Il futuro di Hamas, non è determinato in maniera totale, dalla capacità militare e politica, ma anche dalle posizioni degli Stati Uniti e degli attori regionali, che fondamentalmente giocano il ruolo più importante nel plasmare il futuro del movimento.
Dal pieno controllo della striscia di Gaza nel 2007, Hamas si è impegnato a consolidare il suo governo in termini di sicurezza e di governance, mentre contrasta gli sforzi israeliani tesi a indebolire e contenere il movimento. Tali sforzi israeliani includono il blocco aereo, marittimo e di terra quasi totale su Gaza, con l’eccezione di piccole forniture umanitarie controllate e le successive guerre nel 2008, 2009, 2012, 2014, 2018 e 2021 che hanno mantenuto le capacità militari di Hamas nei limiti. Politiche costruite per esacerbare le difficoltà della popolazione a Gaza allo scopo di provocare una ribellione contro Hamas.
Sebbene tali strategie abbiano raggiunto un successo parziale, esse hanno fondamentalmente fallito nell’eliminare Hamas a Gaza. Non solo il gruppo è rimasto al potere, ma ha rafforzato le sue capacità militari, migliorato la sua burocrazia di governo, rafforzato la sua presenza politica all’interno della scena politica palestinese e ha accresciuto le sue alleanze regionali.
Dopo oltre un anno di conflitto, Hamas è stato indebolito nelle aree di comando e controllo militare, nella governance e nella leadership politica non solo perché ha perso Sinwar, ma anche Ismail Haniyeh il leader politico del gruppo al di fuori di Gaza assassinato dagli israeliani a Teheran.
Tuttavia, il movimento funziona ancora come una organizzazione unificata all’interno e all’esterno di Gaza, con una presenza a West Bank così come resta intatta la sua leadership politica al di fuori della Palestina.
Tutto ciò è più che significativo, dati i bombardamenti israeliani su Gaza, sostenuti da un massiccio e mai concluso rifornimento di armi e di sostegno intelligence degli Stati Uniti, che non è mai stato cosi intenso nella storia del conflitto.
Un altro aspetto importante per Hamas è il suo sostegno pubblico all’interno di Gaza, di West Bank e all’estero. Il gruppo è stato sempre vigilante a riguardo e in tutto il suo governo a Gaza ha sempre monitorato il sentimento pubblico per questa ragione.
Due dinamiche principali hanno guidato le fluttuazioni nei livelli di sostegno per Hamas:
la sua posizione come movimento di resistenza contro Israele;
il suo rendimento come partito al governo.
Alle volte, queste dinamiche hanno lavorato a scopi trasversali, con la resistenza che spingeva il sostegno popolare e la funzione di governo che lo minava.
Ricordo (brevemente) l’ideologia del movimento Hamas. Perchè la differenza è tutta qui. Il terrorismo è una tecnica, una tattica, un metodo di violenza politica utilizzato da gruppi estremisti violenti, di qualsiasi ideologia (estrema destra, estrema sinistra, ambientalisti, religiosi, single issue). Per contrastare tali tipologie di gruppo, si può e si deve agire sulla tecnica, vale a dire il terrorismo. Tuttavia, come abbiamo visto per altri gruppi di questo tipo, il contro-terrorismo non porta allo scioglimento del gruppo, alla fine, anzi casomai è vero il contrario anche quando gruppi si scogliono e si riformano sotto altri nomi. (Ne parlerò in un altro post). Dunque, se quello che si vuole raggiungere è l’obiettivo di sciogliere questi gruppi in modo definitivo, ciò che bisogna contrastare è l’ideologia. Essere persuasi che i gruppi estremisti violenti religiosi, come Hamas, ad esempio, non abbiano ideologia e che siano solo “terroristi” (un giorno scriverò di quando sia improprio questo termine), li lascia fiorire, splendere agli occhi di chi si identifica con quella ideologia che conosce, quindi più reclute e possibilmente più alleati e risorse.
L’ideologia di Hamas non è così significativamente diversa dagli altri gruppi islamici della regione, ad eccezione di quanto esso leghi stretto le traversie del territorio palestinese con la capacità dell’uomo di vivere in maniera retta e giusta davanti a Dio. Anche se il sistema di credo di Hamas è centrato sull’importanza della relazione tra uno Stato palestinese e la rettitudine morale, la loro ideologia non è interamente uniforme. Il territorio di cui ha bisogno non è per Hamas uno scopo strategico o politico, ma serve al compimento di un obbligo religioso, come disposto da Dio. L’intero fondamento ideologico della resistenza di Hamas è incastonato nella loro interpretazione del ruolo dello Stato. Lo Stato costruito per permettere all’Islam di fiorire, quando lo Stato è incapace di realizzare ciò, l’Islam è minacciato.
Attenzione! questa è una estrema sintesi dell’ideologia di Hamas. Se volete approfondire davanti a voi si aprono due strade: a. venire all’università nel mio corso, b. leggere una grande quantità di libri scritti da studiosi di questo gruppo che sono in vendita nelle migliori librerie.
Ogni formula politica che intenda affrontare il futuro politico di medio e lungo termine richiederà qualche forma di consenso ovvero un organo eletto. E quando il momento verrà Hamas sarà li.
Tale equazione governance-resistenza sembra aver plasmato la popolarità di Hamas durante l’odierno conflitto. Sebbene molti palestinesi abbiano ammirato la determinazione del gruppo e i risultati militari contro la forza armata più potente del Medio Oriente, hanno criticato il suo fallimento nel preparare i civili palestinesi agli effetti della guerra, incluso la loro protezione da Israele e assicurare un’adeguata fornitura di aiuto umanitario. Hamas si è battuto nell’ultimo anno per rimanere l’attore amministrativo ufficiale per la popolazione a Gaza, malgrado l’implacabile campagna militare israeliana di distruggere i suoi organi civili e la sua struttura.
Hamas non è cessato di esistere come un’entità funzionante, mentre il movimento è certamente seriamente indebolito su tutti i fronti, Israele non sarà in grado di eradicarlo completamente. La natura multipla di Hamas e la misura in cui è legato al tessuto sociale e religioso all’interno della popolazione palestinese gli fornirà spazio e ossigeno per ricostruirsi e riorientrarsi dopo la fine della guerra.
Anche se Hamas sarà totalmente neutralizzato in termini di capacità militare, rimarrà la sua presenza politica e sociale e la reputazione tra i palestinesi.
Il sostegno ad Hamas tra la popolazione palestinese cresce e decresce in diretta relazione con la disponibilità ovvero la mancanza di altre opzioni.
La mancanza di più di tre decadi di processo di pace, l’aumento dell’occupazione israeliana, le annessioni e la crescita di un sistema di apartheid, il senso di abbandono e umiliazione da parte della comunità internazionale, le difficoltà economiche sempre maggiori sia a Gaza che a West Bank, tutti questi fattori hanno portato molti palestinesi alla frustrazione, alla disperazione e alla rabbia e fondamentalmente ad Hamas. Se questa continua ad essere la realtà che travolge ed inghiottisce i palestinesi, allora la ri-nascita di Hamas, o un suo rimpiazzo radicale che prende la stessa bandiera, sarà possibile.
Mentre ogni previsione è un azzardo proviamo a delineare alcuni scenari che probabilmente possono rappresentare delle prospettive per il dopo-conflitto.
A. Un movimento disarmato. Hamas è simultaneamente un movimento (violento) religioso-politico e un partito nazionale di resistenza, con uno dei due aspetti che prende il timone a seconda del contesto e delle circostanze. Se la parte della resistenza è repressa dopo la guerra, che sia attraverso la forza, che per scelta, il movimento molto probabilmente ri-orienterà le sue energie sul lato politico-religioso unitamente alla ricostruzione della sua struttura organizzativa. In questo caso una possibile versione di Hamas potrebbe essere una organizzazione non-militare che funziona come un movimento politico religioso simile ad altri partiti islamisti nella regione. Le aree di attivismo potranno includere la partecipazione alle elezioni e ai processi politici, l’impegno nelle resistenza non violenta e popolare contro Israele e sforzi per aumentare l’appartenenza al gruppo.
B. La distruzione del movimento e la nascita di più piccoli gruppi scheggia e molto probabilmente più radicali. Questo sarebbe lo scenario più oscuro per tutti, perché trasformerebbe Gaza in un’arena di caos senza fine. In questo caso conflitto e insicurezza non solo rimpiazzerebbero Hamas, ma potrebbero ripercuotersi a livello regionale a West Bank, in Israele, in Egitto e in Giordania.
C. L’indebolimento, ma non la distruzione di Hamas, che accetta una formula di divisione del potere in una Gaza post conflitto. La parte in cui si permette ad Hamas di essere parte del futuro di Gaza garantirebbe che il gruppo non adotti il ruolo di spoiler. Non è un piccolo prezzo, anzi, anche se drasticamente indebolito e militarmente neutralizzato Hamas potrebbe mobilitare efficacemente i suoi membri e rendere la vita insopportabile ad organo governante a Gaza .
Il 1 dicembre 2024, un membro dell’Autorità Palestinese conferma di un accordo preliminare tra Hamas e Fatah raggiunto a seguito di settimane di negoziazioni al Cairo. Un comitato di 12-15 membri la maggior parte di essi proveniente da Gaza. Sulla relazione controversa tra Hamas e Fatah ne scriverò nel prossimo post.
A Washington avvertono che la Cina, con i suoi finanziamenti dei maggiori progetti infrastrutturali, sta sovraccaricando i Paesi africani di debiti. Questa affermazione non ha necessariamente un fine indagatore, ma sottolinea come le relazioni Stati Uniti – Cina stiano diventando sempre di più acrimoniose. L’Africa è diventata la nuova arena per la rivalità strategica.
Algeria
Aspetta, non leggere, riguarda la mappa. Dedica un minuto in più di attenzione dove si trova geograficamente l’Algeria con chi confina.
A metà luglio, il presidente dell’Algeria Abdelmadjid Tebboune ha condotto una visita di Stato di cinque giorni in Cina, dove ha incontrato il presidente cinese Xi Jinping e altri funzionari chiave. La delegazione di uomini d’affari che lo accompagna evidenzia il desiderio di Tebboune di sostenere i legami economici dell’Algeria con la Cina. Tebboune ha dichiarato nel giorno finale della visita: «vogliamo cooperare con la Cina perché è un grande Paese con enormi mezzi.»
Tebboune ha anche dichiarato il motivo per cui il modello di partnership di Pechino è cosi allettante: « la Cina non emette restrizioni politiche, non appone condizioni. In breve la Cina rispetta gli altri Paesi».
Algeri, ricordiamolo, si prepara ad occupare il suo seggio temporaneo al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel 2024-2025 ed ha bisogno di Pechino più che mai.
Nel viaggio da e di ritorno dalla Cina, Tebboune si è fermato in Qatar e Turchia. Agli inizi di quest’anno ha visitato la Russia, nel più ampio sforzo di ri-impegnare diplomaticamente Algeri dopo anni di isolamento.
Il collasso dei prezzi del petrolio nel 2014 ha condotto ad anni di sofferenza finanziaria, quasi al punto di richiedere finanziamenti esterni. Il conseguente taglio negli alti livelli di spesa sociale dell’Algeria ha aiutato ad alimentare il movimento di protesta Hirak, un’espressione su scala nazionale di malcontento popolare che ha spinto l’allora presidednte Abdelaziz Bouteflika a dimettersi nel 2019. Sebbene ora moribondo, il movimento ha contrassegnato la più grande sfida al potere autocratico del regime in decadi.
Gli impegni di politica internazionale dell’Algeria hanno tre principali obiettivi:
contrastare la crescente influenza regionale del vicino Marocco;
rafforzare la sua posizione tra le potenze crescenti di un mondo multipolare;
attrarre più investimenti per diversificare la sua economia.
Allinearsi con la Cina calza a pennello in tutti questi obiettivi.
Negli anni passati, il Marocco ha rafforzato le sue rivendicazioni di sovranità sul Sahara Occidentale – una fonte importante di tensioni con l’Algeria – procurandosi il riconoscimento da un crescente numero di Paesi, incluso gli Stati Uniti. Nel fare ciò, ha spostato con successo la questione fuori dal reame della soluzione mediata dalle Nazioni Unite basata sul diritto internazionale. L’Algeria che sostiene l’indipendenza del territorio, potrebbe utilizzare la sua presenza nel Consiglio di Sicurezza per cercare di rallentare il momentum del Marocco e riportare la disputa territoriale sotto gli auspici delle Nazioni Unite.
Una Cina compassionevole potrebbe aiutare.
Il valore di Pechino come alleato è specialmente cruciale per raggiungere gli ultimi due obiettivi. Negli anni recenti l’Algeria ha intensificato la sua campagna di lobby per entrare nel gruppo BRICS, che comprende il Brasile, la Russia, l’India, la Cina ed il Sud Africa. Argomento centrale di discussione durante la visita di Tebboune in Cina e Russia. Entrambi i Paesi hanno pubblicamente sostenuto la candidatura dell’Algeria. Unirsi al BRICS concederebbe all’Algeria una solida impronta in un’organizzazione chiave per le potenze economiche non-occidentali, solidificando le sue relazioni con altri Paesi del Sud Globale. Concederebbe anche più influenza nel navigare i legami con i Paesi europei, i quali spesso appongono pressioni all’Algeria per il suo continuo imprigionamento di attivisti e giornalisti.
In particolare, essere parte del New Development Bank, fornirebbe una qualche sicurezza per un prezzo più basso, nel futuro, del petrolio e del gas: Algeri non dipenderebbe dal Fondo Monetario Internazionale o altre organizzazioni multilaterali dominate dall’occidente per un salvataggio nel caso una improvvisa discesa nelle entrate energetiche metta in pericolo ancora una volta la sua posizione relativa al bilancio. Sarebbe una sorpresa se l’Algeria fosse ammessa nel gruppo a breve, giacchè la sua economia resta sotto sviluppata e statica, dominata da esportazioni di idrocarburi. La scena degli affari è opaca e ostile all’investimento estero. Manca di una base manifatturiera competitiva e diversificata.
La crescente vicinanza dell’Algeria con la Cina sarà vantaggiosa al di là dell’appartenenza a BRICS. La visita di Tebboune a Pechino ha condotto alla firma di 19 accordi di cooperazione e progetti per 36 miliardi di dollari in investimenti cinesi nei prossimi anni. Le industrie cinesi hanno aiutato a costruire molte delle case e delle infrastrutture di trasporto su cui l’Algeria ha investito durante i precedenti supercicli di prezzi del petrolio.
Probabilmente il più grande fattore che guida il corteggiamento algerino alla Cina può essere rinvenuto nelle difficoltà della Russia sui campi di battaglia dell’Ucraina.
Mosca è stato un sostenitore politico tradizionale dell’autocrazia di Algeri e un fornitore chiave per le sue forze armate. Tuttavia le autorità algerine comprendono che l’influenza globale russa ora è in diminuzione. Quale che sia il risultato in Ucraina, è quasi certo che il regime del presidente russo Vladimir Putin apparirà economicamente più debole e politicamente più instabile una volta che il conflitto sarà terminato.
Ciò non vuol dire che la forte relazione dell’Algeria con la Russia terminerà. Tebboune e gli alti ufficiali dell’Algeria – il vero potere nel Paese – continueranno ad evitare di criticare la guerra di aggressione di Putin. Neppure avranno come obiettivo quello di sostituire il loro amico a Mosca con uno a Pechino.
Hanno compreso la necessità di diversificare il loro portfolio di alleanze e sembrano contenere un risultato negativo per la Russia in Ucraina assicurandosi un’altra base di sostegno chiave al di fuori dell’influenza occidentale.
Al momento l’Algeria sembra ben lontana dal guadagnare un gruppo di nuovi alleati attraverso il BRICS, ma converge volentieri per un nuovo amico super potente: la Cina.
La strategia degli Stati Uniti in Africa è articolata attraverso un programma obsoleto (ancora quello)
Il vice Presidente Kamala Harris ha svolto recentemente un viaggio di nove giorni in Africa, iniziato in Ghana, Tanzania e concluso in Zambia. La sua visita segue quella di Janet Yellen, Segretario del Tesoro, Linda Thomas-Greenfield, ambasciatrice americana alle Nazioni Unite, la first lady Jill Biden e il segretario di Stato Antony Blinken.
La selezione di tre Paesi di lingua inglese i cui governi sono favorevoli agli interessi americani e sistemi politici stabili, è intesa a dimostrare la capacità di Washington di esibire la sua agenda continentale lavorando con alleati che la pensano come loro. Cionondimeno il viaggio della Harris dimostra diversi limiti profondamente radicati nell’impegno americano con i Paesi africani.
La vasta impronta della Cina nei tre Paesi che ha visitato è ineluttabile, dal momento che le imprese cinesi hanno investito vaste somme nello sforzo di accrescere lo sviluppo infrastrutturale in tutti i Paesi. In un momento storico in cui Washington ha diretto decine di miliardi di dollari per sostenere l’Ucraina sin da quando è stata invasa dalla Russia, l’annuncio di Harris di 100 milioni di dollari dagli Stati Uniti per gli Stati dell’Africa occidentale – 20 milioni di dollari ciascuno – è un indicazione delle sue priorità.
Molti hanno visto con favore l’impegno della Harris con i creativi ghanesi, ma la sua diffusione di una playlist Spotify con la partecipazione di artisti del Ghana, Tanzania e Zambia così come il suo invito agli attori di Hollywood Idris Elba e Sheryl Lee Ralph di accompagnarla durante la sua visita agli studi musicali, è stata considerato emblematico della superficialità con cui i funzionari americani si coinvolgono con gli africani.
Essenzialmente, il viaggio di Harris ha compiuto poco per cambiare le percezioni tra molti africani che Washington vede il Continente principalmente come una serie di problemi da essere gestiti, alleggerendo il tutto con un cenno di assenso ad esso come fonte di intrattenimento. I funzionari americani così come coloro che difendono l’impegno di Washington in Africa regolarmente respingono le critiche alle politiche sottolineando le donazioni di miliardi di dollari che annualmente gli Stati Uniti elargiscono in assistenza allo sviluppo. Come prova dell’effettivo impegno americano, evidenziano le alleanze bilaterali e multilaterali nel Continente; programmi popolari come l’Emergency Plan for AIDS Relief, African Growth and Opportunity Act che fornisce accesso duty-free al mercato americano; il sostegno degli Stati Uniti alla promozione della democrazia, la leadership americana nelle organizzazioni internazionali per cui i Paesi africani beneficiano considerevolmente.
Il problema con queste narrative non è tanto che sono false, ma che i loro limiti rafforzano le esatte argomentazioni che compiono le critiche alla politica americana. Alcuni programmi di vanto americano sono ora quasi due decadi vecchi e miseramente adatti alle realtà moderne.
Le alleanze di sicurezza americane hanno fatto poco per fermare l’ondata di violenza estremista nella regione del Sahelo aiutare gli Stati fragili a costruire capacità addirittura rafforzando gli incentivi negativi che consolidano il ruolo dei militari negli Stati coinvolti.
La retorica di Washington sulla democrazia scarsamente si accorda con il suo comportamento, come dimostrato nelle recenti elezioni in Nigeria, quando l’amministrazione Biden ha rapidamente avallato il risultato di elezioni profondamente viziate dalla violenza e dalle irregolarità.
Anche se gli Stati Uniti non scatenano lo stesso tipo di reazione aspra che suscita la Francia, molti nel Sahel percepiscono le preoccupazioni americane per la democrazia come un’offerta per imporre e mantenere l’influenza straniera.
Per molti di coloro che vivono in questi Paesi, i colpi di Stato sono espressioni del volere popolare ed è molto difficile sapere, conoscere, quanto ampi siano tali sentimenti. Il fatto che la difesa americana della democrazia significhi così poco nella regione suggerisce che posizioni di principio possono ottenere poco al momento.
Eppure gli Stati Uniti hanno assunto posizioni “più flessibili” in passato, come nel caso dell’Egitto. Quando Abdel Fatah el-Sisi ha preso il potere attraverso un coup nel 2013, gli Stati Uniti sono andati avanti con gli affari come al solito, perché il Cairo è considerato un alleato strategico che Washington non può permettersi di perdere. Questa sorta di flessibilità dovrebbe essere impiegata nel Sahel.
I Paesi africani temono una decade perduta
Una delle cattive abitudini dei funzionari americani, che hanno continuato a sostenere fin dal lancio della strategia americana in Africa lo scorso anno, è la tendenza a caratterizzare le relazioni dell’Africa con la Cina in termini paternalistici, particolarmente riguardo al debito cinese, riferendosi a Pechino: «accordi luccicanti che possono essere opachi e fondamentalmente falliscono nel portare beneficio alle persone per cui sono stati presumibilmente progettati.»
La supposizione implicita tra americani e europei è che i governi africani mancano dell’astuzia necessaria per comprendere lo scenario della politica internazionale e navigarlo nel perseguimento dei loro interessi.
Peggiori sono le rivendicazioni di una “trappola del debito cinese” organizzata per gli africani. I prestiti cinesi, sebbene una proporzione crescente del debito dei Paesi africani, sono fondamentalmente sovrastati dall’onere del debito creato dai prestatori privati occidentali.
Come spesso fanno notare i governi africani, essi si sono rivolti a Pechino per lo sviluppo finanziario non perché non comprendono ciò che è offerto, ma per le condizioni del prestito relativamente favorevoli rispetto ai creditori occidentali.
I funzionari americani e i commentatori spesso si riferiscono ai governi africani come “sedotti” dai prestiti cinesi e dal sostegno per i regimi autoritari nel Continente. In questo modo essi semplicemente sottolineano la loro mancanza di familiarità con le aspirazioni delle popolazioni africane, che li lascia incapaci di comprendere perché i rivali di Washington stanno guadagnando terreno con il pubblico africano.
Parimenti significativa la circostanza per cui esagerano le capacità della Cina, sottovalutando i considerevoli spazi vuoti che vi sono nell’impronta di Pechino in Africa, spazio che molti governi nel Continente e molti dei loro elettori vorrebbero che Washington riempisse.
Se gli Stati Uniti vogliono diventare il partner di scelta degli africani devono iniziare ad ascoltare i loro interlocutori africani e considerare seriamente le loro argomentazioni e aspirazioni.
I governi africani regolarmente dichiarano di non voler schierarsi da alcuna parte tra le Grandi Potenze nel contesto geopolitico. In più, sebbene molti di loro ora guardino la Cina come il loro principale partner diplomatico, non considerano i loro legami con la Cina come la somma totale delle loro relazioni internazionali. È certamente una relazione cruciale, anche la più importante, ma in nessun modo la sola.
Vi sono aree di tensione nelle relazioni della Cina con gli africani, inclusa una crescente percezione che Pechino si stia tirando indietro e riducendo la sua impronta in Africa. Questi timori potrebbero essere fondati. Al Forum sulla Cooperazione Cina – Africa (FOCAC) del 2021, la trattazione principale era la riduzione di un terzo degli impegni finanziari di Pechino in Africa nei successivi tre anni. Alcuni analisti hanno asserito che questa mossa era più sfumata rispetto al commento, argomentando che le altre iniziative annunciate da Xi puntavano ad un chiaro segno che il settore privato é posizionato in modo da guidare la fase successiva delle relazioni tra Paesi africani e che Pechino si muove gradualmente lontano da progetti di infrastrutture di larga scala attuati da imprese statali verso lo sviluppo di un settore a guida privata. Le ragioni di questo spostamento sono varie e dibattute, ma si è senz’altro d’accordo che la Cina sta cercando di minimizzare i suoi rischi – anche di reputazione – in alcune aree e cercando di creare spazio per consegnare parte della sua impronta all’estero alle imprese del settore privato.
Alcuni analisti asseriscono che Pechino ha maturato più esperienza e prudenza come donatore ed investitore e perciò più cauta, specialmente data l’incertezza economica domestica. A prescindere dalle ragioni dell’evoluzione dell’attività cinese in Africa, i governi africani nondimeno si preoccupano che il loro principale partner economico sia meno desideroso di distribuire finanziamenti e progetti rispetto a quanto lo fosse tempo fa.
Tutto ciò ci suggerisce che gli africani vedono e comprendono i meriti e i lati negativi dei metodi degli Stati Uniti e della Cina. Così come vi sono dei timori su alcune parti dell’impegno cinese, vi sono elementi della cassetta degli attrezzi di Washington che sono popolari tra gli africani. Ad esempio il PEPFAR, il piano di emergenza del Presidente degli Stati Uniti per l’AIDS Relief autorizzato dall’allora presidente George W. Bush nel 2003, è ampiamente considerato dai governi africani, dai gruppi della società civile e dai professionisti sanitari come fattore trasformativo nel Continente, malgrado le critiche all’iniziativa. La considerevole diaspora Africana negli Stati Uniti e la loro crescente prominenza in molti settori così come nel Continente sostiene la diplomazia culturale e i legami tra gli africani e i cittadini americani. In un continente dove milioni, particolarmente giovani, hanno capacità creative ed imprenditoriali, aspirazioni, gli Stati Uniti e i marchi popolari tecnologici, la moda, l’intrattenimento e l’ingegneria continuano ad essere visti come un centro nevralgico di innovazione.
Pur tuttavia molti africani, in linea generale, percepiscono che solo una parte – la Cina – compie uno sforzo credibile nel migliorare il suo modo di operare ed è possibile distinguere le vie tangibili dell’attività cinese nelle loro comunità che ha innalzato gli standard di vita e migliorato la qualità della loro vita.
I Paesi africani ora sono in un punto di flessione nella traiettoria del loro rapporto con le potenze mondiali, con sostanziali incertezze rispetto a tali relazioni.
Queste potenze esterne farebbero bene a riflettere come dimostrare meglio il loro desiderio dichiarato di migliorare le relazioni con gli africani. Allo stesso modo, i governi del continente dovrebbero considerare come trarre il meglio delle opportunità che possono derivare dalla competizione per l’influenza in Africa.
Riconoscendo lo squilibrio di potere intrinseco al sistema internazionale, i governi africani devono dimostrare un approccio preciso, puntuale delle loro relazioni con Pechino e Washington per trarne vantaggio. Ciò deve assicurare che questo impegno corrisponda a strategie locali che non duplichino sforzi – o li sprechino su progetti e iniziative che portano pochi benefici alle popolazioni del Continente. Sebbene il Giappone non possa realisticamente competere sulla stessa scala della Cina o degli Stati Uniti per l’influenza in Africa, il suo modello di cooperazione, che tende ad essere caratterizzato da un approccio multilaterale e multisettoriale che unisce una molteplicità di voci e alleati su una vasta gamma di questioni, è valutato positivamente da molti governi africani e potrebbe essere uno da emulare.
Per tutta l’onnipresenza e abilità cinese in Africa, le sfide del Continente e le aspirazioni sono troppo vaste e varie perché Pechino possa soddisfarle tutte realisticamente. I sondaggi hanno dimostrato in maniera consistente che gli africani conservano delle visioni positive sia degli Stati Uniti che della Cina e preferiscono mantenere delle relazioni vantaggiose con entrambi piuttosto che dover scegliere tra loro.
Pochi africani sono ingenui nel non comprendere il significato relativamente basso che Washington accorda al Continente paragonato alle priorità centrali in Europa e nella regione Asia-Pacifico, ma ciò non è visto come necessariamente un ostacolo ad un’alleanza produttiva – anche se modesta.
Il tasso di trasmissione del coronavirus all’interno della Cina continua a scendere, il governo cinese ha dichiarato la settimana scorsa che il picco del suo COVID – 19 è passato. Con l’epidemia a casa ampiamente sotto controllo, Pechino sta dirigendo la sua attenzione sui casi importati da viaggiatori infetti. Sta anche cercando di rimodellare la narrativa della pandemia che si è originata in Cina.
Wuhan, la città nella Cina centrale, epicentro dell’epidemia, rimane in isolamento. Le misure draconiane imposte in altre parti del Paese sono state gradualmente allentate. La Cina ha riportato solo un caso di trasmissione domestica del virus e 12 nuovi casi che coinvolgono viaggiatori dall’estero. Le autorità hanno risposto ampliando le regole della quarantena per gli arrivi dall’estero e scoraggiando i cittadini dal viaggiare verso Paesi colpiti dalla pandemia.
Le autorità cinesi hanno spostato la loro attenzione verso l’estero e così anche la propaganda del Partito Comunista. In uno dei più vergognosi esempi, il portavoce del ministro degli esteri cinese ha scritto in un tweet che l’esercito americano potrebbe essere responsabile di aver portato l’epidemia a Wuhan.
Ha poi asserito che citare la Cina come origine del virus è “immorale e irresponsabile”. I commentatori cinesi accusano della diffusione (e origine) del coronavirus Stati esteri come il Giappone o l’Italia. Gli organi di stampa ed egualmente i funzionari cinesi si sono particolarmente impegnati a strombazzare il successo della risposta cinese alla crisi, offrendosi come un modello per il resto del mondo.
Sembra proprio che il governo cinese non accetti più che il virus si sia originato a Wuhan, anche se il presidente Xi Jinping aveva precedentemente pubblicamente riconosciuto ciò.
Sicuramente anche gli Stati Uniti hanno prodotto la loro ingente quantità di teorie di cospirazione. Il Senatore Tom Cotton, un repubblicano dell’Arkansas si è posto la domanda se l’epidemia fosse il risultato di un arma biologica cinese creata in maniera blanda. Recentemente il presidente Donald Trump si è riferito al COVID-19 come al “virus cinese” e il Segretario di Stato Mike Pompeo ha ripetuto a pappagallo il “Wuhan virus”.
La realtà è che l’epidemia poteva essere contenuta o interamente evitata se le autorità cinesi non avessero ignorato o soffocato gli avvertimenti di un “virus misterioso” a Wuhan che possono essere fatti risalire al novembre del 2019.
Sfortunatamente, un’intensificazione di battibecchi tra gli Stati Uniti e la Cina sulla libertà di stampa ostacolerà solo la diffusione di informazioni accurate fuori dalla Cina.
Le campagne di informazione, di propaganda, della Cina e degli Stati Uniti sono distinte, da considerare ed analizzare separatamente, in cui ognuno persegue obiettivi differenti e i interessi propri.
La Cina è impegnata in uno sforzo su molteplici fronti per riscrivere la storia ed emergere rafforzata dalla crisi globale. Le misure di isolamento draconiane a Wuhan e nella sua provincia vicina appaiono aver spento molta della capacità del virus di moltiplicarsi all’interno della popolazione cinese. I dati ufficiali mostrano solo nuovi casi con il contagocce, anche se il resto del mondo lotta con un enorme ondata di infezioni che travolgono gli ospedali.
Il palcoscenico per la Cina è pronto: mostrare un’aria trionfante e mettersi al lavoro sul confezionamento dei suoi messaggi di pubbliche relazioni sia per il consumo domestico che internazionale.
Il leader cinese, Xi Jinping, mira ad utilizzare la crisi del coronavirus per rafforzare la sua posizione personale nel proprio Paese, assieme alla presa al potere del Partito Comunista. Il messaggio di Xi alla popolazione cinese è che sono fortunati ad avere un leader così forte e saggio e un sistema unificato ed efficiente. Il suo messaggio al resto del mondo è che la Cina è il potere del futuro – il suo sistema vale la pena di essere emulato, chiaramente superiore all’alternativa democratica, specialmente quando Paesi dagli Stati Uniti all’Italia si inerpicano per gestire la pandemia, spesso con precarie leadership e con centinaia di milioni di persone che sopportano ordini di stare a casa.
È un messaggio che chiede una risposta dall’occidente. Solitamente, Washington sarebbe quello che ne articolerebbe una molto più robusta, ma ciò non sta avvenendo.
Trump invece lancia colpi di retorica a raffica contro la Cina durante i suoi discorsi giornalieri sul virus. Sarebbe un errore vedere questi commenti come una difesa della democrazia. L’insistenza di chiamare il COVID-19 “virus cinese” è uno sforzo di propaganda domestica con obiettivi puramente politici nell’anno di rielezione. Egli fa ricorso ad un nazionalismo fuori moda con aperture xenofobe, cercando di suscitare i sentimenti patriottici e proteggere sé stesso dalle conseguenze negative della sua risposta iniziale alla pandemia, disastrosa. Trump ha bisogno di radunare i suoi sostenitori e cercare di persuadere ognuno che lui sta dando ascolto agli esperti veri, reali. Trump è particolarmente disperato dal momento che le sue affermazioni per cui la sua amministrazione aveva tutto sotto controllo con il coronavirus si sono rivelate rovinosamente errate, proprio quando si prepara a salire in sella alla sua campagna di rielezione.
Trump, tuttavia, sta contrastando la propaganda cinese in un solo modo. Egli è corretto nel far notare che Pechino è stata lenta a dire al mondo che il virus era iniziato in Cina. Che poi Trump stia utilizzando questa circostanza per proteggere sé stesso da accuse di incompetenza non rende il fatto meno vero.
Quando la crisi terminerà, la Cina avrà ottenuto degli importanti guadagni in termini di influenza geopolitica rispetto all’occidente, a meno che l’occidente non risponda rapidamente e spieghi la disinformazione.
La storia che la Cina sta raccontando al mondo non è solo quella di dove il virus è iniziato. I suoi media controllati dal governo hanno dichiarato esplicitamente che il sistema cinese è superiore, notando come i partiti politici negli Stati Uniti hanno litigato su come rispondere, indicando altre carenze negli Stati Uniti e più in generale nell’occidente. Il messaggio non è solo di una competizione tra superpotenze, è anche di difesa dell’autoritarismo come sistema più adatto ad affrontare le crisi più grandi, significative.
In altre parole, sono precisamente le pratiche autoritarie della Cina che hanno permesso che un’epidemia a Wuhan diventasse una pandemia.
È anche un fatto, che altre democrazie, come il Sud Corea o Taiwan, hanno gestito il contenimento della loro propria epidemia di coronavirus senza le misure alle volte brutali intraprese in Cina.
La propaganda aggressiva della Cina sul coronavirus si svolge su diversi fronti. Vi sono espressioni ostentate, altamente pubblicizzate della generosità di Pechino verso Paesi che patiscono il peggio della pandemia – con aerei cinesi che forniscono bancali pieni di forniture mediche, diligentemente ed estensivamente diffuso dai media cinesi. Non è una coincidenza che anche la Russia si sia unita, cercando di vendere il suo presunto successo nell’impedire la diffusione del virus e inviando anche carichi di forniture mediche.
Come qualcuno ha notato, è bene vedere gli aerei russi fornire aiuti umanitari in Italia invece di sganciare bombe in Siria. Ma da dove venga l’aiuto, da Pechino o da Mosca, non vi è questione, che sebbene benvenuto, la sua intenzione non sia puramente umanitaria.
L’Europa, i suoi Stati membri, dovrebbero mettere da parte il loro risentimento per il rozzo modo con cui Trump ha gestito la pandemia, ignorando i suoi molti dispetti contro gli alleati, e smascherare la narrativa anti-occidentale di Pechino.
L’affermazione della Cina che Pechino ha svolto un lavoro ammirevole nell’affrontare il COVID-19, mentre le democrazie non sono attrezzate per affrontarlo è semplicemente una menzogna. L’epidemia si è diffusa precisamente perché Pechino ha risposto ad essa come un regime autoritario.
Nessuna quantità di aiuto cinese ai Paesi che adesso soffrono per la pandemia dovrebbe oscurare questa circostanza.
In linea generale tutti i Presidenti degli Stati Uniti finora hanno dovuto trovare un equilibro tra interessi in competizione ed assegnare una priorità agli obiettivi per ottenere i risultati desiderati.
Criticare le particolari priorità che il Presidente ha identificato e come esse sono perseguite fa parte del dibattito politico, è giusto così.
Un’altra cosa è quando si cerca sistematicamente di demolire i presidenti degli Stati Uniti in carica, in cattiva fede, giudicandoli (e condannandoli) per risultati o avvenimenti che non sono in grado di dettare. In questo modo il gioco che si persegue è quello di aumentare aspettative fuorvianti di un ruolo che forse non è quello che gli Stati Uniti ricoprono nel mondo di oggi.
La verità è che il potere relativo degli Stati Uniti rispetto al resto del mondo, sebbene considerevole e duraturo, sta diminuendo, ed è così da un po’ di tempo.
I presidenti degli Stati Uniti possono ancora esercitare una considerevole influenza sul corso degli eventi, ma non sono più nella posizione di dettare i risultati (se mai lo siano stati).
Donald Trump si è insediato come Presidente degli Stati Uniti con poca se non alcuna comprensione delle fondamenta della politica estera degli Stati Uniti, e ha dimostrato poca volontà o capacità di istruirsi circa la complessità della gestione degli interessi globali americani.
Il suo fallimento di coordinare strategicamente i molti, disparati e spesso generalizzati fronti della sua agenda “America first”, assomiglia ad una comitiva che ruota attorno a sé stessa in maniera difensiva, che si spara addosso piuttosto che sparare all’esterno.
Gli Stati Uniti sono eccessivamente dilatati in termini di obblighi globali, particolarmente riguardo alle garanzie militari e di sicurezza che elargisce ai suoi alleati ricchi. Trump ha preferito politiche che impongono alti costi rispetto ai guadagni che cerca di realizzare.
Ci sembra del tutto inverosimile che la vasta gamma di tensioni e di conflitti che vi sono al giorno d’oggi, la politica del rischio calcolato, possano essere dovuti unicamente alla gestione catastrofica della politica estera americana o che la responsabilità risieda unicamente negli Stati Uniti. L’India ed il Pakistan sono perfettamente capaci di mantenere un conflitto vecchio di 70 anni sul Kashmir ad un alto stato d’allerta senza assistenza esterna. La politica cinese del “un Paese, due sistemi” che governa Hong Kong è insostenibile intrinsecamente ed è stata legata ad uno scontro per la sicurezza a causa della spavalderia di Pechino. E la lista potrebbe continuare.
Durante le ultime tre decadi, gli Stati Uniti hanno individuato una comoda e praticabile soluzione per gestire molti, se non tutti questi problemi: l’ordine internazionale liberale che è cresciuto dal blocco occidentale ed ha trionfato nella Guerra Fredda. Questo trionfo era però solo parziale in Cina e in altre parti dell’Asia dove i regimi comunisti hanno adottato delle caratteristiche di una economia capitalista ma non ideali liberali di governo, così come in parti centrali e a sud dell’Europa, dove le stesse dinamiche si sono manifestate negli anni recenti tra i governi post-comunisti.
Nel frattempo molti conflitti sopravvissuti alla Guerra Fredda, periodicamente riemergono per ricordarci che nessun ordine mondiale è così perfettamente egemonico da rendere lo scontro ed il conflitto obsoleto. La violazione da parte degli Stati Uniti delle regole del sistema che essi stessi hanno promosso, particolarmente con l’invasione in Iraq del 2003, hanno significativamente danneggiato sia l’ordine globale che il ruolo degli Stati Uniti in esso.
Nondimeno, l’ordine internazionale liberale ha ben funzionato nel piegare le tensioni che potevano condurre ad una guerra e contenere i conflitti dove emergevano. Gli Stati Uniti hanno chiaramente tratto beneficio dal sistema internazionale che hanno contribuito a costituire e sostenere per 70 anni.
Nel perseguire un approccio commerciale a somma zero nei confronti degli alleati e dei rivali, Trump ha “normalizzato” gli Stati Uniti in un modo che minerà la loro capacità di agire sia come giocatore che come arbitrio della politica globale.
Pur tuttavia, gli Stati Uniti di Donald Trump sono più un sintomo dell’ordine internazionale “sfilacciato” che un attore che impoverisce e aggrava il sistema globale.
Negli anni che verranno, vedremo più presidenti americani, ma anche cinesi, russi, indiani e altri leader che contribuiranno al disfacimento dell’ordine. La tendenza secolare sarà una di un declino del potere relativo degli Stati Uniti e della loro influenza e un panorama più competitivo per leadership regionali e globali.
Un mondo senza un gendarme, uno sbirro globale, anche se imperfetto, riluttante, inconsistente non lascerà blocchi, ostruzioni al proprio posto per evitare che crisi locali e conflitti si diffondano a livello regionale o anche globale.
Sarebbe un errore precipitarsi in conclusioni di ipotesi pessimistiche.
Ricordiamo che il sistema delle istituzioni internazionali di oggi, le convenzioni e le norme che governano il comportamento degli Stati, in parte, è cresciuto da campagne costruite ad hoc per portare avanti specifiche cause umanitarie, come il divieto dell’uso delle armi chimiche e la regolamentazione del trattamento dei combattenti e dei civili in guerra.
Cosa voglia dire un mondo post-Stati Uniti per gli Stati Uniti non è certo. La Gran Bretagna e l’Austria una volta si sono sedute sulla cima di imperi, così come la Russia, la Turchia e l’India. A quale di esse assomiglieranno gli Stati Uniti dipenderà da come gestiranno il loro declino. Che questo genere di riflessioni non trovino spazio in dibattiti politici imparziali è comprensibile. Posporre una così necessaria discussione, potrebbe avere, potenzialmente delle conseguenze rischiose.
Ciò dovrebbe far preoccupare se non altro per la fragile e instabile democrazia albanese.
Se l’Albania venisse coinvolta in uno dei conflitti geopolitici più pericolosi al giorno d’oggi, quello che contrappone l’Iran agli Stati Uniti, Arabia Saudita ed altri Stati del Golfo, la tempistica non potrebbe essere la peggiore, visto che il Paese è nel bel mezzo di una dichiarata crisi politica che in alcune occasioni è diventata violenta ed il cui risultato non è ancora chiaro.
Membro della NATO, l’Albania sta anche cercando da anni, senza successo, di entrare nell’Unione Europea; gli odierni disordini allontanano ancora di più tale obiettivo. A peggiorare la situazione è che la circostanza per cui la conflittualità interna ha trasformato l’Albania in un obiettivo invitante per attori maligni che cercano di trarre vantaggi da una nazione distratta e divisa.
Il MEK
Giuliani, assieme ad altre prominenti figure, incluso l’ex senatore americano Joe Lieberman e il conservatore inglese Matthew Offord, hanno dunque partecipato alla conferenza “Free Iran” del gruppo conosciuto come Organizzazione del popolo mujahedin dell’Iran e Mujahedin-e Khalq ovvero MEK. Gruppo ambiguo impegnato nel rovesciamento del regime teocratico iraniano, il MEK spesso è descritto come un culto e utilizzato per essere classificato dal Dipartimento di Stato americano come un’organizzazione terrorista.
Al momento i sostenitori principali del MEK lavorano per Trump e la sua amministrazione, collocando l’Albania nel bel mezzo del dossier iraniano. Forse il più grande sostenitore del MEK è John Bolton il consulente di sicurezza nazionale di Trump, il quale desidera che il MEK governi l’Iran.
Il MEK ha una storia strana e controversa. Esso è emerso come organizzazione marxista- islamista e milizia in Iran negli anni 1960 ed era devotamente anti-americano. Uccide i membri della polizia dello Scià e riveste un ruolo chiave nella sua caduta durante gli anni della rivoluzione del 1979. Tuttavia a seguito di aspre discussioni con le nuove autorità islamiche al potere viene esiliato dal Paese agli inizi degli anni 1980. Quando l’Iraq di Saddam Hussein entra in guerra contro l’Iran, il MEK – adesso opposto fervidamente alla Repubblica islamica dell’Iran – si schiera a fianco di Baghdad e finisce per costruire una base di operazioni in Iraq vicino alla frontiera con l’Iran, da cui conduce attacchi all’interno dell’Iran.
Quando le forze americane invadono l’Iraq e depongono Saddam nel 2003 il gruppo era ancora nel Paese; all’aumento vertiginoso del caos, gli agenti iraniani iniziano ad avere come obiettivo il MEK.
Obama e l’accordo per ricollocare i membri del MEK in Albania
L’amministrazione Obama rimuove l’organizzazione dalla lista di gruppi terroristi del Dipartimento di Stato nel 2012 e dopo una lunga e dispendiosa campagna di lobby a Washington da parte del MEK e dei suoi simpatizzanti, si conclude un accordo per ricollocare alcuni dei 3000 membri del MEK in Albania, un Paese entusiasta di mantenere forti legami con gli Stati Uniti.
Da quando si trasferisce in Albania, il MEK riceve minore attenzione internazionale, ma tutto cambia con l’amministrazione Trump. Figure chiavi di tale amministrazione sostengono il gruppo, alcuni come donatori, altri per convinzioni ideologiche: Bolton e Giuliani, in particolare, hanno promosso il gruppo come legittimo governo in esilio che dovrà sostituire la Repubblica islamica, anche se questo gruppo all’interno dell’Iran gode di poco sostegno.
I riflettori dell’amministrazione Trump puntati sul MEK senza dubbio attirano l’attenzione di Teheran come momento politico pericoloso in Albania.
La crisi politica in Albania
Il governo albanese è piombato nella crisi agli inizi di quest’anno quando i partiti di opposizione si sono ritirati dal Parlamento e hanno chiesto le dimissioni del Primo Ministro Edi Rama, accusandolo di corruzione, di manovre elettorali e di legami con il crimine organizzato.
La corruzione è endemica in Albania dalla fine del governo comunista, ma Rama gode del sostegno degli Stati Uniti e di molti Stati dell’Unione Europea.
La crescita della visibilità del MEK nel quadro della contrapposizione tra Trump e l’Iran potrebbe rendere l’Albania più vulnerabile che mai ad intromissioni esterne.
Le tensioni a Tirana si sono verificate lo scorso mese, dopo che un giornale tedesco, il Bild, pubblica delle conversazioni, parte di intercettazioni disposte dai magistrati che indicano che Rama ed il partito socialista tramano con i gruppi criminali per manipolare le elezioni nel 2016. Sia Rama che il suo partito negano tali fatti. Tuttavia i suoi oppositori scendono in strada e ne derivano dei feroci scontri con i manifestanti che lanciano le bottiglie molotov e la polizia che risponde con i cannoni ad acqua.
La situazione si deteriora ulteriormente quando l’opposizione dichiara che avrebbe boicottato le elezioni comunali di giugno. Il Presidente Ilir Meta annuncia che avrebbe cancellato il voto riprogrammandolo per ottobre, affermando che senza l’opposizione le elezioni non sarebbero state democratiche.
Il partito di Rama, invece si rifiuta di accettare la mossa del Presidente e asserisce che avrebbe iniziato le procedure di messa in stato d’accusa del Presidente. Quindi si è proceduto con il voto. La partecipazione elettorale si rivela essere minima. Mentre i vincitori delle elezioni sono pronti a prendere il loro posto, alcuni sindaci uscenti si rifiutano di lasciare il loro ufficio.
La scena politica albanese rimane turbolenta, carica di tensione e di teorie di cospirazione. Meta accusa Rama di essere uno strumento del “deep State” (un termine che si riferisce ad una sorta di Stato ombra) e che lavora assieme al filantropo miliardario George Soros per destabilizzare l’Albania e ristabilire una dittatura che includa il Kosovo.
In questo scenario tuttavia vi è una scadenza incombente per l’Albania: ad ottobre il Consiglio Europeo prenderà la decisione in merito all’inizio formale dei colloqui di adesione con l’Albania.
Gli scontri urbani, gli insulti e le teorie di cospirazione sembrano essere a sostegno della visione degli scettici per cui la democrazia albanese non è matura o abbastanza stabile per entrare nell’Unione Europea.
Se questo non fosse grave abbastanza, le complicazioni con l’Iran potrebbero fermentare nell’area della campagna albanese dove si trova il MEK, accrescendo i rischi di interferenza iraniana.
L’Iran registra un ben noto record nello scovare e assassinare dissidenti nel Medio Oriente e in Europa.
L’obiettivo del MEK resta il rovesciamento del regime iraniano, sebbene ora asserisca di aver rinunciato alla violenza.
Il potenziale per una nuova crisi in Europa e all’interno della NATO, con al centro l’Albania, è molto reale.
La rischiosa strategia nazionale iraniana assume un perfetto senso se viene vista come una forma di insurrezione, di rivolta.
L’insurrezione è spesso vista come una serie di azioni che compiono dei ribelli all’interno di un Paese con lo scopo di combattere il governo al potere o un esercito occupante. In realtà essa è un tipo di strategia utilizzata da una varietà di organizzazioni politiche, ed anche nazioni disperate e solitamente deboli.
L’insurrezione comporta la violenza – con forme spesso irregolari come attacchi di guerriglia, assassini, terrorismo, ma non equivale ad intraprendere una guerra convenzionale. L’azione armata è principalmente utilizzata per i suoi effetti psicologici, per dimostrare la forza del movimento insurrezionale e l’inettitudine di coloro che sono al potere.
Un trucco standard degli insorti è quello di utilizzare la violenza per provocare una reazione esagerata.
Gli insorti compiono qualcosa di drammatico: un grande attacco terroristico, un raid in una struttura della polizia o militare, l’assassinio di un alto funzionario governativo, sperando che le autorità al potere li attaccheranno. L’idea è che tale tipo di contro-attacco potrebbe danneggiare gli insorti nel breve periodo, ma fondamentalmente si rivelerà controproducente per chi lo compie se tale contro-attaccp condurrà a grandi perdite di vite o altre ritorsioni nei confronti dei civili. Il popolo quindi si rivolterà contro il governo e diventerà più empatico nei confronti degli insorti.
Ciò è esattamente quello che l’Iran sta facendo a livello strategico nazionale. Attacca non perché ritiene che possa sconfiggere o intimidire gli Stati Uniti, ma perché spera che l’America reagisca. La ritorsione di Washington aiuterebbe il regime iraniano a dipingere se stesso come una vittima dell’aggressione americana, mettendo a tacere il robusto malcontento interno, mentre ottiene compassione a livello internazionale.
Gli insorti spesso rivendicano di essere sia delle vittime che degli oppositori di un sistema di potere ingiusto che loro stanno combattendo allo scopo di cambiarlo. L’Iran non sta facendo nulla di diverso: dipinge il potere americano nel Medio Oriente come l’ultima forma di imperialismo nella Regione.
Il regime iraniano, come gli insorti in ogni parte del mondo, sta giocando il lungo gioco, cercando di alimentare un costante tumulto, ma evitando una guerra aperta con gli Stati Uniti che perderebbe. Gli insorti riconoscono sempre di poter sopravvivere: alla fine la situazione muterà a loro favore.
Allo stesso tempo, la pressione economica sul regime in ragione delle rinnovate sanzioni americane, parte della campagna di Trump denominata “massima pressione” ha aumentato il rischio di tolleranza di Teheran stesso, conducendolo ad azioni tipo l’abbattimento del drone di sorveglianza americano.
Il regime iraniano vede se stesso in un grave pericolo.
Se dunque l’Iran ha adottato la tattica dell’insurrezione come strategia di sicurezza nazionale, come dovrebbero rispondere gli Stati Uniti?
L’approccio americano alla contro-insurrezione è basato essenzialmente sull’assistenza al partner locale fino al punto in cui può affrontare gli insorti da solo. Tuttavia gli oppositori dell’Iran nel Medio Oriente non sono affatto deboli. Israele, Arabia Saudita e le più piccole nazioni del Golfo sono armate fino ai denti e perfettamente in grado di prevenire un’egemonia iraniana regionale da soli. Pur tuttavia fino ad ora sono stati capaci di convincere gli Stati Uniti a farlo a posto loro.
La classica “contro-insurrezione” non è una strategia efficace perché l’Iran ha ancora accesso alle risorse e al sostegno esterno, malgrado le sanzioni americane. Gli sforzi degli Stati Uniti di tagliare completamente fuori Teheran dai mercati petroliferi mondiali e dal mercato globale armi difficilmente porteranno frutto, almeno fino a quando la Russia, la Cina e l’India – tutte meno ossessionate dalle minacce poste dall’Iran piuttosto che da quelle degli Stati Uniti – si rifiuteranno di stare al gioco.
La contro-insurrezione spesso fallisce quando gli insorti hanno accesso alle armi o ad altre risorse dall’esterno.
La classica contro-insurrezione è fondata sul porre fine al controllo degli insorti su parti di un Paese così che il governo nazionale può prendersene carico. Tuttavia anche se gli Stati Uniti potessero causare il collasso del regime iraniano, non vi è nulla per rimpiazzarlo.
Coloro che desiderano a gran voce il collasso dell’Iran sembrano aver dimenticato troppo rapidamente le lezioni dell’Iraq. Il risultato più probabile sarebbe una guerra civile massiccia e disastrosa significativamente più pericolosa rispetto alle azioni dell’odierno regime.
La storia ci suggerisce che i movimenti politici o le nazioni che adottano la strategia dell’ “insorto” lo fanno solo per disperazione, perché essi sono troppo deboli per portare avanti i loro interessi in altri modi. Ed è proprio questa la situazione dell’Iran: il regime percepisce se stesso in grave pericolo, una visione che sembra essere confermata dalle precedenti azioni americane e dall’attuale politica dell’amministrazione Trump.
Sebbene Teheran preferirebbe mettere in sicurezza il proprio regime attraverso lo strumento militare convenzionale o attraverso il potere nucleare, non potendo allontanare gli Stati Uniti dal Medio Oriente in questi modi, continuerà con l’unica strategia disponibile: l’insurrezione regionale.
Guardando Paesi come l’Afghanistan o la Siria ci si potrebbe porre questa domanda: “come mai gli Stati Uniti sono intrappolati in questi conflitti o in situazioni di estrema fragilità statale e non solo non hanno alcune idee significative in proposito, ma neanche una visione chiara su come modificare l’approccio esistente?”
La cultura strategica
Una cultura strategica riflette il modo in cui una nazione si vede e identifica se stessa, particolarmente come definisce i suoi interessi, le sue priorità e le minacce più pressanti, come preferisce utilizzare i suoi elementi di potere nazionale – che sia la “soft power” come la diplomazia e l’influenza economica oppure il “potere militare forte”. Una cultura strategica quasi sempre riflette una cultura nazionale più ampia. Essa è, in un certo senso, la personalità di una nazione quando affronta il mondo esterno. In questo modo essa è sia un piano d’azione, che una strada chiusa, che, contemporaneamente chiarisce e limita le opzioni disponibili per i leader politici e militari.
La cultura strategica americana ha ineluttabilmente portato alla palude dell’Afghanistan e della Siria, in parte spingendo gli Stati Uniti verso un obiettivo semplicistico e che ha come punto centrale la componente militare.
Gli americani preferiscono le soluzioni militari a problemi complessi perché l’ambito militare è quello in cui gli Stati Uniti sono chiaramente superiori a qualsiasi avversario e perché le forze armate sembrano offrire il potenziale per risultati evidenti. Gli americani trattano le sfide complesse come “guerra” non perché sia il miglior approccio, ma perché sono bravi in guerra. In virtù di ciò porre lo strumento militare al centro è diventato parte integrante della cultura strategica americana.
Tuttavia, come ci mostrano i casi dell’Afghanistan e della Siria, i conflitti complessi sono quasi mai risolvibili attraverso l’impiego di forza armata limitata e, infatti, potrebbero essere per nulla risolvibili nelle circostanze che vi sono al giorno d’oggi.
Piuttosto che ammettere o accettare ciò, gli americani tendono a credere che se Washington persegue abbastanza a lungo una strategia al cui centro vi è lo strumento militare, essa alla fine funzionerà.
L’idea che gli Stati Uniti perdano quando si arrendono troppo presto ha inciso profondamente nella psiche collettiva americana.
La cultura strategica americana è anche permeata da un’ampia dose di massimalismo. Gli americani preferiscono sempre il meglio e il più grande, dalle case dove vivono, i pasti che mangiano, i veicoli che guidano. Nella strategia di sicurezza questo si manifesta come ricerca di risultati chiari e decisivi (grandi sforzi e grandi vittorie).
Spesso il massimalismo degli obiettivi strategici americani causa l’espansione di essi in un conflitto protratto. Allo scopo di chiarire questo passaggio prendiamo il caso dell’Afghanistan. Gli obiettivi originari degli Stati Uniti erano quelli di rovesciare i Talebani dal potere perché avevano fornito una base operativa ad Al Qaeda e di impedire che l’Afghanistan diventasse una sorta di rifugio per i terroristi transnazionali. L’obiettivo strategico americano è diventato quindi il controllo dell’intero Paese da parte di un governo democratico sostenuto dagli Stati Uniti; esso resta lo stesso obiettivo degli Stati Uniti oggi.
Prendiamo in considerazione l’altro caso: la Siria. L’obiettivo originario era di impedire che lo Stato Islamico creasse il suo Califfato il cui territorio sarebbe stato la base per il terrorismo transnazionale. Ora, l’obiettivo degli Stati Uniti è sì quello di eliminare in maniera definitiva lo Stato Islamico come organizzazione, ma anche quello di estirpare l’ideologia che lo alimenta, e per buona misura, limitare l’influenza iraniana nella Regione.
L’ironia sta nel fatto che sebbene gli Stati Uniti non possano e non siano neppure in grado di stabilizzare ogni luogo su questa terra, molti leader politici e anche diversi esperti di sicurezza, chiedano proprio a loro di fare ciò in Siria, ma non perché lo Stato islamico o l’Iran pongano una minaccia diretta agli Stati Uniti, ma semplicemente perché l’IS è un’organizzazione orribile e l’Iran un regime altrettanto orrendo.
Per anni, questa strategia massimalista, al cui centro vi era lo strumento militare è stata, virtualmente, incontrastata a Washington. Ora, essa viene posta in discussione e la motivazione per cui ciò avviene deriva proprio dalle situazioni, oramai diventate paludi, dell’Afghanistan e della Siria.
Modificare una tale strategia non è certo facile. Non è semplicemente una questione di abbandono di politiche massimaliste o incentrate sullo strumento militare, in favore di altri, differenti, mezzi.
Gli Stati Uniti, prima di sviluppare una strategia di moderazione, necessitano di una cultura strategica di limitazione che bilanci, attentamente, i costi e i rischi dell’utilizzo della proiezione di potenza nazionale. Gli americani devono prepararsi ad accettare che si possano raggiungere risultati tollerabili piuttosto che ottimali, ma i decisori politici degli Stati Uniti dovranno riconoscere, inevitabilmente, che la potenza della nazione che guidano contiene in sé dei limiti.
Alla domanda: “Qual è, nella politica internazionale, la sfida più importante che si pone in questo nuovo anno?”, la risposta è abbastanza facile: l’intensificazione della competizione tra Stati Uniti e Cina. Tuttavia vi è una sottile, ma drammatica prova a cui il sistema delle relazioni internazionali è sottoposto: il rapido deterioramento del quadro di controllo delle armi nucleari.
Gli Stati Uniti e la Cina sono in rotta di collisione nel sistema multilaterale dall’inizio dell’amministrazione Trump. Il Presidente degli Stati Uniti e i suoi consulenti sembrano condividere due percezioni basilari a proposito della politica internazionale. La prima è che la Cina è un competitore strategico ed economico totale che deve essere contrastato. La seconda è che le organizzazioni internazionali e la legislazione internazionale sono per natura faziosi nei confronti degli Stati Uniti e che c’è bisogno di tornare al passato o solamente ignorare le regole internazionali.
Non sorprende il fatto che funzionari americani di più alto livello abbiano ora unito questi due presunti problemi in un’unica ipotesi di lavoro: “la Cina sta utilizzando il sistema multilaterale per superare in astuzia gli Stati Uniti“.
Dunque, Washington mira a respingere Pechino su molti fronti, dalla proiezione di potenza nel Mare del Sud della Cina, allo sviluppo di intelligenza artificiale. La priorità numero uno è limitare la crescente influenza cinese negli organismi multilaterali.
Non vi è dubbio che, ultimamente, la Cina abbia acquisito molta influenza negli organismi multilaterali. Ironicamente una delle ragioni per cui Pechino ha aumentato la sua sfera d’influenza è l’allontanamento dell’amministrazione Trump da ampie porzioni del sistema delle Nazioni Unite; ciò ha creato lo spazio politico in cui la Cina, scaltramente, si è posizionata.
Sebbene i politici cinesi insistano nel non aver alcun desiderio di usurpare il ruolo degli Stati Uniti come leader globale, se Washington cercasse di minare la posizione raggiunta a livello multilaterale dalla Cina, lo scontro diplomatico che ne risulterebbe potrebbe paralizzare la cooperazione internazionale in ogni settore: dall’arbitrato sul commercio, alla gestione di scenari complessi come quello del Sud Sudan.
Il controllo delle armi nucleari mette a repentaglio l’architettura della sicurezza internazionale
Le tensioni sulle armi nucleari tra gli Stati Uniti, la Russia e le altre Potenze mettono a repentaglio molta dell’architettura di sicurezza internazionale. Gli Stati Uniti recederanno presto dal Trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces) per presunte violazioni da parte dei russi. Mentre Mosca respinge queste accuse, entrambe le parti sono occupate nell’ammodernamento dei loro arsenali nucleari.
Una competizione bilaterale questa in cui vi sono molte frizioni su come affrontare, attraverso meccanismi multilaterali, le sfide poste dalla proliferazione nucleare sia da parte della Corea del Nord che da parte dell’Iran. Cina e Russia non sono convinte della necessità di mantenere il pieno regime sanzionatorio previsto dalle Nazioni Unite per la Corea del Nord.
Lo sgretolamento dell’accordo con l’Iran sul nucleare, durante l’amministrazione Trump, potrebbe accrescere lo spettro del ritorno di Teheran al suo programma nucleare, allontanando ulteriormente gli Stati Uniti e le altre Grandi Potenze sulle modalità di risposta a tale possibilità.
Se i colloqui sul nucleare con la Corea del Nord, che spesso appaiono bizzarri, implodessero, l’amministrazione Trump potrebbe sfidare la Cina e altri giocatori a punire ulteriormente Pyongyang.
Non è trascurabile la circostanza per cui sarebbe abbastanza difficile che gli Stati Uniti redigano un accordo con la Russia sulla guerra nell’est dell’Ucraina, se le tensioni sul nucleare aumentassero, per non parlare di raggiungere un accordo decisivo e finale sul futuro della Siria con l’Iran e la Russia.
Sono più importanti, nel quadro del sistema internazionale, le rivalità locali, i conflitti che si generano per la percezione che un determinato gruppo ha di aver subito dei torti nei confronti di un altro gruppo, rispetto a quella che può essere la visione d’insieme di Washington o Pechino.
L’esistenza permanente di un sistema multilaterale che è in grado di impegnarsi efficacemente in crisi come quelle sopra menzionate, dipende necessariamente dall’accordo, almeno sulle forme basilari, di cooperazione e dalla fissazione di regole, tra le Grandi Potenze all’interno del sistema internazionale.
In questo inizio d’anno vi sono dei segnali preoccupanti che indicano che sia gli Stati Uniti che i loro rivali non vedano più nello stesso modo le regole del sistema multilaterale.
La strategia commerciale di Trump è difficile da determinare, sembra cambiare a seconda di quale consulente sia a lavoro e quale sia stato licenziato su base quotidiana. Pur sembrando incoerente, vi sono dei temi comuni. Sfortunatamente, questi temi sono basati su un’errata comprensione del funzionamento della politica commerciale.
Ci sembra utile chiarire tre realtà fondamentali sulla politica commerciale che Trump non sembra afferrare.
La prima: la politica commerciale non può, tranne che a un costo molto alto, annullare forze macroeconomiche ampie che determinano la crescita, la creazione di lavoro e l’equilibrio commerciale.
Secondo, conseguente a quanto appena detto, la politica commerciare è fondamentalmente redistributiva nei suoi effetti.
Terzo, la politica commerciale è molto più complicata oggi perché i moderni processi di produzione sono globalmente frammentati.
Trump è persuaso che i grandi deficit commerciali – bilaterali e complessivi – suggeriscono che gli Stati Uniti siano stati dei perdenti nelle passate negoziazioni commerciali. Infatti, non importa quanto brillanti siano i negoziatori statunitensi, le politiche commerciali hanno poco se alcuno impatto sugli equilibri di commercio.
I relativamente grandi deficit commerciali degli Stati Uniti sono il risultato del semplice fatto che gli americani consumano molto e risparmiano molto poco.
Essi compongono la differenza importando beni dal resto del mondo. Inoltre, i grandi tagli alle tasse e l’incremento della spesa che Trump ha spinto il Congresso ad adottare, presumibilmente renderanno le cose peggiori aumentando il divario tra i risparmi ed i consumi.
Le politiche economiche domestiche dell’amministrazione Trump contribuiranno a più alti deficit commerciali, non importa quali accordi di commercio negozierà. Imponendo nuove tariffe o altre barriere al commercio non aiuterà.
Nell’economia del commercio vi è la simmetria di Lerner: una tassa sulle importazioni funziona come un equivalente tassa sull’esportazione. Le barriere commerciali aumentano i costi per i consumatori delle importazioni e tendono a spingere verso l’alto la pressione sul tasso di cambio. Il risultato è che le esportazioni diventano meno competitive e tendono a scendere assieme alle importazioni.
Uno degli obiettivi di Trump è mettere in salvo o creare lavori, specialmente nel settore manifatturiero. Tuttavia, in realtà, i cambiamenti nella politica commerciale non riguardano il numero complessivo di lavori nell’economia. Piuttosto, il commercio sposta i lavori da settori protetti ad altri, di solito settori più competitivi dell’economia. Perciò, come è stato ripetutamente sostenuto quando l’amministrazione Trump ha imposto le tariffe sull’acciaio e l’alluminio in primavera, ci potrebbe essere un numero relativamente piccolo di nuovi lavori creati in questi settori. Ma molti di più, con molta probabilità, saranno perduti nelle industrie che utilizzano l’acciaio e l’alluminio perché i costi di queste imprese saliranno. Similmente, con un prodotto finale, come le automobili, i lavori verranno persi in altri settori, perché dover pagare un prezzo più alto per le automobili significherebbe che le persone avranno meno da spendere in altri beni.
La politica commerciale è essenzialmente redistributiva.
Trump utilizza il protezionismo per favorire le industrie domestiche rispetto a quelle straniere. Il protezionismo favorisce anche i produttori rispetto ai consumatori all’interno degli Stati Uniti; ed inoltre incoraggia il lavoro ed il capitale a spostarsi in settori più favorevoli e verso imprese di solito più efficienti. Ciò impone dei costi netti sull’economia nel complesso.
Trump sembra ignorare come i moderni processi di produzione per la maggior parte di beni manifatturieri funzionano, ovvero come essi interagiscano con accordi di commercio come l’Accordo North American Free Trade o il NAFTA. Con costi di spedizione più bassi e con migliori tecnologie di informazione e telecomunicazioni, le imprese multinazionali ottengono input da qualsiasi parte esse possono trovare la qualità e altre caratteristiche di cui hanno bisogno al prezzo più basso possibile – e poi assemblare il prodotto finale quando soddisfano questi stessi criteri.
Interrompere questi processi di produzione con barriere commerciali, di nuovo, aumenta i costi per i produttori americani e li rende globalmente meno competitivi. Accordi di commercio regionali come il NAFTA, dall’altra parte, permettono a questi processi di produzione di svilupparsi attraverso le frontiere abbassando ulteriormente i costi di trasporto e fornendo un margine competitivo per i produttori all’interno di un accordo.
Le tariffe su 36 miliardi di dollari in importazioni dalla Cina che l’amministrazione Trump ha annunciato saranno effettive il 6 luglio 2018 illustrano come la politica più dell’analisi economica sembra guidare la politica commerciale dell’amministrazione Trump. Tale azione (sezione 301 del Trade Act del 1974) correttamente mira a indurre la Cina a cambiare le politiche che favoriscono le sue imprese rispetto a quelle degli Stati Uniti e altri competitori, ma presumibilmente mancherà il bersaglio. Allo scopo di mitigare l’impatto sui consumatori, la lista degli obiettivi delle tariffe esclude l’abbigliamento, le calzature i telefoni cellulari e altri prodotti elettronici che sono chiave delle esportazioni cinesi. Ciò non eliminerà i costi ai consumatori, li renderà solo meno visibili. I lavoratori negli stabilimenti che utilizzano quelle importazioni soffriranno anche perché le imprese che li impiegano manipoleranno i loro processi di distribuzione per trovare fonti alternative. Anche se riusciranno a gestire ciò, i loro costi inevitabilmente saliranno e la competitività americana ne soffrirà. Oltretutto la Cina ha immediatamente annunciato che contrattaccherà imponendo delle tariffe su un simile ammontaredelle esportazioni americane.
La politica commerciale non può ridurre in maniera significativa i deficit commerciali e aumentare la protezione commerciale attraverso tariffe che non possono creare lavori in alcuni settori senza distruggerli in altri.
La politica estera e di sicurezza nazionale degli Stati Uniti ha seguito una strada peculiare. Malgrado le molteplici differenze tra Repubblicani e Democratici, vi era un profondo accordo sull’obiettivo generale e sulla logica strategica americana. Inoltre, la maggior parte dei leader politici e di coloro che influenzano l’opinione pubblica ritengono che per preservare l’ordine globale si debbano coltivare alleanze e si debba necessariamente lavorare assieme ad alleati e partner e che sia proprio questa la migliore strada per far avanzare gli interessi nazionali americani. A ciò si aggiungeva un accordo implicito che questa strada doveva essere percorsa e attuata attraverso un quadro di politica estera e di sicurezza nazionale guidato da leader eletti che avessero sviluppato una certa competenza sulle complessità del mondo e sull’arte di governare.
L’influenza era qualcosa che si guadagnava nel corso del tempo e pagando i propri conti. Per quanto possibile, gli accordi bipartisan erano la forma che assumevano le fondamenta dell’arte di governare.
Donald Trump adotta un’altra via
Sebbene la Strategia di Sicurezza Nazionale che ha pubblicato recentemente rifletta la tradizione e sottolinei l’importanza delle alleanze strategiche dell’America (vecchie e nuove) Trump ha fatto meno per coltivarle rispetto ai presidenti americani dagli anni 1920. La strategia di Trump è di punire o minacciare gli avversari di “seconda fascia” – Iran, Corea del Nord e IS – mentre ignora l’assertività o la palese aggressione da grandi potenze ostili.
Questa è un’ anomalia o la nuova normalità?
Molti commentatori asseriscono che Trump sia un’anomalia, titubante nella sua presidenza solo a causa delle imperfezioni profonde tra i suoi oppositori che ha affrontato nelle primarie repubblicane e più tardi nelle elezioni del 2016. Secondo questa linea di pensiero, dopo che lascerà l’incarico, le cose torneranno nel modo in cui erano.
Tutto questo potrebbe essere sbagliato.
Donald Trump ha compreso, nel senso vero e reale, lo spirito politico del tempo meglio dei suoi oppositori politici. Questo è particolarmente vero nel suo approccio alla politica estera e di sicurezza: un regno dove, malgrado la potenza espansiva, la prosperità e l’influenza degli Stati Uniti, la maggior parte del pubblico vede fallimento.
L’approccio di Trump dimostra la sua appassionata presa allo spirito del tempo.
Piuttosto che affidarsi all’esperienza e al bipartisan per raggiungere una posizione condivisa, che è poi spiegata al pubblico dai media eminenti che sono essi stessi composti da personale esperto, Trump sfrutta l’infatuazione americana per la celebrità. La sua politica estera e di sicurezza non è il frutto di consigli di esperti o potenti o la riflessione di un consenso costruito attentamente.
Essa è quello che il Presidente stesso considera importante ogni per giorno. Questa politica estera e di sicurezza nazionale si attorciglia e vacilla, ma ha una costante: è spiegata in un modo piacevole attraverso temi che trovano il favore della base politica di Trump: vincere e perdere, essere giusti e non essere giusti. Raramente è menzionato l’interesse nazionale dal momento che non è nella linea degli applausi.
Trump potrebbe essere il precursore di nuovi leader che afferrano anche il momento corrente, ma sono molto più competenti e non hanno il bagaglio etico e personale di Trump.
Tuttavia Trump non ha adottato tale approccio esclusivamente in ragione della sua personale ossessione per la celebrità. Piuttosto lui sta sfruttando lo spirito del tempo, ossessionato con la celebrità,dove il contenuto dei messaggi conta meno del loro valore di intrattenimento.
Trump capitalizza la sottovalutazione della competenza e il declino dell’autorità, imbrigliando una specie di populismo rozzo alimentato da internet, da programmi radiofonici e da dibattiti televisivi. Tutto questo eleva la celebrità sulla competenza e ha reso il contenuto della politica meno importante rispetto a chi l’ha confezionato.
Le stesse forze hanno distrutto il centro politico, guidando il discorso verso l’ iper-partisan e rendendo il consenso o il compromesso elusivi.
Trump riconosce anche che una porzione considerevole del pubblico crede che quello che essi stessi definiscono come cultura americana sia sotto attacco. In parte, ciò è influenzato da ondate di immigrazione da parti del mondo poco-sviluppate o da zone colpite da conflitti; e dall’altra parte da una crescente diversità culturale, raziale, etnica e religiosa degli Stati Uniti, che ha amplificato le paure tra la classe bianca industriale delle tute blu che hanno, negli anni recenti, perso il lavoro e i mezzi di sostentamento con profondi spostamenti economici e tecnologi. Per molti membri di questo gruppo, le loro sofferenze economiche sono connesse con i movimenti culturali che si manifestano nella diversità e attraverso l’immigrazione. Trump ha compreso ciò e l’ha sfruttato, orientando il cambiamento culturale e l’immigrazione in temi di sicurezza nazionale, dal suo muro di frontiera al divieto di entrare negli Stati Uniti.
Trump, da solo, non ha creato questo culto della celebrità, l’era di iper-partisan, o il senso di frustrazione di una cultura sotto attacco. Ma ha capitalizzato su tutto questo, sviluppando uno stile di leadership che riflette tutto questo. Ciò ci suggerisce che Trump non è, in effetti, un’aberrazione.
L’immigrazione e la migrazione potrebbero essere istituzionalizzate come temi centrali di sicurezza. Preservare la cultura nazionale – i termini di cui saranno fortemente dibattuti – potrebbero diventare più importanti che gli interessi nazionali nel senso tradizionale. La scissione chiave che guida la politica estera e di sicurezza potrebbe non essere più l’ideologia o le sfide all’ordine mondiale – condotto dagli Stati Uniti – provenienti dalla Cina e dalla Russia. Invece, esso potrebbe essere la divisione creata da nazioni avanzate che cercano di preservare la loro prosperità e cultura erigendo esse stesse un muro e tagliandosi fuori dal resto del mondo.
Se ciò accadrà, gli storici futuri potrebbero vedere Donald Trump non come anormalità, ma qualcos’altro: un’onda su cui si muovono gli Stati Uniti, verso una nuova, imprevedibile e verosimilmente, spaventosa direzione.