuttavia, c’è un modo per far sì che le sanzioni dell’art. 7 possano essere adottate. L’art 7,1, la fase di avvertimento,  può essere innescata da 4/5 della maggioranza del Consiglio (insieme con 2/3 della maggioranza del Parlamento), ciò vuol dire che né l’Ungheria né la Polonia possono apporre il veto sull’uso dell’art.7,1 l’una a favore dell’altra.

Vista la condotta del governo ungherese negli ultimi 5 anni ci sembra che si sia fatto trascorrere inutilmente un lungo periodo per poter sollevare l’art.7,1 nei confronti dell’Ungheria.
Se le istituzioni europee volessero muoversi decisamente verso le sanzioni, rimuovendo sia il voto dello stato dal processo di formazione delle leggi europee, dovrebbero argomentare che nessuno stato già sotto la tutela dell’art. 7, 1 dovrebbe essere in grado di votare le sanzioni del paragrafo 2. Questo rimuoverebbe efficacemente ed effettivamente la possibilità di veto che l’Ungheria minaccia di utilizzare e la stessa possibilità che probabilmente invocherebbe la Polonia per difendere l’Ungheria.

Tuttavia ci sembra di vedere un errore di fondo: l’Unione Europea non può iniziare a disciplinare solo il caso polacco, senza indirizzarsi anche all’Ungheria. Proprio perché é in ragione del comportamento ungherese rimasto impunito che si sono rese possibili le azioni polacche, il meccanismo di sanzioni europee per un paese e non per un altro non può funzionare.

Gennaio 9 2016

Finché la Polonia va l’Unione Europea la lascia andare

Polonia

La Polonia tra bavaglio ai media e pugno duro con la Corte Costituzionale preoccupa Bruxelles e gli Stati Uniti.

Un altro paese conservatore dell’Unione Europea, che parla alla gente di come la debolezza dei funzionari europei minacci i loro interessi.

Nel pensare l’argomento di questo post, mi sono soffermata un attimo a riflettere ad una domanda che mi è stata rivolta qualche settimana fa. “Perché in Italia non si parla di politica internazionale?”. Desidero allora cogliere l’occasione di rispondere e precisare perché il mio blog tratta di alcuni argomenti “impopolari”.

La politica internazionale in Italia si risolve quasi sempre attorno agli argomenti generalisti, quelli per cui i giornali riescono a vendere più copie. Quelli per cui molti politici ci fanno campagna elettorale. Molti paesi escono completamente dall’occhio delle relazioni internazionali italiane, un po’ per la superficialità del governo e del suo ministro degli esteri, ma molto perché appunto non fanno audience. La politica internazionale non deve fare gossip; le relazioni internazionali, l’equilibrio del potere tra gli Stati, il fatto che apparati sovraordinati agli stati come l’Unione Europea  barcollino è un discorso complesso che deve necessariamente abbracciare la singola politica di tutti gli stati presenti nel mondo.

Per questo motivo oggi parliamo della Polonia, perché la debolezza dell’Unione Europea è anche nella spinta centrifuga dei suoi stati membri. La Polonia, come la vicina Ungheria, si sposta verso una linea conservatrice concentrata sul mantenimento e rafforzamento del potere locale, a discapito dell’equilibrio complessivo dell’Unione.

Il nuovo governo polacco, peraltro, preoccupa anche gli Stati Uniti. Le relazioni internazionali, per l’appunto, sono collegamenti anche apparentemente invisibili da un capo all’altro del mondo.

Polonia come Ungheria?

Il governo polacco, eletto recentemente, guidato dal partito Diritto e Giustizia, conosciuto in polacco come il PiS, si dipinge come un coraggioso condottiero contro una elite discreditata che agiva contro gli interessi dei polacchi.
Il precedente partito di governo di centro – destra, guidato da “piattaforma civile” nel chiaro tentativo di mantenere l’influenza sulla Corte Costituzionale nomina cinque membri, aprendo una crisi istituzionale che si acuisce con la vittoria schiacciante del PiS nelle elezioni di ottobre 2015, portando al potere il primo governo di maggioranza in Polonia dalla caduta del comunismo. La vittoria parlamentare segue la vittoria a sorpresa del candidato del partito, il giovane avvocato di Cracovia, Andrzej Duda, alla presidenza. La presidenza polacca è un titolo più “cerimoniale” che altro, ma il presidente è in grado di porre il veto sulle leggi e proporne di nuove.
Un mese fa la Corte Costituzionale polacca stabilisce che tre dei cinque giudici nominati da “piattaforma civile” erano costituzionali, ma Duda si rifiuta di farli giurare; ne nomina cinque nuovi, facendone giurare quattro durante una cerimonia notte tempo al palazzo presidenziale. Mossa questa di dubbia costituzionalità. La corte rifiuta i nuovi membri di Duda, ma il governo si spinge oltre. Una sessione infuocata del parlamento proprio a dicembre 2015, decide che tutte le decisioni della corte devono essere prese a maggioranza dei 2/3. Questa è la strategia per far accettare alla Corte le nomine del PiS e rallentare il processo di controllo della legislazione parlamentare da parte della Corte e, non da ultimo, diminuire i suoi poteri di bloccare nuove leggi.
Il 30 dicembre 2015, il parlamento in tutta fretta approva una nuova legislazione che concentra nel governo il controllo dei media dello Stato. I funzionari dell’Unione Europea hanno condannato la legge come una minaccia alla libertà di parola; ma ora questa è la legge in Polonia.
Duda ha descritto la Polonia come una vergogna, piuttosto strano visto il miglioramento degli standard di vita dei polacchi ed il suo processo di crescita come potenza diplomatica in Europa. Tuttavia Duda ed il PiS rappresentano milioni di polacchi che sentono di essere stati lasciati fuori dal boom economico o alienati dall’elite liberale. Ci sembra bizzarro tuttavia che nel partito di Duda siano presenti ex funzionari di quella elite post comunista tanto ostracizzata dal PiS.
Oggi, le somiglianze con il governo del primo ministro di estrema destra Orban nella vicina Ungheria sono impressionanti. Orban ha limitato la libertà dei media, prevaricato le organizzazioni non governative, emendato la costituzione a suo favore, tutto in nome di liberare l’Ungheria da elementi del suo passato comunista e dalla presunta corruzione degli anni post – comunisti.
Ben prima della crisi, gli oppositori del PiS hanno argomentato che il partito voleva veramente construire una Budapest sulla Vistola.

L’Unione Europea come Ponzio Pilato

Il PiS ha vinto la sua maggioranza grazie ai voti dei centristi, ma i sondaggi oggi indicano che molti di loro già si stanno allontanando dal partito in favore di un nuovo partito liberale chiamato “modern”, guidato da un economista: Ryszard Petru.

L’Unione Europea se ne lava le mani: il PiS può continuare ad utilizzare le critiche dei commissari non eletti a Bruxelles come maggiori prove in supporto della narrativa di una debole elite europea che minaccia gli interessi polacchi.

Il dipartimento di stato americano si è preoccupato dei cambiamenti in Polonia, soprattutto della guerra intestina governo/corte costituzionale. La Polonia è un alleato importante, strategico, per gli Stati Uniti, vista la sua collocazione geografica nell’est europeo e soprattutto perché la Polonia ha le più efficienti forze armate della regione.

Gennaio 7 2016

Libia: lo scandalo ONU che nessuno racconta

Libia

Libia martoriata da un guerra civile, dallo scellerato intervento del 2011, viene mortificata ancora dallo scandalo del rappresentante ONU. Non ricercate le colpe nei libici, ma nei carrozzoni burocratici occidentali.

Certo l’ISIS che diffonde le foto dei suoi raid sulle infrastrutture petrolifere libiche non è il massimo, aver ottenuto dei successi a Sirte e aver preso il controllo di due città nell’area: Bin Jawad e Nawfaliyah, preoccupa. Preoccupa perchè il vuoto politico non si colma ed anzi si colora di ombre gettate proprio dalle Nazioni Unite. Passato del tutto inosservato dal mondo intero, perchè fa comodo pensare che la colpa sia dei terroristi.

La Libia mortificata dal funzionario corrotto delle Nazioni Unite

Il rappresentante speciale per le Nazioni Unite in Libia, Bernardino Leon, ha negoziato un lavoro per 35000 sterline al mese con gli Emirati Arabi Uniti (UAE),che supportano una delle parti in lotta nella guerra civile in Libia, come direttore generale della sua “accademia diplomatica”. Fatto poi annunciato ufficialmente da UAE.

Leon se la cava dicendo che non è affatto un conflitto di interessi perché voleva lasciare il suo ruolo il 1 settembre 2015. Le email diffuse dal The Guardian mostrano che l’incarico fu offerto a Leon a giugno 2015 e che ad agosto 2015 proprio Leon aveva già intenzione di andare con la sua famiglia ad Abu Dhabi. L’ONU lo rimuove e manda Kobler, un tedesco ed il fatto viene chiuso, archiviato, mai accaduto.

Le mail che fanno più orrore di un bombardamento

Erano passati 5 mesi da quando era stato nominato mediatore in Libia e la prima mail che Leon invia risale al 31 dicembre 2014 indirizzata al ministro degli esteri UAE, Sceicco Abdullah bin Zayed, dalla sua casella di posta privata.

Leon dice che, “siccome ci sono progressi molto lenti nei colloqui di pace, l’Europa e gli Stati Uniti chiedono un piano B, una classica conferenza di pace“. Secondo Leon è una pessima opzione perché tratterebbe le due parti come attori uguali. Continua dicendo che il suo piano è quello di rompere un’alleanza pericolosa tra i mercanti benestanti di Misurata e gli islamisti che tengono a galla  il GNC (la formazione politica con sede a Tripoli). Dice che vuole rinforzare l’HOR (l’altra formazione politica con sede a Tobruk), l’apparato supportato dall’UAE e dall’Egitto. Dichiara che non sta lavorando ad un piano che includa tutti, che ha una strategia che delegittima completamente il GNC. Ammette che tutti i suoi movimenti e le sue proposte sono state prese in consultazione e, in molti casi direttamente con l’HOR e l’ambasciatore UAE in Libia Aref Nayed e l’ex primo ministro libico che sta in UAE, Mahmud Jibril.

Prima di firmare e spedire l’email, Leon afferma che lui può aiutare e controllare il processo mentre è li. Che tuttavia non ha pianificato di starci molto. Che ha avvertito gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e l’Unione Europa di lavorare con l’UAE.

Leon insiste che le mail sono state manipolate che stava considerando di dimettersi dal suo ruolo in Libia già a gennaio 2015. L’ambasciatore libico alle Nazioni Unite accusa i servizi d’intelligence britannici di aver dato le mail al giornale britannico. Al-Dabbashi aggiunge che questo dimostra il desiderio degli americani e degli inglesi di far scivolare il paese nel caos fino a quando i loro cittadini che hanno origini libiche abbiano l’opportunità di governare la Libia oppure di dividerla in mini stati.

La Libia e i libici ne pagano le conseguenze

La risoluzione 2259 del Consiglio di Sicurezza sulla Libia viene adottata il 23 dicembre 2015 e tutti applaudono alla formazione di un nuovo governo di unità nazionale, pace e stabilità, evviva! La realtà non è affatto così. L’azione scellerata di Leon ha gettato una grande ombra di legittimità sulle Nazioni Unite. Si crede in Libia che ci sia un gruppo politico a Tripoli, uno a Tobruk ed un terzo a New York. La sensazione per alcuni, la certezza per altri, che il governo sia stato paracadutato dall’occidente non aiuta per nulla. Il fatto che si sia approvato un piano scritto da un funzionario corrotto non fa altro che inasprire la situazione.

I bombardamenti diretti allo stato islamico in Libia forse aiuteranno gli interessi occidentali ma non aiutano affatto la Libia.

Un esempio su tutti. Il movimento politico Tabu ha reiterato che il non riconoscimento della tribù Tabu da parte dell’assemblea costituente viola l’art. 30 della dichiarazione costituzionale ad interim. L’art. 30 obbliga l’assemblea a considerare i punti di vista degli Amazigh, Tabu e Tuareg circa le leggi da adottare nella bozza della costituzione. Il 5 gennaio 2016 l’HOR non si riunisce ufficialmente a causa della mancanza di quorum. I membri dovevano incontrarsi per votare l’accordo politico firmato a Skhirat e il suo Faiez Serraj Government of National Accord  (GNA).

Certo è colpa dei libici che non si mettono d’accordo, in fondo è loro il paese perché non si danno una mossa a mettersi d’accordo? Ed è la fulminante dichiarazione del capo della politica estera europea: Mogherini, che richiama all’unità. Certo è ovvio: la colpa è dei libici. Come se la transizione politica di un paese si potesse fare dall’oggi al domani.

Punti deboli dell’Accordo Politico

Secondo l’accordo il 26 gennaio tutte le posizioni come il governatore della banca centrale libica e il comandante in capo dell’esercito nazionale libico andranno per default al GNA. Sempre in questa data la comunità internazionale dovrà e potrà indirizzarsi unicamente al GNA escludendo ogni contatto con i due governi precedenti.

Come già anticipato in un precedente post l’accordo politico ha molti punti critici che non fanno presagire un buon risultato. La procedura di selezione del primo ministro del governo di unità e dei suoi due deputati è il punto più critico per l’implementazione dell’accordo. Insieme queste tre posizioni formeranno il Consiglio Presidenziale, ognuno con un uguale potere di vero su decisioni governative chiave, soprattutto per il settore sicurezza. A loro verrà anche dato il compito di proporre una linea di governo. Altro limite: l’accordo di Skhirat non prevede una procedura concordata su come queste figure chiavi verranno scelte.

Il piano delle Nazioni Unite assume che ci siano solo due parti che combattono l’un altro, ma ci sono una moltitudine di differenti milizie di cui peraltro non è chiara quale sia la reazione dopo il 26 gennaio 2016.

Resta assente di un binario parallelo che si occupi soltanto di questioni legate alla sicurezza che avrebbe potuto creare un punto comune e quindi un ponte tra i gruppi armati rivali.

Nell’accordo non si menziona affatto il sistema giudiziario. L’ultima riforma della Corte Suprema risale al 1969. Numerosi sono stati i richiami di alcune organizzazioni internazionali al rispetto dei diritti umani nelle prigioni libiche. Il sistema carcerario nessuna menzione. La tortura: nessuna menzione.

Sì, continuiamo a dare la colpa ai libici perché in questa situazione l’occidente ha fatto molto bene: nel 2011 li ha bombardati, ha rimosso il leader (l’ha ucciso così per stare più tranquilli) e poi nel 2015 ha dato in mano le sorti del paese ad un funzionario delle Nazioni Unite corrotto. Ottimo lavoro! Sicuramente la colpa è dei folletti o negli unicorni!

Gennaio 6 2016

Nord Corea inizia l’anno con i botti… nucleari!

Nord Corea

Nord Corea inizia l’anno con il quarto test nucleare. L’unico stato al mondo convinto che la sua esistenza come stato autonomo derivi dal possesso di armi nucleari.

Un regalo di compleanno posticipato è quello che si è fatto Kim Jong – un: solo due giorni dopo il suo compleanno fa fare un altro test nucleare, per dimostrare che il Nord Corea non sta costruendo un paio di bombette nei sotterranei, ma vuole avere  le più moderne, sofisticate e letali bombe nucleari che il suo programma possa raggiungere. Questo è il quarto test nucleare del Nord Corea dal 2006 ed è il terzo durante l’amministrazione Obama. Le sanzioni internazionali dopo i tre test nucleari non stanno affatto ritardando lo sviluppo del programma.  Il leader nord coreano lo scorso dicembre ha dichiarato che il suo paese deve diventare: “un potente stato di armi nucleari pronto a detonare la bomba ad idrogeno”. Potrebbe essere una dichiarazione fasulla e non ci sorprenderebbe perché siamo abituati al tintinnio di sciabole del regime. E’ possibile che il Nord Corea abbia un’arma “più potente”, una che usi una piccola quantità di fusione per sostenere il processo di fissione.

Prima di ragionare in qualsiasi modo a proposito della leadership nord coreana e delle sue mosse, chiariamoci alcuni punti fondamentali quando si parla di bomba ad idrogeno.

Cosa è una bomba ad idrogeno?

Usa la fissione nucleare per dividere atomi e produrre energia. Dopo la detonazione, questa energia viene rilasciata risultando in una grande esplosione. Hiroshima e Nagasaki ve le ricordate? Ecco lì fu utilizzata la bomba ad idrogeno.

Tuttavia le bombe ad idrogeno, possono avere una varietà di configurazioni. Conosciuta anche come bomba termonucleare, generalmente comprendono un sistema di strati dove un’esplosione ne provoca un’altra – come la fissione nucleare o la fusione nucleare. In un tipo di bomba ad idrogeno, la reazione di fissione emette raggi X che provocano la fusione di due isotopi d’idrogeno, trizio e deuterio. Questo a sua volta provoca un enorme rilascio di energia. Queste sono considerevolmente più potenti delle bombe atomiche.

Come si fa a sapere che si è detonata una bomba?

Grazie alle letture sismologiche da una varietà di sismometri nel mondo. Questi sono capaci di rilevare forme d’onda da grandi eventi sismici. In questo caso, la forma d’onda inizia all’improvviso e poi sbiadisce, coerente con un’esplosione, e non con un evento naturale come un terremoto.

Era una bomba ad idrogeno?

Le letture sismologiche, tra i 4.9 e i 5.1, sono consistenti con i loro test precedenti, che erano di bombe al plutonio. Il Nord Corea, tuttavia, dichiara che era una bomba ad idrogeno “rimpicciolita”. Gli esperti sono scettici. Potrebbe essere che Il Nord Corea menta, come dicevamo all’inizio, oppure che sono diventati più efficienti con la fissione. Potrebbe anche essere che la parte di idrogeno del test non ha funzionato molto bene ovvero la parte di fissione non ha funzionato benissimo.

Il Nord Corea è nella politica internazionale una categoria a sé stante

E’ l’unico stato che si è formalmente ritirato dal Trattato di Non Proliferazione nucleare. Le armi nucleari sono parte delle disposizioni della sua costituzione mostrando alcun interesse nel perseguire la denuclearizzazione in termini che per ogni altro paese sarebbero accettabili. E’ l’unico paese a testare armi nucleari nel 21° secolo. Gli sforzi nucleari nord coreani persistono come uno schiaffo in faccia alle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e alle sanzioni. La leadership si vanta dell’ampliamento del programma costantemente ed in questi termini “100 per cento basato sul nostro sapere, sulla nostra tecnologia e sul nostro potere, abbiamo alzato orgogliosamente il grado di stato nucleare”.

La leadership nord coreana ha perciò convinto essa stessa che la sua esistenza come stato autonomo deriva direttamente dal suo possesso di armi nucleari. Esplicitamente contrasta la sua continua sopravvivenza con il destino di Saddam Hussein in Iraq e Gheddafi in Libia, asserendo che le armi nucleari sono essenziali per assicurare la sopravvivenza del regime. Non sorprende che il Nord Corea caratterizzi presunti disegni maligni di potenze esterne per giustificare i costi prodigiosi di un tale programma e le gravi implicazioni per il benessere dei suoi cittadini.

Cosa può essere fatto? La comunità internazionale, incluso la Cina e la Russia, hanno da tempo attenuato il gioco internazionale di “la colpa è tua”, ripartendosi la responsabilità per la persistenza e l’espansione degli sforzi del Nord Corea. Per il future indefinito, l’obiettivo dovrebbe essere di sostenere una coalizione il più possibile ampia, iniziando con un riconoscimento condiviso che lo sviluppo e la diversificazione dei programmi del Nord Corea è una minaccia comune, non diretta ad un solo paese. Ma interessi collettivi devono essere tradotti in azioni di stati singoli e la volontà di coordinare le loro azioni.

Un’ultima considerazione è d’obbligo:

perché la Cina non fronteggia il Nord Corea?

Tutti gli occhi sono puntati sulla Cina per vedere se il test nucleare produrrà un cambiamento nel supporto di Beijing al regime. Mentre potrebbe causare qualche limitazione d’assistenza nel breve periodo, è improbabile che causerà l’abbandono del Nord Corea da parte della Cina. La ragione risiede nella preoccupazione dei leader più anziani cinesi che se la Cina diventasse troppo intransigente con il Nord Corea esacerberebbe le relazioni bilaterali: Pyongyang si allontanerebbe e Beijing perderebbe quella piccola influenza che ha e le provocazioni inizierebbero ad aumentare. Sebbene la Cina non sia contenta della situazione odierna, mantenere il fragile status quo è preferibile all’incertezza del cambiamento. Anche se Beijing non è stata entusiasta della successione dinastica del dicembre del 2011, l’ha accettata credendo che potesse offrire una sorta di continuità e quindi conduttiva di una stabilità.

Negli ultimi 10 anni la diplomazia cinese nei confronti del Nord Corea si è mossa in due direzioni: non ha pubblicamente condannato il Nord Corea, ha stabilito un forum multilaterale con sei partecipanti: Nord Corea, Sud Corea, Cina, Russia e Giappone e Stati Uniti, per gestire la questione del nucleare nord coreano.

Le imprese cinesi investono un totale di 98.3 milioni di dollari nel Nord Corea. E’ il secondo investitore più grande in Nord Corea.

La politica cinese in Nord Corea sembra soffrire di inerzia e paura di poter rompere il fragile status quo, sostenendo i nord coreani con ogni strumento a disposizione. I leader cinesi preferiscono gestire il “problema nord corea” diplomaticamente ed economicamente, ma non significa che Beijing esiterà ad agire militarmente se gli interessi vitali di sicurezza della Cina fossero messi in pericolo da azioni scellerate dei nord coreani.

Gennaio 5 2016

Perché l’Arabia Saudita accresce il conflitto settario?

Arabia Saudita

L’Arabia Saudita sta agendo secondo un manuale di gioco standard nel caso di sfide domestiche e regionali. Attivare il conflitto settario anti – sciita è una mossa familiare che rientra nei suoi sforzi di contenere e isolare l’Iran.

L’Arabia Saudita ingenera una disputa e la fa diventare una questione globale per focalizzare l’attenzione su un nemico familiare nel Medio Oriente: il conflitto settario.

Il conflitto settario è sempre stato una carta utile per regimi violenti ma deboli, per dividere i potenziali oppositori e generare entusiasmo tra i sostenitori.

Ci sembra utile chiarire fin da subito che immischiare l’intensificazione del conflitto settario saudita nelle prominenti politiche della regione è voler ingigantire la faccenda. La sfida dell’Iran e la mobilitazione di passioni settarie sono parte di un libro di gioco standard per Riad, in particolare quando si trova ad affrontare sfide domestiche e regionali.

L’Arabia Saudita può contare sulla (momentanea) stretta relazione con gli Emirati Arabi Uniti (UAE) e la temporanea debolezza delle potenze tradizionali come l’Egitto, la Siria e l’Iraq. I rivali principali dell’Arabia: il Qatar e la Turchia, hanno avuto molti intoppi e rimproveri da parte delle grandi potenze soprattutto per la presunta (mica tanto) copertura di gruppi estremisti come l’ISIS.

Chiaramente l’Arabia Saudita si sente debole: le guerre in Siria e Yemen, la crescita dello stato islamico e l’accordo sul nucleare dell’Iran l’hanno lasciata profondamente vulnerabile. Questa combinazione di forza e vulnerabilità ha dato vita ad una politica estera irregolare, incostante, specialmente con una leadership più aggressiva vogliosa di lasciare il proprio segno.

I fallimenti della politica estera saudita

Punto 1. Ha fallito nel bloccare l’accordo sul nucleare con l’Iran, conosciuto formalmente come il Joint Comprehensive Plan of Action.

Punto 2. La sua politica di appoggiare gli insorti in Siria non ha rimosso Assad, malgrado massicce sofferenze umane, mentre gli insorti si sono radicalizzati ed è emerso l’ISIS.

Punto 3. L’intervento in Yemen è oggi riconosciuto da tutti come un fallimento strategico che ha non ha raggiunto i propri obiettivi. La politica si è polverizzata sotto il peso di enormi perdite di vite umane.

Punto 4. La leadership sunnita. Malgrado l’unità superficiale alla conferenza di Riad per l’opposizione siriana e il supporto congiunto per nuove formazioni di ribelli, il Qatar e la Turchia continuano a competere con l’Arabia Saudita per l’influenza su questi gruppi di insorti. Al di là del Bahrain sembra improbabile che il resto del GCC seguirà la sua guida per inasprire i legami con l’Iran. Anche l’UAE ha solo accordato di diminuire le relazioni con Teheran.

Punto 5. La dominazione dei ribelli siriani da parte di fazioni settarie jihadiste ha creato gruppi potenti con le loro agende: una sfida alla politica della monarchia saudita. La nemesi di lungo tempo con al Qaeda nella penisola araba ha vinto significativamente dal caos in Yemen. La spinta per reprimere e criminalizzare i fratelli musulmani rimane estremamente impopolare.

Cambiamenti strutturali della regione hanno scatenato passioni settarie più difficili da controllare rispetto al passato.

La struttura settaria delle odierne guerre nella regione, in particolare la Siria, è stata permeata a fondo dalla politica dell’identità e dai  discorsi pubblici sul fallimento delle rivoluzioni arabe. Le rivoluzioni arabe del 2011 hanno rivelato una profonda debolezza dietro la violenta facciata degli stati della regione. I regimi autocratici possono aver rovesciato o cooptato le richieste popolari per il cambiamento, ma manca una governace efficace o la legittimità basata su un ampio consenso, quindi l’entità statuale rimane debole ed instabile. Il conflitto settario è rimasto sempre una carta utile per questi regimi violenti ma deboli per dividere i potenziali oppositori e generare entusiasmo tra i sostenitori. Poi ci sono gli stati che sono collassati dando vita a guerre civili: Siria, Yemen, Libia. Il fallimento dello stato, in quanto appunto entità, soggetto internazionale, unitamente al perdurare di guerre civili hanno creato le condizioni ideali affinché il conflitto settario avesse una presa salda su comunità spaventate, arrabbiate e polarizzate. La guerra in Siria è stata il grande incubatore del conflitto settario.

L’accordo nucleare con l’Iran.

L’acutizzarsi delle paure saudite è prima di tutto da ricercarsi nel potenziale successo dell’accordo nucleare con l’Iran. L’Arabia Saudita vede la reintegrazione dell’Iran nell’ordine internazionale e l’evoluzione della relazione con Washington come una profonda minaccia alla sua stessa posizione regionale.

Mobilitare il settarismo anti – sciita è una mossa familiare proprio nello sforzo dell’Arabia Saudita di contenere e isolare l’Iran. I sauditi si sono sempre opposti a ogni maggiore iniziativa politica americana nel Medio Oriente negli ultimi 5 anni. L’incremento del conflitto settario è molto probabilmente visto anche nell’ottica di voler minare gli obiettivi strategici primari americani nella regione come l’accordo con l’Iran appunto, e la fine negoziata alla guerra in Siria, infiammando tensioni in modi che rendono i progressi diplomatici impossibili.

L’Iran testa missili balistici in grado di portare testate nucleari

Mentre  l’Arabia Saudita si preoccupa che l’Iran venga “reintegrata” nell’ordine internazionale, l’Iran conduce due test di missili balistici uno il 10 ottobre 2015 (tre giorni prima che il parlamento iraniano approvasse l’accordo sul nucleare) e un altro il 21 novembre 2015. L’amministrazione Obama era sul punto di annunciare nuove sanzioni su individui e imprese accusate di aver aiutato l’Iran a sviluppare il suo programma missilistico balistico (approssimativamente una dozzina di imprese e individui in Iran, Hong Kong e Emirati Arabi Uniti). All’ultimo minuto, tuttavia, l’amministrazione notifica al Congresso che rimanderà l’imposizione di queste sanzioni, senza spiegazioni.

Tuttavia le sanzioni poi “congelate” da Washington erano relative alla violazione della risoluzione UNSC 1929 e non dell’accordo sul nucleare. La risoluzione approvata nel 2010, prevede al paragrafo 9 che l’Iran non debba compiere nessuna attività relativa ai missili balistici* e gli Stati devono prendere tutte le misure necessarie per prevenire il trasferimento di tecnologia o assistenza tecnologica all’Iran relativa a queste attività.

A metà dicembre 2015 un comitato di esperti delle Nazioni Unite (NU) conclude che il lancio di ottobre viola la risoluzione 1929. Ironicamente, il rapporto fu diffuso lo stesso giorno in cui l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, decide di terminare la sua indagine sulle attività nucleari dell’Iran, avendo concluso che non c’era nessuna evidenza che l’Iran avesse condotto ricerche su armi nucleari dal 2009. Sebbene il rapport NU non è pubblico il  Wall Street Journal riporta alcuni dettagli: il missile balistico era una versione migliorata di precedenti missili, con una portata di 1,300 km con un carico fino a 1,400 km ed una migliore capacità di manovra nel momento di discesa sull’obiettivo. L’Iran è presumibilmente interessata allo sviluppo della sua capacità di missili balistici come meccanismo per lanciare testate nucleari, questo spiega perché il test di questi tipi di missili violerebbe la risoluzione 1929.  Rouhani ha dichiarato che non solo lo continuerà, ma lo espanderà. Il test di novembre, reso pubblico il 7 dicembre, riguarda Ghadr – 110, missile è anche capace di portare una testata nucleare.

Navi iraniane dagli angoli dello stretto di Hormuz, porta per il Golfo Persico, hanno lanciato un missile vicino alla portaerei americana Truman, una mossa che gli americani hanno definito parecchio provocatoria. Questi due avvenimenti messi a sistema ci dicono che le relazioni Iran – Stati Uniti non appaiono migliorate di molto e anzi la loro strada è lastricata di trappole.

*Un missile balistico – ‘espressione inglese corrispondente è Ballistic Missile – è un missile che ha una traiettoria di volo balistica, di tipo suborbitale. Il suo scopo è il trasporto di una o più testate (anche nucleari) su un predeterminato obiettivo.

Gennaio 4 2016

Bambini reclutati e armati dall’ISIS

bambini

Bambini usati come scudi umani, suicide bombers, cecchini, donatori di sangue, carcerieri, boia. Il mondo tace, dei bambini non importa granché.

L’ISIS attivamente recluta i minori per mandarli nei campi d’addestramento e quindi poterli utilizzare come combattenti, incluso nelle missioni suicide. L’ISIS usa regolarmente i bambini come scudi umani, suicide bombers, cecchini, donatori di sangue, carcerieri, boia, spie. Il rappresentante speciale dell’ONU per i bambini e i conflitti armati riporta che l’ISIS ha ordinato ai ragazzini di 13 anni di portare le armi, fare la guardia a posti strategici addirittura di addestrare i civili. Centinaia di bambini maschi “non civili” sono morti nei combattimenti. L’ISIS controlla strettamente l’educazione dei minori nei suoi territori. Secondo la testimonianza di un insegnante a Raqqa, l’ISIS considera la filosofia, le scienza, la storia, l’arte e gli sport incompatibili con l’Islam. L’ISIS paga i genitori e corrompe i minori per portarli nei campi di addestramento. Le bambine ed i bambini al di sotto dei 15 anni vengono portati  al “campo Shariah” per imparare in cosa consiste il loro credo e la religione. Quelli sopra i 16 anni che hanno già ricevuto l’indottrinamento nei campi possono partecipare alle operazioni militari. La propaganda dell’ISIS mostra nei video anche bambini più piccoli addestrati per utilizzare armi. Ve ne propongo uno: quello realizzato da Channel 4 News. Nel video, in inglese, testimonianze di minori, di un reclutatore. Le immagini scioccanti di un bambino che si è visto amputare una mano ed un piede per essersi rifiutato di entrare nei ranghi dell’ISIS. Il bambino mostra sul suo telefono le foto del suo boia che chiamano “caterpillar”.

Addestrare i bambini: la nuova forma di uomo dell’ISIS

Addestrare i minori nei piani del leader Abu Bakr al – Baghdadi vuol dire assicurarsi una nuova generazione di combattenti. La così detta “decapitazione della leadership”, strategia molto in voga negli Stati Uniti come soluzione principe per la sconfitta di un’organizzazione terroristica transnazionale, sarà insignificante, del tutto inefficace, di fronte ad un’organizzazione che prepara i bambini a mettersi nelle scarpe dei propri padri. Per imparare a decapitare un altro essere umano, gli vengono date delle bambole su cui fare pratica, anche degli orsacchiotti di peluche.

Così come altre organizzazioni totalitarie, l’ISIS ha come obiettivo quello di creare una nuova forma di uomo. I bambini sono più facilmente plasmabili nella nuova visione del mondo dell’ISIS. Come ci spiega uno psichiatra, Otto Kernberg, “gli individui nati in un sistema totalitario ed educati da esso fin dall’infanzia,  hanno poche possibilità di fuga dalla totale identificazione con quel sistema”. I sistemi educativi totalitari permettono un sistematico indottrinamento di bambini e giovani nell’ideologia dominante.

I quartieri poveri di Ankara sono una fonte di reclutamento di minori: Hacibayram è diventato un punto di reclutamento ISIS. Human Right Watch  ha scoperto che i bambini soldato vengono pagati l’equivalente di 100 dollari al mese.  I bambini di minoranze come i curdi e gli yazidi sono stati rapiti e forzati ad unirsi all’ISIS; secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, in un caso, più di 600 studenti curdi sono stati rapiti mentre tornavano a casa da scuola e condotti nei campi di addestramento.

Il generale McMaster, vice comandante generale del Future of US Army Training and Doctrine Command, il cui lavoro è valutare le minacce future per l’esercito americano, ha dichiarato che l’ISIS abusa dei minori in scala industriale, brutalizzandoli e de umanizzandoli sistematicamente.

L’utilizzo dei bambini soldato non fa notizia

Non se ne parla mai dei bambini vittime di una guerra che non hanno scelto, vittime dei giochi di potere dei “grandi”. E’ senz’altro più comodo pensare che solo gli adulti possano combattere. Il tema dei bambini nei conflitti armati mi è sempre stato a cuore, la mia tesi di laurea è stata: “la protezione dell’infanzia nel diritto internazionale”. La mia prima missione come funzionario del Ministero italiano degli Affari Esteri l’ho fatta in Sierra Leone. La prima persona che ho conosciuto a Freetown nel parcheggio del Ministero dell’Energia è stato un bambino sulle stampelle, ridotto così perché si rifiutava di combattere. Ho visto il sorriso spento di quei bambini salvati da padre Berton, l’infanzia rubata che non tornerà mai più. E’ più triste e misera l’indifferenza del mondo su bambini utilizzati per combattere, addirittura per formare una nuova generazione di estremisti folli che gli occhi malinconici di quei bambini.

Utilizzare i bambini, minori di 18 anni come soldati è un crimine di guerra.