Dicembre 18 2018

Il populismo identitario: una strategia pericolosa

populismo identitario

Il populismo è, semplicemente, una strategia politica in cui un leader costruisce una base di potere su segmenti della società marginalizzati o senza potere. Per far funzionare ciò, i leader populisti realizzano delle politiche e delle riforme che favoriscono i marginalizzati a spese delle élite – o almeno a parte di quelle che li oppongono.

Il populismo è intenzionalmente distruttivo, anche rivoluzionario, dal momento che sfida lo status quo e erode l’esistente distribuzione di potere e ricchezza.

Il populismo si presenta in diverse varianti.

Il populismo economico sollecita il povero o la classe operaia ad opporsi alle élite economiche alla ricerca di una più equa distribuzione della ricchezza e concentra il potere politico nelle mani di un leader populista. Nella sua moderna incarnazione è emerso nel diciannovesimo secolo in America ed è tramontato e fluito sin d’allora, in particolar modo in America Latina dove oggi il populismo economico si pone in cima ad un governo sempre più autoritario, come il caso del Venezuela, in crisi in questi ultimi anni.

Un’altra variante del populismo è basato sull’inclusività, che cerca di spingere i gruppi politicamente marginalizzati verso tendenze dominanti, come il caso del movimento dei diritti civili in America negli anni 1960 e del movimento anti-apartheid nel Sud Africa degli anni 1980.

Il populismo che oggi sta fiorendo in Europa e nel Nord America è differente da quello alimentato dal nazionalismo definito dall’etnia, dalla razza e dalla religione.

Il populismo che sta fiorendo oggi in Europa può essere definito come populismo identitario. Esso trae la sua forza dalla pubblica opposizione all’immigrazione di massa, dalla liberalizzazione culturale e dalla capitolazione – percepita – della sovranità nazionale sia da parte di apparati distanti e inerti come l’Unione Europa ovvero, dalla minaccia più amorfa della globalizzazione e dalla crescente diversità etnica, razziale e religiosa.

In un eco nefasto del fascismo e del nazismo del ventesimo secolo, il populismo identitario pone l’accento sull’inerente moralità di una classe non di élite etnicamente definita, rivendicando che è essa è sotto attacco da parte di una élite immorale ed impura che cerca di distruggere i valori nazionali attraverso il multiculturalismo e il decadimento etico. Questa idea di un conflitto epocale tra quello che i nazisti chiamano “volgo” – il popolo – e le élite decadenti e globalizzanti è riemerso nelle idee estreme  dei movimenti dei bianchi nazionalisti negli Stati Uniti, nel modernizzato Fronte Nazionale in Francia e nell’ultra destra Alternativa per la Germania.

Il populismo identitario, se continua ad estendere la sua portata politica, potrebbe incrementare le opportunità di conflitto armato sia tra Paesi che all’interno delle frontiere nazionali.

 

Le motivazioni perché ciò accada sono molteplici. Innanzitutto, il populismo identitario è basato sull’amplificazione delle differenze tra “noi” e “loro”, enfatizzando le differenze etniche, razziali, culturali e religiose e permeandole di una dimensione etica – “noi siamo morali ovvero puri, e “loro” sono criminali, malati e semplicemente demonio“.
Il populismo identitario di oggi è una manifestazione alimentata da internet di malignità che sembravano svanite nella Seconda Guerra Mondiale.

Se vedere il mondo diviso in questa maniera non garantisce il conflitto, aumenta le occasioni di violenza. È sempre più facile utilizzare la forza contro un oppositore visto come meno morale o meno umano e dipinto come un nemico saldo in una cultura nazionale definita razzialmente ed etnicamente.

Anche all’interno delle nazioni, una visione binaria tra i segmenti della società ritenuti “morali” e “immorali” potrebbe scatenare un conflitto.

Una seconda ragione per cui il populismo identitario aumenta le occasioni di conflitto armato è la sua delegittimazione delle istituzioni internazionali progettate allo scopo di prevenire o limitare le guerre tra le nazioni, in favore di un iper-nazionalismo e di un senso stridente di sovranità.

La terza ragione per cui il populismo potrebbe aumentare le occasioni di conflitto è che i leader populisti spesso si aggrappano ferocemente al potere. Essi sovente creano un sistema politico con orpelli di democrazia – magari elezioni manipolate o legislature flessibili – che è nei fatti è autoritarismo. Il risultato è sia falso populismo che falsa democrazia.

Il Venezuela, la Russia e la Turchia oggi si trovano lungo questa strada e alcune nazioni europee come l’Ungheria e la Polonia, potrebbero seguirle presto.

La storia ci suggerisce che i leader autoritari spesso distraggono l’attenzione dai loro fallimenti demonizzando gli oppositori a livello interno ed estero, rivaleggiando come i soli in grado di prevenire i nemici della nazione.

Di nuovo: questo non assicura che ci sia violenza armata, ma certamente ne aumenta le probabilità, particolarmente quando la presa al potere di un leader populista si indebolisce.

Sicuramente non tutto il populismo è “cattivo”: il populismo inclusivo ha storicamente condotto a società più eque dagli Stati Uniti al Sud Africa. Tuttavia, oggi, il populismo identitario è un fenomeno differente: un manifestazione di malignità alimentata da internet che, giorno dopo giorno,  rende il mondo un posto più pericoloso.

Novembre 20 2018

La fragile democrazia nell’Europa centrale e dell’est

Europa centrale

La democrazia è fragile nei Paesi post-comunisti dell’Europa centrale e dell’est, dove lo spettro dell’autoritarismo e della corruzione sta crescendo. Anche secondo le migliori delle condizioni, la “costruzione della democrazia” è difficile ed incerta.

L’esperienza storica mostra che il fallimento è molto più comune del successo, anche in periodi in cui la democrazia liberale ha pochi rivali.
Le trasformazioni dei Paesi dell’Europa centrale e dell’est successive al 1989,  dal comunismo alla democrazia, sono spesso presentate come un modello di democratizzazione di successo. Malgrado l’iniziale pessimismo circa la prospettiva di stabilire una democrazia liberale, diversi Paesi dell’Europa centrale e dell’est hanno sviluppato consolidati sistemi democratici, delle economie di mercato funzionanti, degli Stati democratici efficienti con politiche di benessere estese e con un grado di ineguaglianza relativamente basso.

Inoltre, le conquiste politiche ed economiche si sono poste in aspro contrasto con i fallimenti di altri Paesi post-comunisti. Malgrado le iniziali speranze e le reali vittorie politiche, una maggioranza di questi Paesi o sono ritornati all’autoritarismo o hanno perseverato in uno Stato semi-riformato e non consolidato.

Quali sono le cause di queste strade così divergenti?

Perché alcuni Paesi dell’Europa centrale e dell’est hanno avuto successo mentre altri incarnano i fallimenti delle politiche e delle economie dell’Europa dell’est?

I Paesi dell’Europa centrale e dell’est sono, ora, una cornice centrale nella battaglia globale tra la democrazia liberale e l’autocrazia.

Pochi Paesi hanno visto la democrazia perdere terreno costantemente come nel caso dell’Ungheria. È qui, con l’arrivo al potere del Primo Ministro Viktor Orban e del suo partito Fidesz, che le speranze per un’espansione inarrestabile della democrazie nei Paesi post-comunisti si è infranta in maniera decisiva. Orban ha costruito il sostegno per le sue politiche nazionaliste ponendo in risalto le questioni dell’identità e offrendo al suo pubblico una potente arma: “la paura per gli estranei”.
Nulla ha fortificato le credenziali nazionaliste del Primo Ministro ungherese più delle sue virulente filippiche anti-migranti e le politiche in risposta all’ondata di rifugiati (per la maggior parte musulmani) arrivati in Europa come conseguenza della guerra in Siria, che Orban chiama “invasori musulmani”.
Un’altra importante componente dell’erosione ininterrotta della democrazia liberale in Ungheria è stata la campagna (velata) di Orban di cooptazione dei media indipendenti. Un esempio esplicativo di come è stato possibile ciò è accaduto in un sabato mattina dell’ottobre del 2016, quando il sito web Nepszabadsag, il massimo quotidiano politico ungherese e una delle sue pubblicazioni di lunga data, sono state messe offline. Nel tardo pomeriggio di quello stesso giorno, il sito web è tornato online con un messaggio che annunciava la sospensione della pubblicazione. Due settimane dopo Nepszabadsag è stato venduto e il giornale è stato chiuso poco dopo. La chiusura di Nepszabadag è il momento di svolta per il panorama dei mezzi di comunicazione ungheresi.
Accanto all’Ungheria, vi è la Polonia, che è stata, recentemente, accusata di utilizzare le riforme giudiziarie e i regolamenti statali in materia di comunicazione per infrangere i principi della democrazia liberale.

L’Unione Europea ha iniziato a percorrere dei passi verso il contrasto alle ricadute anti-democratiche negli Stati membri dell’Europa centrale e dell’est. Nelmaggio di quest’anno, le proposte di budget di lungo termine, ampiamente anticipate, per il 2021-2027 includeva piani per un “legame rafforzato tra i finanziamenti dell’Unione Europea e lo Stato di diritto”. Sebbene non sia stato incluso un riferimento a Paesi specifici, la proposta è stata vista come avere esattamente ad obiettivo la Polonia e l’Ungheria, i cui governi populisti e nazionalisti si sono impegnati negli ultimi anni in ripetuti battibecchi con Bruxelles su tutto: dalla libertà di stampa al trasporto del legname. La Polonia e l’Ungheria, tra le altre nazioni nell’Europa centrale e dell’est, hanno beneficiato grandemente dei finanziamenti dell’Unione Europea, che li hanno aiutati a migliorare le infrastrutture e a sostenere gli investimenti.

Le ultime tensioni ci suggeriscono che ogni riavvicinamento conterrà dei limiti.

Ottobre 19 2018

Il peacekeeping è sull’orlo del baratro?

peacekeeping

Il 70° anniversario delle missioni di peacekeeping non ha, comprensibilmente, destato particolare entusiasmo (e neanche tanto risalto).
Nel lontano 1948 il Consiglio di Sicurezza inviò osservatori militari in Medio Oriente come supervisori della fine della prima guerra arabo-israeliana, dando il via a più di 70 missioni delle Nazioni Unite (NU), diventate un vero e proprio tratto distintivo dell’Organizzazione.
Le operazioni NU sembra che stiano entrando in una nuova, difficile, fase. Nelle due passate decadi, le forze di peacekeeping hanno svolto un lavoro solido, sebbene raramente citato, allo scopo di stabilizzare Paesi di piccole e medie dimensioni come la Sierra Leone o Timor Est. Agli inizi di quest’anno, hanno portato a conclusione un’altra, ampia, missione di successo in Liberia. Con la chiusura di queste operazioni, le NU adesso si trovano a concentrare in maniera maggiore i propri sforzi di peacekeeping su 5 grandi e problematiche operazioni in Africa. In ogni caso, gli elmetti blu restano sparsi in contesti dove si trovano di fronte ad una violenza endemica.
Gli esperti delle NU sono avvezzi alle regolari crisi che scuotono l’organizzazione, pur non sovvertendola. Dal Mali alla Siria, le NU rivelano  serie difficoltà non solo a porre fine ai conflitti, ma a mantenere la pace. Tuttavia, malgrado gli attacchi all’Organizzazione, che indicano una frustrazione diplomatica, il Consiglio di Sicurezza persiste nel portare avanti questi processi. Non ci sembra di poter escludere in maniera definitiva che le NU siano, al momento, sull’orlo di una batosta nel Medio Oriente e ciò potrebbe creare una rottura decisiva a New York.
Dieci anni fa, storie di violenza endemica nella Regione del Darfur del Sudan spesso erano, in Occidente, i titoli di stampa, le notizie con cui si aprivano i telegiornali. Sebbene questo conflitto continui in maniera sporadica, oggi esso è del tutto dimenticato. A luglio, il Consiglio di Sicurezza ha deciso di tagliare il numero delle forze di peacekeeping nella missione UNAMID (missione africana delle Nazioni Unite in Darfur), di circa la metà, con l’idea di chiudere completamente la missione nel 2020. La decisione ha creato un mormorio intorno al Consiglio. Nondimeno, la riduzione di UNAMID potenzialmente segna un punto di svolta per le operazioni di peacekeeping.

Dalla Siria al Burma (Myanmar) le forze armate stanno perseguendo campagne militari inarrestabili e, nella loro ricerca di vittoria, puniscono indiscriminatamente i civili. In entrambi i casi la “pace” che ne risulterebbe sarebbe caotica.

Queste crisi minacciano di turbare alcune delle norme basilari che sono maturate attorno alla risoluzione delle guerre civili nel periodo post-Guerra Fredda. Per restare rilevanti, le operazioni di peacekeeping, si dovranno senz’altro adattare ai nuovi scenari di post-conflitto. Se i “peacemakers” vogliono avere una qualsiasi possibilità di porre fine alle guerre odierne, essi devono imparare a ragionare come degli assassini a sangue freddo.
Le tre passate decadi sono state un periodo di raro successo per il peacemaking internazionale. Nel periodo della Guerra Fredda, gli sforzi diplomatici e di mediazione significavano che la maggior parte dei conflitti si concludeva in accordi negoziati piuttosto che in vittorie decisive di una parte o dell’altra.
Sebbene molti di questi accordi siano stati fragili e non sostenibili, essi hanno contribuito ad un declino complessivo delle guerre e delle morti che hanno causato.

Le principali potenze nel sistema internazionale del post-Guerra Fredda, guidate dagli Stati Uniti, hanno deciso di adottare “un trattamento standard” all’insorgere della violenza, caratterizzato dalla convinzione che un accordo mediato e negoziato, l’uso delle forze di peacekeeping e l’aiuto estero fosse la strada giusta per risolvere i conflitti futuri.

Anche i governi e i gruppi di ribelli che erano desiderosi di utilizzare la violenza di massa per raggiungere i loro obiettivi si sentivano obbligati a lavorare con mediatori esterni e permettere alle agenzie umanitarie di assistere i civili che soffrivano.
Anche gli Stati Uniti, pur essendo intervenuti in Iraq e in Afghanistan, alla fine hanno riconosciuto che non possono utilizzare solamente la forza per pacificare entrambi e hanno investito di più nella ricerca di accordi politici.

L’odierna decade ha visto un’importante inversione quando gli sforzi politici per porre fine alle ondate di conflitti nel mondo arabo hanno iniziato a vacillare.

Dall’altra parte, uomini forti come Assad e i suoi sostenitori internazionali hanno generato un aumento degli sforzi militari, utilizzando le campagne internazionali contro l’IS per giustificare il loro approccio senza regole ignorando sistematicamente le condanne esterne alle loro azioni. I sostenitori di Assad adesso, presumibilmente, pur considerando le accuse di oltraggio alle regole internazionali come inevitabili, sono persuasi che non avranno né alcun effetto e né alcun costo sulle loro operazioni.
Per fare un esempio tra i tanti: lo scorso anno l’offensiva in Myanmar lanciata contro i Rohingya conteneva in maniera inequivocabile la convinzione che ci sarebbe stato un criticismo esterno, ma che esso non avrebbe avuto alcun effetto sulla tempistica delle operazioni.

Resta chiaro che i leader politici e militari nelle zone di guerra si curano sempre meno delle condanne per il loro comportamento, considerandole come un piccolo prezzo da pagare per ottenere delle decisive vittorie.

Oggi, le guerre civili durano più a lungo ed è sempre più probabile che si concludano con la vittoria di una parte piuttosto che con un accordo negoziato.
Pur tuttavia gli accordi negoziati non si sono ancora estinti definitivamente. Recenti storie di successo come il processo di pace colombiano mostrano che c’è ancora uno spazio politico per i peacemakers per creare accordi complessi.

In molti casi i mediatori dovrebbero accettare un ruolo meno ambizioso ma ugualmente urgente, vale a dire quello di ridurre i rischi in cui incorrono le comunità e i ribelli nel processo di disarmo o di dislocamento.

Settembre 14 2018

Erdogan e la profezia autoavverante

Erdogan

La Turchia sta vivendo la crisi economica più severa da quando il Partito Giustizia e Sviluppo o AKP, ha preso il potere all’indomani delle elezioni del 2002.
Solo quest’anno il valore della lira turca è sceso del 40 percento e gli scambi esteri del Paese rischiano di far precipitare in una spirale di crisi l’economia turca e con essa, potenzialmente, l’economia globale.
Da una parte vi è una crisi finanziaria tipica del post-Guerra Fredda, in un mercato emergente le cui prospettive sono sempre state volatili, con alti rischi e alti compensi. Dall’altra parte, il collasso della lira è il prodotto di un’insieme di fattori geopolitici che minacciano di riscrivere le strutture delle alleanze post-Guerra Fredda su scala globale, dove la Turchia è al centro di tutto.

La risposta del Presidente turco Erdogan a questo quadro è quella del complotto geopolitico: una cospirazione costruita ad arte dall’esterno allo scopo di mettere in ginocchio il suo governo.

Erdogan ha posizionato la lira e i problemi collegati ad essa al centro di un complesso momento  di transizione che sta attraversando la Turchia, sia sulla scena globale che su quella regionale.

Detto in altre parole: Erdogan crede, chiaramente – o almeno pretende di credere – che tutti gli americani e i loro sostenitori siano coloro che tessono le fila di questa cospirazione. Egli li accusa di voler ingaggiare una “guerra economica” contro la Turchia.
L’amministrazione Trump non ha fatto nulla per contrastare o fugare questa narrativa. Agli inizi del mese, quando la disputa tra Washington e Ankara sulla detenzione da parte della Turchia di un parroco americano, Andrew Brunson, è peggiorata, il Presidente Trump ha deciso di imporre sanzioni, seguite da un aumento (pari quasi al doppio) delle tariffe sull’acciaio turco e sulle esportazioni di alluminio verso gli Stati Uniti.
Non va dimenticato che la lira turca già da molti mesi prima delle sanzioni di Trump si trovava in una spirale discendente.

Quindi il fatto che gli Stati Uniti abbiano apposto un ulteriore pressione su una situazione economica già vulnerabile non equivale a dire che Trump “cospira una crisi”.

In un certo senso la linea di ragionamento di Erdogan è quella che viene definita “profezia auto-avverante”.

Se Erdogan crede che i problemi siano delle cospirazioni straniere contro il suo Paese, si può comportare in maniera tale per cui, genuinamente, rende la vicenda della lira turca una questione geopolitica e non economica – o almeno non attinente alle dinamiche di mercato. Piuttosto come la cosiddetta resistenza economica nazionale alle agende straniere. Questo significa che la crisi stessa presumibilmente avrà delle implicazioni geopolitiche che si spingeranno sempre oltre.

La prima risposta di Ankara alla crisi è stata quella di inclinarsi versi i pochi alleati che le sono rimasti per avere un sollievo immediato. Il Qatar è in realtà l’unica nazione che ha risposto all’ appello di Erdogan, promettendo un pacchetto di investimenti per un totale di 15 miliardi di dollari per fungere da salvagente dell’economia turca nel tentativo di sostenere la lira. Le mosse del Qatar hanno sì aumentato la sua esposizione all’economia turca, ma hanno anche rafforzato l’alleanza nascente tra Ankara e Doha, nella Regione.

Ciò è legato al peggioramento della frattura tra il Qatar e i suoi vicini, guidati dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti, che hanno accusato il Qatar di voltare le spalle al Consiglio di Cooperazione del Golfo e ai suoi tradizionali alleati arabi del Golfo in favore della Fratellanza musulmana e dell’Iran. A marzo, il principe ereditario saudita, Mohammad bin Salman ha accusato la Turchia di appartenere al “triangolo del diavolo” unitamente all’Iran e agli islamici militanti.

La crisi sta anche fornendo un’opportunità d’oro alla Russia per tracciare un cuneo tra Ankara e Washington, indebolendo, in questo processo, la NATO.

La Cina è ancora un altro potenziale giocatore sulla scena che potrebbe avere i “muscoli” finanziari per mettere in salvo la lira turca.

Cosa chiederebbe la Cina in cambio? È possibile che Pechino sia propensa a fornire denaro in cambio di più grandi pacchetti nell’economia turca, dai settori dell’industria e delle infrastrutture, al turismo e alla tecnologia. Sebbene la situazione economica russa sia disperata al momento, la Cina potrebbe, in una visione più di lungo termine, calcolare i suoi interessi fondamentali e lo sguardo economico di lungo termine porterebbe risultati più positivi rispetto ai problemi immediati della lira turca.

L’economia turca è diversificata, aperta al mondo, e la sua forza lavoro è giovane, istruita e dinamica. Se Pechino può convincere Erdogan ad intensificare il suo impegno con la grande iniziativa Belt and Road e incrementare ulteriormente il commercio turco con la Cina, potrebbe esserci un accordo sul tavolo per Erdogan da firmare con Xi Jinping.
Tutto questo dipenderà dalla circostanza per cui la lira turca potrà essere stabilizzata o meno e se Ankara e Washington arriveranno a un qualche accordo sui molti punti di contenzioso che hanno gradualmente eroso le fondamenta della loro alleanza post Seconda Guerra Mondiale. Tuttavia, se si realizzerà, è chiaro che la crisi della moneta turca non è semplicemente qualcosa che concerne i fattori di rischio macroeconomici e gli “aggiustamenti strutturali”, ma contiene implicazioni geopolitiche che possono profondamente riplasmare le strutture di alleanza nell’era Trump e anche oltre.

Luglio 14 2018

Somalia: dove l’influenza dell’Occidente svanisce

Somalia

La Somalia, uno dei Paesi più poveri al mondo, sempre in conflitto, uno Stato fragile che combatte al – Shabaab un gruppo estremista islamico che utilizza la tattica del terrorismo.

Dopo il collasso dello Stato e la guerra civile del 1991, cerca di ricostruire le sue istituzioni, mentre la comunità internazionale guidata dall’Occidente, semplicemente sollecita i leader somali a lavorare insieme per un obiettivo comune.

Le contese e i feudi regionali per strapparsi risorse, influenza e prestigio in Somalia

Somalia

La maggior parte del denaro degli Stati del Golfo è andato all’Etiopia e al Sudan per l’agricoltura e il settore manifatturiero, somme più piccole sono state incanalate verso la Somalia, principalmente all’élite politica. Le recenti lotte politiche interne, nel Paese, su chi appoggiare negli Stati del Golfo hanno diviso la Somalia in campi rivali con la maggior parte dei sei Stati federali allineati con gli Emirati Arabi Uniti (EAU).

Il governo centrale di Mogadiscio ha mantenuto una posizione formalmente neutrale, ma da alcuni ciò è visto come un tacito supporto al Qatar e per estensione alla Turchia.

Tali divisioni interne, alimentate dall’esterno, minacciano il processo somalo di costruzione di uno Stato federale e minano le sue stesse istituzioni peraltro già deboli. Non è chiaro se il Presidente somalo, Mohamed Abdullahi Mohamed sarà in grado di navigare in questa odierna turbolenza.

I legami dei somali con il Golfo ed il resto del mondo arabo risalgono a secoli fa, con ondate di migrazione e commercio attraverso il Golfo di Aden. Tuttavia mentre il denaro del Golfo potrebbe essere un’opportunità economica per la Somalia, esso perpetua una spirale di clientelismo e corruzione.

La vendita illecita di carbone

Oltre ad essere un danno ambientale per la Somalia, è spesso legato al finanziamento dei gruppi estremisti. Il commercio del carbone, benché vietato da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza del 2012 e nominalmente anche dal governo somalo, nell’assenza di alternative economiche sostenibili, è un’attività che continua a prosperare. Il denaro del Golfo alimenta tale commercio.

Il commercio all’ingrosso di carbone vale all’incirca 120 milioni di dollari e al-Shabaab guadagna almeno 10 milioni di dollari all’anno dalla tassazione e dalla produzione del carbone.
Gli Stati del Golfo,in Somalia, in effetti, finanziano entrambe le parti del conflitto.

Gli EAU quasi in maniera perversa spendono decine di milioni di dollari ogni anno per addestrare e pagare l’esercito nazionale somalo per combattere al-Shabaab, mentre operano come principale snodo di commercio per il carbone nel Golfo.

L’Unione Europea ha speso più di 1,5 miliardi di euro nella passata decade per finanziare AMISOM, la missione di peacekeeping dell’Unione Africana in Somalia, il cui mandato prevede il contrasto ad al-Shabaab. I soldati kenioti impegnati nella missione, presumibilmente, traggono dei benefici proprio dal commercio del carbone.

Similmente all’oppio in Afghanistan che ha creato un narco-Stato ed ha contribuito ai finanziamenti a disposizione per i Talebani, il commercio del carbone somalo sovvenziona direttamente alcune amministrazioni regionali governative come Jubbaland nel sud della Somalia, incluso le loro forze di sicurezza, che si suppone stiano combattendo al-Shabaab.

Simile agli schemi nel Sahel, la Banca Mondiale e altre istituzioni multilaterali internazionali potrebbero apporre pressione affinché si annulli il debito della Somalia, ancorando le condizioni per tale operazione all’eradicazione del commercio del carbone o alla costruzione di alternative economiche.

Le vie della soft-power degli Stati del Golfo in Somalia

L’influenza del Golfo in Somalia e nella Regione segue vie più blande di soft-power.

L’Arabia Saudita ha iniziato a finanziare in modo aggressivo gli studiosi salafiti e organizzazioni musulmane sunnite conservatrici nel Corno d’Africa per contrastare l’influenza iraniana dopo la rivoluzione iraniana del 1979.

Molto dell’aiuto e dell’assistenza del Qatar alla Somalia fluisce attraverso beneficenza individuale o sostegno ad ospedali e scuole islamiche che colmano il vuoto del sistema formale d’istruzione.

Centinaia di migliaia di lavoratori ogni anno viaggiano verso il Golfo come collaboratori domestici, autisti e operai creando un’ancora di salvezza per coloro che restano a casa; inoltre, essi spesso abbracciano una versione più conservatrice dell’Islam ed è con queste convinzioni religiose che poi fanno ritorno in Somalia.

Allo stesso tempo la Turchia, che promuove le sue proprie credenziali islamiche, ha fatto della Somalia, il suo più grande beneficiario di aiuti in Africa. Lo stretto legame del Qatar e della Turchia, percepito come promozione dell’Islam politico e della Fratellanza Musulmana, che sia EAU e l’Arabia Saudita hanno designato come organizzazione terroristica, hanno delle potenziali conseguenze nefaste sulla sicurezza in Somalia.

L’influenza occidentale svanita nel Corno d’Africa e queste visioni in conflitto nella Regione, si potranno solo intensificare minacciando più di tutto l’unità della Somalia.

Luglio 10 2018

Sahel: tante missioni = nessuna stabilità

Sahel

Il SahelSahel è diventato un mosaico, complesso, di operazioni di peacekeeping e contro-terrorismo.

I peacekeeper delle Nazioni Unite pattugliano il Mali, dove le truppe francesi sono anche a caccia di cellule legate ad Al Qaeda. Parigi ha anche sostenuto le forze africane di stabilizzazione per contenere i jihadisti nella Regione.

La Cina  ha dispiegato dei peacekeeper in Mali, peraltro subendo anche delle vittime.Vi ricordate il  recente viaggio di Macron a Pechino dove ha tentato di apporre pressione per più finanziamenti cinesi alle operazioni africane?

Lo scorso anno, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti hanno sborsato circa 130 milioni di dollari per aiutare i governi del Sahel in una nuova missione di contro-terrorismo multilaterale: il G5 Sahel.

Il Sahel sembra un laboratorio per una nuova era di gestione della crisi, con una vasta gamma di poteri locali, occidentali e non-occidentali posizionati piuttosto a casaccio che mettono assieme le loro risorse per promuovere la stabilità.
Tutti questi attori esterni hanno delle buone ragioni per farlo.

Mentre gli Stati Uniti si agitano per i terroristi, gli europei si preoccupano molto per i flussi di rifugiati.

La Cina – ebbene si ancora lei – ha compiuto grandi investimenti nel Mali.

Tutti vogliono limitare i costi di controllo della Regione, che non è un punto geopolitico cruciale e di possibile implosione al pari della Siria o della Penisola Coreana.

Il risultato netto è la proliferazione di sforzi militari di contro-terrorismo e di stabilizzazione connessi in maniera lasca.

Anche missioni individuali come il G5 Sahel possono risultare abbastanza incoerenti, coordinando eserciti con qualità differenti i cui leader hanno differenti priorità di sicurezza.

L’odierna miscela di missioni di gestione di crisi nel Sahel potrebbe essere sufficiente a limitare i problemi della Regione, ma sicuramente è improbabile che assicuri una più ampia stabilità.

Un tale tipo di approccio è relativamente flessibile e sostenibile, ma ha dei chiari limiti, perché alcune missioni nel Sahel potrebbero mettere benzina sul fuoco; oltre che è chiaro che sia la rappresentazione di risposte semplicistiche a problemi complessi.

Manca una direzione strategica complessiva.

La mancanza di risorse è un problema ricorrente per le operazioni nella Regione. Le unità occidentali potrebbero avere tutto ciò di cui hanno bisogno, ma le forze locali no. La missione delle Nazioni Unite in Mali conta su unità africane equipaggiate scarsamente, molte delle quali non hanno neanche veicoli corazzati.  La forza sostenuta dall’Unione Africana creata per combattere Boko Haram ha impiegato più di un anno per acquisire l’equipaggiamento militare finanziato dall’Unione Europea.
Queste missioni inoltre mancano di una chiara direzione politica, concentrandosi su misure di breve termine per creare la stabilità ed eliminare i terroristi piuttosto che affrontare le radici profonde di tensioni economiche e sociali.

Il G5 Sahel, secondo l’International Crisis Group rischia di spingere più persone nelle braccia di gruppi armati attraverso la frequente condotta inappropriata e gli abusi contro i civili durante le operazioni o mentre cercano di frenare i traffici illeciti.

Qualche settimana fa i militanti islamisti hanno attaccato la città di Sevare, in Mali, nella base del G5 Sahel, uccidendo molti soldati. Questo attacco e altri colpi messi a segno hanno avuto come obiettivo i soldati maliani e francesi e sono stati rivendicati da un affiliato di Al Qaeda conosciuto con il suo acronimo JNIM.

Le varie sfide che deve affrontare il G5 Sahel non sono destinate a scomparire nell’immediato futuro; i gruppi militanti in Mali, ad esempio, incrementeranno gli attacchi in vista delle elezioni presidenziali nel Paese previste per il 29 luglio.

Il futuro del peacemaking e della gestione delle crisi protratte

Il Sahel non offre un esempio luminoso di come affrontare crisi protratte, ma il futuro del peacemaking è incline a coinvolgere esattamente la sorta di confusione, complessità e indefinitezza internazionale che sta emergendo ora.

I conflitti odierni in Siria, Iraq e Yemen presumibilmente non si concluderanno con una chiara composizione politica regionale e un quadro di pace sostenibile. Attori esterni e regionali potrebbero facilmente finire con il mantenere l’ordine e combattere i jihadisti attraverso una mescolanza fangosa di missioni di stabilizzazione e operazioni di contro-terrorismo, qualche volta cooperando, qualche volta scontrandosi.

Gli interessi geopolitici in tale scenario potrebbero essere più elevati e le risorse militari più grandi che in Mali o in Niger, ma potrebbe essere la migliore opzione disponibile per il Medio Oriente.

La gestione della crisi – protratta –  nel Sahel è incline ad essere un affare indefinito, con attori esterni che investono solo in termini di denaro e assetti militari per contenere i gruppi jihadisti e restringere grandi movimenti di rifugiati e migranti.

Il futuro della gestione della crisi risiede più in ampie coalizioni di Stati dall’utilizzo immediato, che mettono assieme differenti assetti su basi ad hoc con strutture di comando decentralizzate.

Luglio 3 2018

Giovani smarriti: il prodotto dei conflitti protratti

giovani

Ad oggi l’unico tema che sembra essere rilevante è il flusso migratorio dal Nord Africa e dal Medio Oriente verso l’Europa.

Chiariamo subito un punto: nell’ambiente di sicurezza contemporaneo, un accordo di pace ovvero la rimozione di un dittatore non rappresenta più la fine di un conflitto, ma solo il suo spostamento verso una forma differente.

La violenza protratta, particolarmente nelle dittature, sfregia profondamente una società: collassano i sistemi esistenti di autorità e ordine. Reti grigie ed economie occulte si fondono mano a mano che il disordine politico e il crimine emergono. Gli equilibri psicologici ed etici si indeboliscono e cedono. Regna l’anomia.

Per i combattenti e le loro vittime, lo spargimento di sangue diventa normale. Molte persone acquisiscono le abilità necessarie per uccidere, imparando come ottenere ed utilizzare armi, esplosivi.

La violenza diventa radicata: i bambini conoscono talmente tante persone violente che semplicemente assumono che anche loro lo diventeranno.

In un conflitto protratto, questa tragica situazione diventa auto-perpetuante, creando una generazione che non è istruita o che lo è molto poco, profondamente diffidente dell’autorità e abituata a reti ed economie grigie.

Per questa gioventù, la violenza non è un’aberrazione che interrompe la pace, ma la prassi, la consuetudine.

La storia recente è piena di esempi della nocività di generazioni smarrite.

Il Kosovo deve ancora ottenere la stabilità politica e, dopo molti anni dalla fine della guerra, è pieno di gruppi criminali.

Nel mondo interconnesso di oggi questi mali si diffondano anche molto lontano dalla loro fonte.

I gruppi criminali albanesi sono cresciuti  nelle guerre dei Balcani degli anni ’90 e adesso giocano un ruolo centrale, e violento, nel traffico internazionale di armi, di droghe e prostituzione.

Nel Sud Africa, decadi di conflitti tra i cittadini di colore e il regime della minoranza bianca hanno distrutto il rispetto della legge in grandi parti della società e prodotto centinaia di migliaia di uomini e donne senza istruzione.

Il rallentamento dello sviluppo economico e l’instabilità politica del Sud Africa, che hanno portato all’esodo di professionisti in cerca di uno stile di vita più sicuro, è il costo di un conflitto che sembrava concluso e che il Sud Africa continua a pagare.

In questo momento, ora, siamo di fronte a giovani smarriti; prodotti dai conflitti in Libia e Siria.

In Libia, la caduta di una dittatura patologica non ha dato vita alla riconciliazione e alla ripresa, ma ad una violenza intestina paralizzante. Il governo di unità nazionale fortemente voluto dall’esterno, da Europa e Stati Uniti, non ha il pieno controllo del territorio e delle regole di legge, anzi milizie e gruppi violenti continuano a riempire il vuoto di effettività.

Se possibile la Siria è in una situazione peggiore: più di 4 milioni di cittadini siriani sono rifugiati: “la più grande popolazione di rifugiati di un singolo conflitto in una generazione”, l’ha definita l’UNHCR.

Sia la Libia che la Siria hanno raggiunto un punto dove anche un accordo politico miracoloso non potrà guarire l’acredine.

La frattura dell’autorità, la normalizzazione della violenza, la creazione di reti grigie e l’inabilità di molti giovani siriani e libici di operare in un’economia stabile e moderna, lasceranno questi giovani smarriti con poche opzioni rispetto al crimine o al diventare essi stessi Signori della guerra. Saranno vulnerabili agli estremisti che gli offriranno falsi rimedi alla loro rabbia e disillusione. Come risultato, saranno una sfida di lungo termine non solo per le loro nazioni o le loro Regioni, ma per il mondo interconnesso.

Il prezzo dei conflitti libico e siriano sarà pagato per decadi.

Tragicamente, niente può  prevenire completamente ciò, il danno è già fatto. Al meglio, l’Europa e altre nazioni possono sanare alcune porzioni delle generazioni smarrite della Libia e della Siria.

Individuare una via per porre fine ai conflitti che stanno distruggendo le loro terre dovrebbe essere la priorità numero uno della comunità internazionale. Investire in programmi di state-building in Libia, allontanare queste generazioni smarrite dalla violenza attraverso assistenza economica mirata, programmi efficaci, istruzione e aiuto psicologico. Questo dovrebbe essere quello che i leader politici ritengono che sia non solo eticamente giusto, ma l’unico investimento necessario in sicurezza.

 

Giugno 28 2018

Terrorismo e migrazione: il legame che tutti vogliono ma che non c’è.

migrazione

La relazione tra terrorismo internazionale e le varie forme di migrazione è complessa. Nondimeno cercheremo di comprendere dapprima cosa si intende per migrazione e terrorismo e poi se esista o meno un collegamento organico tra terrorismo e migrazione.

Nell’approcciarsi a questo tipo di tematica mi sembra importante suggerire al lettore di prestare attenzione alle generalizzazioni perché c’è il rischio di alimentare un sentimento anti-immigrazione quando vengono formulate affermazioni non dimostrabili sulla migrazione come minaccia alla sicurezza nazionale.

Migrazione

Si riferisce all’immigrazione (in-migrazione) o all’emigrazione (movimento verso l’esterno) di persone o gruppi di persone da un paese ad un altro luogo usualmente distante, con l’intenzione di stabilirsi alla destinazione, temporaneamente o permanentemente. Questo processo può essere volontario o forzato, regolare (legale) o irregolare (illegale) all’interno di un paese o al di là delle frontiere internazionali. I rifugiati sono un sotto-gruppo di migranti internazionali che cercano asilo o che hanno ottenuto una protezione all’estero secondo i termini della Convenzione ONU sui rifugiati del 1951.

Terrorismo

Si riferisce ad una strategia di comunicazione politica per la manipolazione psicologica delle masse dove civili non armati (e non combattenti come prigionieri) sono deliberatamente perseguitati allo scopo di impressionare terze parti (ad esempio intimidire, costringere o influenzare un governo o una sezione della società o l’opinione pubblica internazionale) con l’aiuto di violenza dimostrativa di fronte al pubblico e/o per la copertura in massa anche sui social media. Il terrorismo di attori non statali è spesso una strategia di provocazione che ha come obiettivo una polarizzazione della società e un incremento del conflitto, mentre il terrorismo dello stato o del regime è utile all’obiettivo di repressione e controllo sociale. Il terrorismo come guerra psicologica è anche una tattica irregolare e illegale nel conflitto armato che può essere utilizzata da una o entrambe le parti.

 

Sicuramente sappiamo che Paesi e Regioni dove l’estremismo violento è diffuso: Siria, Iraq, Afghanistan, Nord Nigeria, Mali, Yemen per fare alcuni esempi, sono tra i principali Paesi che dislocano numeri significativi di persone.

Una delle sfide concettuali che pone l’intersezione tra terrorismo e migrazione è che è sempre più difficile discernere come le motivazioni individuali o la relativa ponderazione di esse, siano collegate alla causa della dislocazione. Le persone che scappano da un conflitto armato, da una guerra civile, di solito, nel ponderare la decisione di muoversi lontano dalla zona di guerra, scompongono in fattori le variabili economiche e sociali; non è insolito che considerino elementi come la disponibilità di lavoro, opportunità future (accesso all’educazione, assistenza sanitaria). In ragione di ciò è importante distinguere le cause sottostanti la dislocazione, come il conflitto, il collasso dello Stato o la persecuzione, da fattori come la disoccupazione, il cibo, posto che spesso è la mancanza proprio del cibo che innesca lo spostamento.

Alcune persone, specialmente coloro che appartengono a minoranze religiose nel Medio Oriente, incluso i cristiani e i yazidi, abbandonano la Siria e l’Iraq a causa della diretta persecuzione da parte dello “Stato islamico” (IS). Scappano a causa del fallimento della capacità dello Stato, o dalla mancanza di volontà dello stesso, di proteggerli. Possono scappare anche coloro che non sono perseguitati ma che vogliono fuggire dalle zone di conflitto armato.

Il terrorismo praticato da attori non statali è spesso uno dei fattori decisivi della migrazione forzata, questo tipo di dislocazioni sono spesso dei prodotti non intenzionali di gruppi estremisti e alle volte una politica deliberata condotta da essi.

Sebbene siano limitate le prove che uno spostamento sia causato direttamente da gruppi estremisti che utilizzano la tattica del terrorismo, è possibile asserire che alcuni gruppi di questo tipo hanno, tra i loro obiettivi, proprio quello di forzare il movimento di interi gruppi sociali. Pensiamo ad esempio a Boko Haram, nel nord della Nigeria che con i rapimenti di donne e il reclutamento di bambini e uomini, l’assedio apposto a numerosi villaggi, ha prodotto l’immediato abbandono di intere aeree.

Il terrorismo statale

Pur essendo difficile scindere il terrorismo come forma di guerra irregolare dal terrorismo statale, soprattutto quando il nemico è interno, può essere asserito che il terrorismo statale è stata la maggiore e forse anche la principale causa di migrazioni forzate nel caso della Siria. La cecità di molti governi sul terrorismo statale di regimi alleati, unitamente alla generale ossessione degli Stati per gli attori non-statali violenti, ha contribuito ad ignorare uno dei più potenti fattori chiave di migrazioni forzate: il terrorismo statale o di regime. Parzialmente ciò è dovuto al fatto che i Paesi che fanno esperienza di terrorismo statale sono anche quelli sul cui territorio operano gli attori non-statali violenti.  In tali casi causa ed effetto, azione e reazione, sono difficili da separare, più a lungo la spirale della violenza tit-for-tat continua, più a lungo la situazione all’interno del Paese si complica.

Il finanziamento dei gruppi estremisti transnazionali attraverso la migrazione

La fuga delle persone dalle zone di attacco di gruppi estremisti o di conflitto, è spesso difficile e pericolosa; essi devono cercare l’assistenza di facilitatori, in molti casi dei trafficanti criminali per passare o aggirare i posti di blocco nelle zone di conflitto e attraversare frontiere internazionali. Organizzando dei blocchi stradali i gruppi estremisti transnazionali spesso direttamente controllano e tassano coloro che vogliono scappare o costringono i trafficanti a dividere i profitti con loro.

Nel caso della Libia, l’IS ha controllato per mesi circa 260 km di costa del Mediterraneo vicino Sirte. Ad oggi, vi sono prove che indicano che i trafficanti di esseri umani lì devono dividere i loro profitti con diverse organizzazioni estremiste, incluso l’IS. Questo tipo di denaro che può essere guadagnato con il traffico di esseri umani è secondo solo ai ricavi che possono essere ottenuti con il traffico di droghe.

In sostanza: la tattica del terrorismo induce nelle persone paura per la propria vita che tende a causare l’emigrazione. Questa migrazione, a sua volta, permette, se tassata, il finanziamento di gruppi estremisti transnazionali.

È necessario comprendere che il terrorismo è spesso una strategia di provocazione. Coloro che s’impegnano in esso cercano di provocare una reazione eccessiva. Minor informazione di intelligence un governo possiede sul luogo e l’identità di perpetratori di atti di terrorismo, maggiore è la probabilità che le forze di polizia giudiziaria o di sicurezza utilizzino un approccio severo che ha come obiettivo un intero segmento della società con cui i terroristi vengono associati. Questo è spesso parte del calcolo terrorista: la repressione, essi argomentano, aprirà gli occhi di quelle persone e poi esse vedranno il governo come un’ “entità demoniaca”, e ciò dovrebbe fare in modo che molti si rivolgano ai terroristi fornendogli sostegno e nuove reclute. È un calcolo cinico per provocare la repressione contro lo stesso segmento che i gruppi estremisti rivendicano di difendere, ma questa è la mancanza di moralità e la scaltra strategia di molti gruppi estremisti.

Stato islamico (IS) e migrazione

L’IS si preoccupa molto di più che i rifugiati si integrino con successo nella vita in Occidente. Ciò è stato reso chiaro già dal settembre 2015 quando il gruppo diffuse 14 video in 3 giorni avvertendo le popolazioni musulmane di non migrare verso Dar al-Harb (“la terra di guerra” o di incredulità), incoraggiandoli a restare ed unirsi al Califfato.

Il flusso di migranti in Europa è un anatema per l’IS, mina il messaggio del gruppo che il califfato sia un rifugio

Data l’assoluta importanza per l’IS della propria abilità di conquistare e mantenere terreno, viene da chiedersi perché l’IS dovrebbe mandare via un grande numero combattenti esperti a condurre attacchi che potrebbero essere lasciati a simpatizzanti che sono già in Occidente, a costo zero per l’organizzazione?

Infatti, sottoposto a grande pressione, sembra che l’IS abbia stabilito unità di specialisti per prevenire e dissuadere potenziali disertori già dalla fine del 2015. È chiaro che l’IS nutra interesse nell’esagerare la minaccia associata con i rifugiati per molteplici ragioni, non da ultimo l’amplificazione della percezione della portata e della capacità dell’organizzazione. Ciò aumenta l’opposizione occidentale nell’accettare i rifugiati e consente all’IS di presentare il Califfato come un’alternativa attrattiva.

Tutto ciò pone in questione la credibilità della strategia del cavallo di Troia dato che la priorità numero uno dell’IS sembra essere attirare persone verso i suoi territori, piuttosto che mandarli via.

Anche se ogni singolo combattente IS (secondo alcune stime 30,000) dovesse venire in occidente mascherato da rifugiato, rappresenterebbe meno del 4% dei recenti flussi di migranti in Europa.

Un tale tipo di scenario è meno che plausibile. Malgrado l’isteria circa l’IS che infiltra le popolazioni di rifugiati, le evidenze finora sono state insufficienti.

Tenere i terroristi fuori dai confini nazionali è un obiettivo legittimo ma l’efficacia del controllo delle frontiere è limitata dal fatto che molti terroristi sono “homegrown” (locali) o sono stranieri con un permesso di residenza del tutto legale.

H. Cinoglu e N.Atun hanno ragionato sul perché malgrado non ci sia un collegamento organico tra la migrazione internazionale e il terrorismo internazionale sia gli Stati Uniti che i paesi dell’UE si focalizzino sulle politiche migratorie e di controllo delle frontiere nel combattere il terrorismo. Essi hanno notato alcuni svantaggi:

  • creando un collegamento artificiale tra gli immigrati e il terrorismo si creano ansia e eccessi di rabbia nelle società degli immigrati e aumentano sentimenti ostili contro lo Stato. In queste situazioni, l’ostilità contro gli stranieri (xenophobia) cresce unitamente alla possibilità di conflitto tra gruppi sociali.
  • Attaccare l’ideologia dei terroristi e le loro infrastrutture organizzative è una via più promettente che il controllo di tutti gli individui nei loro movimenti nella speranza di prendere alcuni terroristi tra loro.

Il pericolo più grande sembra essere la potenziale radicalizzazione e il reclutamento da parte di gruppi estremisti (in particolare quelli islamici) di piccoli numeri di rifugiati nel medio e lungo termine (dopo che sono arrivati) che potrebbe essere facilitato da estremisti che già vivono da molti anni in Occidente.

Questo non vuol dire che nessun gruppo estremista non ricavi vantaggi dell’odierna crisi per scivolare di nascosto in Occidente, ma questi casi sono presumibilmente relativamente rari. A dicembre 2015 il numero di rifugiati terroristi era di 26, nello stesso periodo il numero di rifugiati in Europa era di 1 milione, quindi l’0,003% (dati tratti dallo studio su terrorismo e migrazioni di massa di S. Mullins).

Peter Neumann, il direttore del Centro Internazionale per lo Studio della Radicalizzazione  afferma di non essere a conoscenza di evidenze empiriche che dimostrerebbero che gli immigrati di prima generazione siano particolarmente ricettivi dei messaggi estremisti. Le persone che sono appena scappate dalla guerra civile, dall’oppressione o dalla povertà è improbabile che siano interessate ad attaccare la stessa società che ha concesso loro salvezza.

Sebbene le autorità di contro-terrorismo abbiano un chiaro ruolo nel gestire il flusso di rifugiati in Occidente, deve essere reiterato che non è un problema primario di contro-terrorismo.

Raggiungere una più accurata comprensione delle connessioni – o della relativa mancanza di esse – tra la migrazione di massa ed il terrorismo internazionale in Occidente aiuterà i decisori politici ad elaborare programmi più adeguati per il controllo dei rifugiati dopo l’arrivo in EU e simultaneamente sarà più verosimile disinnescare le paure che peggiorano la situazione nel suo complesso.

 

Giugno 25 2018

Se Donald Trump avesse chiaro cosa è la politica commerciale

politica commerciale

La strategia commerciale di Trump è difficile da determinare, sembra cambiare a seconda di quale consulente sia a lavoro e quale sia stato licenziato su base quotidiana. Pur sembrando incoerente, vi sono dei temi comuni. Sfortunatamente, questi temi sono basati su un’errata comprensione del funzionamento della politica commerciale.

Ci sembra utile chiarire tre realtà fondamentali sulla politica commerciale che Trump non sembra afferrare.

La prima: la politica commerciale non può, tranne che a un costo molto alto, annullare forze macroeconomiche ampie che determinano la crescita, la creazione di lavoro e l’equilibrio commerciale.

Secondo, conseguente a quanto appena detto, la politica commerciare è fondamentalmente redistributiva nei suoi effetti.

Terzo, la politica commerciale è molto più complicata oggi perché i moderni processi di produzione sono globalmente frammentati.

Trump è persuaso che i grandi deficit commerciali – bilaterali e complessivi – suggeriscono che gli Stati Uniti siano stati dei perdenti nelle passate negoziazioni commerciali. Infatti, non importa quanto brillanti siano i negoziatori statunitensi, le politiche commerciali hanno poco se alcuno impatto sugli equilibri di commercio.

I relativamente grandi deficit commerciali degli Stati Uniti sono il risultato del semplice fatto che gli americani consumano molto e risparmiano molto poco.

Essi compongono la differenza importando beni dal resto del mondo. Inoltre, i grandi tagli alle tasse e l’incremento della spesa che Trump ha spinto il Congresso ad adottare, presumibilmente renderanno le cose peggiori aumentando il divario tra i risparmi ed i consumi.

Le politiche economiche domestiche dell’amministrazione Trump contribuiranno a più alti deficit commerciali, non importa quali accordi di commercio negozierà. Imponendo nuove tariffe o altre barriere al commercio non aiuterà.

Nell’economia del commercio vi è la simmetria di Lerner: una tassa sulle importazioni funziona come un equivalente tassa sull’esportazione. Le barriere commerciali aumentano i costi per i consumatori delle importazioni e tendono a spingere verso l’alto la pressione sul tasso di cambio. Il risultato è che le esportazioni diventano meno competitive e tendono a scendere assieme alle importazioni.

Uno degli obiettivi di Trump è mettere in salvo o creare lavori, specialmente nel settore manifatturiero. Tuttavia, in realtà, i cambiamenti nella politica commerciale non riguardano il numero complessivo di lavori nell’economia. Piuttosto, il commercio sposta i lavori da settori protetti ad altri, di solito settori più competitivi dell’economia. Perciò, come è stato ripetutamente sostenuto quando l’amministrazione Trump ha imposto le tariffe sull’acciaio e l’alluminio in primavera, ci potrebbe essere un numero relativamente piccolo di nuovi lavori creati in questi settori. Ma molti di più, con molta probabilità, saranno perduti nelle industrie che utilizzano l’acciaio e l’alluminio perché i costi di queste imprese saliranno. Similmente, con un prodotto finale, come le automobili, i lavori verranno persi in altri settori, perché dover pagare un prezzo più alto per le automobili significherebbe che le persone avranno meno da spendere in altri beni.

La politica commerciale è essenzialmente redistributiva.

Trump utilizza il protezionismo per favorire le industrie domestiche rispetto a quelle straniere. Il protezionismo favorisce anche i produttori rispetto ai consumatori all’interno degli Stati Uniti; ed inoltre incoraggia il lavoro ed il capitale a spostarsi in settori più favorevoli e verso imprese di solito più efficienti. Ciò impone dei costi netti sull’economia nel complesso.

Trump sembra ignorare come i moderni processi di produzione per la maggior parte di beni manifatturieri funzionano, ovvero come essi interagiscano con accordi di commercio come l’Accordo North American Free Trade o il NAFTA. Con costi di spedizione più bassi e con migliori tecnologie di informazione e telecomunicazioni, le imprese multinazionali ottengono input da qualsiasi parte esse possono trovare la qualità e altre caratteristiche di cui hanno bisogno al prezzo più basso possibile – e poi assemblare il prodotto finale quando soddisfano questi stessi criteri.

Interrompere questi processi di produzione con barriere commerciali, di nuovo, aumenta i costi per i produttori americani e li rende globalmente meno competitivi. Accordi di commercio regionali come il NAFTA, dall’altra parte, permettono a questi processi di produzione di svilupparsi attraverso le frontiere abbassando ulteriormente i costi di trasporto e fornendo un margine competitivo per i produttori all’interno di un accordo.

Le tariffe su 36 miliardi di dollari in importazioni dalla Cina che l’amministrazione Trump ha annunciato saranno effettive il 6 luglio 2018 illustrano come la politica più dell’analisi economica sembra guidare la politica commerciale dell’amministrazione Trump. Tale azione (sezione 301 del Trade Act del 1974) correttamente mira a indurre la Cina a cambiare le politiche che favoriscono le sue imprese rispetto a quelle degli Stati Uniti e altri competitori, ma presumibilmente mancherà il bersaglio. Allo scopo di mitigare l’impatto sui consumatori, la lista degli obiettivi delle tariffe esclude l’abbigliamento, le calzature i telefoni cellulari e altri prodotti elettronici che sono chiave delle esportazioni cinesi. Ciò non eliminerà i costi ai consumatori, li renderà solo meno visibili. I lavoratori negli stabilimenti che utilizzano quelle importazioni soffriranno anche perché le imprese che li impiegano manipoleranno i loro processi di distribuzione per trovare fonti alternative. Anche se riusciranno a gestire ciò, i loro costi inevitabilmente saliranno e la competitività americana ne soffrirà. Oltretutto la Cina ha immediatamente annunciato che contrattaccherà imponendo delle tariffe su un simile ammontaredelle esportazioni americane.

La politica commerciale non può ridurre in maniera significativa i deficit commerciali e aumentare la protezione commerciale attraverso tariffe che non possono creare lavori in alcuni settori senza distruggerli in altri.

Giugno 21 2018

La politica internazionale non è la politica da comizio: migrazioni e diversità

diversità

Quando si tratta di soluzioni di lungo termine per le sfide che le migrazioni pongono all’Europa (e anche agli Stati Uniti), l’atteggiamento è scoraggiante e il compito di valutare le colpe e le responsabilità diventa più complicato.

Il flusso migratorio a cui spesso ci si riferisce come la “crisi europea dei rifugiati” raggiunse il culmine nel 2015, quando più di un milione di rifugiati e di migranti (per il significato di questi termini vi rimando ad un mio precedente post) scapparono a seguito dei conflitti nel Medio Oriente e per le condizioni disperate in Africa. Ma la migrazione di massa e le tensioni sottostanti che hanno investito gli Stati membri dell’Unione Europea (UE) sono iniziate un anno prima. L’UE è stata  incapace di formulare una politica che ridistribuisse quel carico.

I politici che giocano con le paure del pubblico demonizzando gli immigrati non sono più marginalizzati. Invece essi sono nella posizione di isolare le frontiere, come hanno promesso.

Ciò è accaduto, in parte, a causa della mancanza di priorità accordata a tale problema, prima del 2015 proprio in seno all’UE, che era molto più preoccupata di pasticciare la sua risposta alla crisi del debito europeo.

Fin qui potrebbe essere uno dei miei post abituali dove cerco di offrire al lettore degli spunti in più per guardare il mondo dalla prospettiva di politica internazionale. Ebbene, questo post invece sarà strutturato diversamente, perché i dibattiti che si svolgono in Italia sulle migrazioni, sull’Aquarius, e sulle etnie stanno raggiungendo dei toni davvero scoraggianti.

Se non mi spaventavano i commenti “avanti tutta!” alle dichiarazioni del Ministro dell’interno italiano  in merito alla chiusura dei porti, resto addirittura basita dagli attestati di stima, sempre indirizzati al Ministro dell’interno, su presunti censimenti dei rom. Ma procediamo con ordine. 

Se mi chiedete cosa ne penso della questione dell’Aquarius, vi argomenterei la risposta partendo da:

I limiti del diritto del mare

Gli oceani e i mari sono divisi in SRR (Search and Rescue Regions), la responsabilità di ciascuna di esse ricade nello Stato costiero. La Convenzione SAR (Search and Rescue) richiede agli Stati costieri di stabilire dei servizi di ricerca e recupero all’interno della loro propria SRR. Inoltre, essi debbono assicurare che avvenga il coordinamento e la cooperazione allo scopo di sbarcare le persone soccorse nella loro SRR, in un luogo protetto. Tuttavia non si è mai raggiunto un accordo su una norma generale che predeterminerebbe il porto specifico per lo sbarco per ciascun incidente. L’unico chiarimento introdotto dall’emendamento del 2004 alla Convezione, è che lo Stato nella cui SRR avviene l’operazione di soccorso, assume la giuda nel trovare uno Stato preparato ad accettare lo sbarco. Malta ha sempre obiettato all’emendamento del 2004 per cui non è obbligata da esso.

I 629 migranti a bordo dell’Aquarius sono stati soccorsi in una parte del Mar Mediterraneo e nessuno Stato si è assunto de jure la responsabilità per il coordinamento del SAR. La Libia, lo Stato più vicino, non ha ancora, ufficialmente, stabilito la sua SRR e neppure aperto il Centro di Coordinamento per il soccorso in mare. De facto, l’Italia ha riempito questo vuoto coordinando gli eventi SAR  nella “Regione libica di ricerca e soccorso”. Anche se ciò ha reso l’Italia lo Stato responsabile secondo la Convenzione SAR, ne consegue solo che avrebbe dovuto prendere la guida nel trovare un porto per lo sbarco. Non avrebbe, tuttavia, posto l’Italia nell’obbligo di permettere lo sbarco nel suo territorio.

Proseguirei con: 

I limiti del diritto internazionale dei diritti umani

Dati i limiti del diritto del mare, le 629 persone soccorse potrebbero ricorrere al diritto internazionale dei diritti umani, argomentando che non gli è stato consentito l’accesso ai porti e dunque che l’Italia e Malta abbiano violato il loro diritto alla vita.

Tuttavia, gli Stati hanno obblighi di protezione dei diritti umani solo nei confronti di quegli individui che si trovano all’interno della giurisdizione di quello Stato. In Alto mare, gli Stati hanno considerato di esercitare la giurisdizione quando funzionari dello Stato fossero fisicamente presenti in un particolare incidente e perciò esercitassero un controllo effettivo sugli individui in cerca di protezione. Alla luce di ciò, le navi statali italiane e maltesi hanno navigato verso l’Alto mare per prevenire fisicamente che l’Aquarius si avvicinasse ai loro rispettivi territori dove le persone a bordo si sarebbero trovate all’interno della loro giurisdizione.

Stabilire la giurisdizione per i diritti umani è molto più complicato quando gli agenti di uno Stato costiero non sono fisicamente presenti sulla scena di emergenza in Alto mare. In particolare, dando istruzione all’Aquarius di restare in attesa, l’Italia ha indiscutibilmente esercitato un controllo su di essa. Tuttavia non è chiaro se questo controllo sia sufficiente per gli scopi di portare coloro che si trovavano sulla nave all’interno della giurisdizione italiana; alcune istruzioni possono essere considerate solo delle richieste di cooperazione, non ordini giuridicamente vincolanti.

E aggiungerei:

il modo in cui l’incidente dell’Aquarius è stato condotto è emblematico della mancanza di solidarietà tra gli Stati membri dell’UE. L’incidente dell’Aquarius è il promemoria delle conseguenze umanitarie potenziali  di questa mancanza di solidarietà.

Chiarirei tuttavia, che “fare la voce” grossa o lanciare slogan tipo “chiudiamo tutti i porti” non è una strategia di politica internazionale, ma l’espressione della politica da comizio di cui è vittima l’Italia in questi ultimi anni.

Alla domanda: “che soluzione proponi?” direi che:

l’Europa deve correggere il Regolamento di Dublino che ora appone troppo peso sugli Stati periferici.

Qui ci fermiamo per un chiarimento. Andare ovunque voi (riferito ai nostri governanti) desideriate nell’ambito di consessi internazionali, vuol dire avere una conoscenza quantomeno basilare della politica internazionale innanzitutto, ma anche degli strumenti giuridici a disposizione. Vi siete mai chiesti perché l’Italia non ha questo grande peso a livello internazionale? Io me lo sono chiesta ed in parte ho avuto una risposta mentre svolgevo il mio lavoro, allorquando un americano mi disse: “sei sicura di essere italiana? No, perchè sei troppo preparata per esserlo e sai pure troppo bene l’inglese”. Dunque sarebbe opportuno che presentandosi nel consesso dell’Unione Europea fosse chiaro ai funzionari statali italiani che quello di Dublino NON è UNA CONVENZIONE, MA UN REGOLAMENTO!

Nell’ordinamento dell’UE, il regolamento è una fonte di diritto derivato dai Trattati comunitari, insieme con le decisioni e le direttive.

Più precisamente, il regolamento è un atto normativo avente portata generale, obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile negli ordinamenti degli Stati membri (art. 288, par. 2 del Trattato sul funzionamento dell’UE). La portata generale si estrinseca nel fatto che il regolamento (a differenza delle decisioni) non è indirizzato a specifici destinatari, bensì a una o più categorie di destinatari astrattamente determinate. Le norme contenute nei regolamenti sono obbligatorie in tutti gli elementi e, quindi, disciplinano direttamente la materia a cui si applicano. L’effetto diretto immediato dei regolamenti comporta che essi non richiedono (a differenza delle direttive) l’adozione di provvedimenti nazionali di attuazione da parte degli Stati membri, ma si applicano immediatamente in tali ordinamenti e sono efficaci nei confronti sia degli Stati che degli individui, senza necessità di ulteriori atti. (Formulazione che trovate in qualsiasi manuale di diritto dell’UE e anche sull’Enciclopedia Treccani e presumo anche su altri testi giuridici)

Le Convenzioni, o più precisamente i Trattati sono strumenti del diritto internazionale e per essere vincolanti per lo Stato è necessario che esso li ratifichi. (semplificando per i lettori più pigri)

Dunque se io mi reco in un consesso internazionale e mi presento confondendo Regolamento e Convenzione, la mia credibilità è già in discesa libera. Vedete, la politica internazionale, come pure la diplomazia, è il regno delle parole. Non nel senso che si chiacchiera chiacchiera e non si combina mai niente, è che le parole contano per il significato reale che hanno e sono pietre molto più potenti delle armi. Durante la negoziazione di un accordo di pace, ad esempio, si misurano tutte le parole e finanche le virgole, affinchè tutte le parti siano d’accordo.

Gli Stati della cosidetta comunità internazionale osservano come si comporta il governo di un altro Stato e se in Italia il Ministro dell’Interno grida al censimento dei rom (anche ricognizione peraltro è un termine inopportuno dato che stiamo comunque parlando di esseri umani e non di luoghi deumanizzati, giacchè la ricognizione di solito si usa in riferimento a luoghi fisici), non appare come un professionista, ma come uno strillone. Posto che coloro che appartengono all’etnia rom (vi rimando all’enciclopedia Treccani per la definizione di etnia) sono cittadini italiani, vale a dire (sempre per i più pigri) che sono cittadini italiani come Mario il meccanico di Bisceglie o Marta la parrucchiera di Varese, la discriminazione etnica è vietata dalla stragrande maggioranza degli strumenti giuridici internazionali e nazionali. Pur tuttavia questo divieto non spaventa tantissimi che in questo periodo quasi si sentono sollevati da questa grande ideona pubblicitaria del su citato Ministro dell’interno. Perchè come ho sentito giorni fa ad un telegiornale, i rom sono quelli che rubano che lavano i vetri che chiedono l’elemosina. Bene, io mi vergogno di tali affermazioni.

Si è arrivati ad un tale punto di approssimazione che si viaggia su luoghi comuni come pietre tombali. E quindi i rom rubano, gli africani ci invadono e puzzano e via discorrendo. Eppure mi sembrava che dalla storia fosse evidente che la discriminazione inizia con un gruppo obiettivo e finisce con i treni destinazione campi di concentramento.

Così come tanti si battono affinchè ognuno sia libero di esprimere la propria opinione, così io vi invito a riflettere sulla libertà in generale di essere rom, ebreo, tuareg, kalè e via dicendo.

Soprattuto desiderei che ciascuno riflettesse per conto proprio sulla realtà che vogliono proporvi: una realtà di solo bianco e solo nero, dove esistono i buoni da una parte e i cattivi dall’altra. Dove i buoni sono autorizzati ad usare armi e metodi disumani perchè i cattivi in fondo altrimenti non si piegano. Dove esiste una religione migliore di un’altra, dove esiste un Paese migliore di un altro. Dove non serve studiare perchè c’è google, dove il merito non esiste perchè basta digitare “se non sei d’accordo ritwitta” o “ricondividi se sei indignato”. Dove la specializzazione e la professionalità sono sostituiti dall’approssimazione e la tuttologia. Dove l’altro è un pericolo perchè non è uguale a noi, dove ci sono complotti persino nel riso basmati. Dove vi tengono legati alle vostre paure, pur di soggiogarvi. Fate attenzione.