Conflitto israelo-palestinese si risolverà?
Chi studia strategia, conflitti, ha una responsabilità non solo verso gli studenti nell’offrirgli strumenti validi ed utili per essere i futuri decisori politici, ma verso tutti quelli che non sono del settore perchè i conflitti contemporanei sono composti anche dalla sfera della società civile che non può sempre approfondire come facciamo noi analisti di politica internazionale ed è necessario che abbia a disposizione un quadro, un contesto, per potersi orientare e contribuire (sì anche se si è fisicamente lontani dal conflitto) alla trasformazione del conflitto, vale a dire che la contraddizione che ha innescato il ciclo di conflitto sarà affrontata e riconciliata in maniera tale che non sarà più l’innesco della polarizzazione e quindi della violenza.
La teoria dei conflitti, degli studi strategici, si avvale di anni di lavoro di studiosi provenienti da tutte le parti del mondo e non raramente sento dire: “eh la teoria…a che serve se poi in pratica non si realizza niente“… “eh la teoria è per insegnare, per lavorare serve la pratica“…“eh la teoria è per quelli che stanno seduti non per quelli che stanno sul posto a sporcarsi le mani“.
Per non ricalcare i discorsi (che io non sopporto) di quelli che elencano le missioni sul campo, mi limito a dire che:
nella mia esperienza professionale ho potuto constatare “sporcandomi le mani o i piedi” che senza la teoria che offre contesto e strumenti, la pratica risulta in qualcosa che, al meglio, è inefficace se non addirittura sortire l’effetto contrario a quello desiderato. Il punto è che se non sono consapevole delle dinamiche dei conflitti così come sono, non per quello che io immagino o percepisco in maniera soggettiva, non sarò in grado di individuare uno scenario che mi porti verso la risoluzione del conflitto stesso. Oppure ne individuerò uno che fallirà, o peggio non farò nulla perchè “non mi riguarda”. Anche solo veicolare una informazione adeguata, corretta e scientifica (eh si la strategia, la risoluzione dei conflitti, sono scienze) metterà in moto una serie di dinamiche e processi che altrimenti non troveranno spazio. La consapevolezza è una parte della risoluzione dei conflitti per quanto leggerlo potrà sembrarvi strano.
Il conflitto israelo-palestinese è un conflitto intricato.
I conflitti intricati sono quelli in cui tentativi di un contenimento pacifico, accordo e trasformazione hanno fallito (nei conflitti cosiddetti bloccati – frozen – vi è una qualcosa di simile ad una gestione pacifica, ma essa è superficiale ed è soggetta a collassare di nuovo).
I conflitti intricati sono stati oggetto per anni di studio da parte degli specialisti.
Nella risoluzione dei conflitti vi sono degli approcci sovrapposti :
– la negoziazione per un accordo politico;
– la risoluzione dei problemi interattiva;
– il dialogo per una comprensione reciproca;
La negoziazione per un accordo politico è associata con accordo di composizione di conflitto, il dialogo per una comprensione reciproca con la trasformazione del conflitto e la risoluzione dei problemi interattiva – storicamente il fulcro dell’approccio di risoluzione dei conflitti – costruisce un ponte tra le altre due.
Evidentemente la quintessenza di questo conflitto intricato è composta da molti elementi a diversi livelli ed è il punto fondamentale, primario della complessità sistemica di un conflitto transnazionale. Se deve essere fondamentalmente trasformato richiederà cambiamenti tra i settori – economico, politico, sicurezza, sociale, psicologico – e livelli – domestico, regionale, globale.
Consapevolezza del disaccordo radicale
Invece di licenziare dall’inizio il disaccordo radicale come un mero superficiale “dibattito antagonistico” , “dibattito competitivo”, dovremmo considerarlo seriamente come il principale impedimento alla complessiva risoluzione dei conflitti.
Dovremmo riconoscere che nei conflitti intricati, malgrado le considerevoli trasformazioni raggiunte con i gruppi di dialogo, con i workshop sul dialogo e la risoluzione dei problemi, non si è verificato un cambiamento sostanziale, vale a dire la contraddizione tra le parti in conflitto è rimasta tale.
La maggior parte degli israeliani e la maggior parte dei palestinesi hanno perso fiducia in questi approcci e nel dialogo per una comprensione reciproca, lasciando ampio spazio per una normalizzazione dell’oppressione che ignora l’asimmetria del potere.
Molti israeliani considerano tali approcci privi di scopo in ragione, dal loro punto di vista, della passata inaffidabilità dei palestinesi e in ragione di una più grande urgenza nell’affrontare altre questioni sia domestiche che estere.
Nei conflitti intricati la norma è la resistenza al contenimento, all’accordo e alla trasformazione, averne consapevolezza è il primo passo per individuare alternative.
Il dialogo agonistico come lo definisce lo studioso Ramsbotham, ovvero dialogo tra avversari è parte del disaccordo radicale in cui le parti in conflitto direttamente si impegnano nelle affermazioni reciproche. Il dialogo antagonistico non è altro che la guerra delle parole ad un livello più profondo.
Uno degli impedimenti più debilitanti è il gap tra le élite del processo decisorio e i livelli di società popolare. Ancora ed ancora accordi stipulati a porte chiuse a livelli di élite.
In direzione opposta, possibilità e visioni, idee al livello base della società con le sue radici che non penetra nelle gerarchie politicizzate di partiti o nelle istituzioni politiche ufficiali e di sicurezza. Questa è una delle principali ragioni del perché il processo di Oslo ha iniziato a perdere il momentum a metà degli anni 1990.
Si discute spesso di approcci dal basso, ecco se ne discute, senza la consapevolezza che il dialogo agonostico avviene tra le parti in conflitto, tra élite al potere. Il livello della società è tagliato fuori. La società è il livello base dove del resto il conflitto accade.
Sempre perchè la teoria deve necessariamente essere il ponte con la pratica, le persone che sono colpite da una bomba, sono parte di questo livello base che non penetra nelle gerarchie delle élite politiche. Le persone che devono spostarsi e poi sperare di tornare. Le persone che hanno perso tutto compreso i familiari. Anche le persone che non sono vittime della guerra, ma compongono il resto della società di una delle parti in conflitto, sono state ascoltate? Siamo sicuri che siano d’accordo con le élite al governo? Le abbiamo ascoltate, entrano negli scenari di risoluzione dei conflitti o sono solo notizie che poi vengono manipolate per il dialogo agonistico? Sono queste alcune delle domande da porsi.
La domanda a questo punto è: cosa servirebbe?
Gli studiosi hanno suggerito il “pensiero strategico”. Detto così, sembra qualcosa di estremamente bello a livello teorico, ma del tutto irrealizzabile nella pratica. Cosa ci faccio con questo impegno strategico, che vuol dire, praticamente che si deve fare?
Per iniziare tracciamo una importante differenza. La manipolazione strategica o pianificazione strategica è compiuta in segreto o in privato, accompagnata dall’esercizio controllato della persuasione del pubblico. Essa è caratteristica di versioni di “strategia” ideologica, partitico-politica e commerciale.
Un confronto tra possibili scenari che elencano tutti i vantaggi da una parte e tutti gli svantaggi dall’altra è chiaramente un segno caratteristico della manipolazione strategica perché le situazioni non sono quasi mai così nette.
Il pensiero strategico, in contrasto, valuta, confronta le opzioni strategiche e paragona i pro e i contro. Incoraggia in modo deliberato una critica dallo stile “avvocato del diavolo” delle strategie favorite, allo scopo di verificarle per debolezza e incoraggia la creatività conservando la flessibilità strategica.
Invece di iniziare tra le parti in conflitto iniziamo all’interno delle parti in conflitto.
Invece di iniziare dove terze parti vogliano che il conflitto sia, iniziamo dal punto in cui le parti in conflitto chiedono dove sono, dove vogliono andare e come vogliono arrivare lì.
Impegno strategico può aiutare a portare a galla questioni che altrimenti sarebbero scomparse dal radar pubblico.
Spesso il punto critico sia nella perpetuazione del conflitto che nel fallimento dei tentativi di risoluzione e nel suggerire possibili nuove configurazioni è: “tutti sanno come un accordo finale sarà” ed è ciò che si sente comunemente affermare nel conflitto israelo-palestinese.
L’impegno strategico mostra che nessuno sa come sarà un accordo finale. Questo è il problema. Anche in relazione ai dossier familiari nei tentativi ripetuti nel 2000, 2001, 2004, 2007, 2014 come la determinazione delle frontiere future, il legge di ritorno (diaspora ebrea) il diritto di ritorno (diaspora palestinese), lo status di Gerusalemme, gli accordi di sicurezza, la gestione delle risorse economiche, le concezioni restano in contrasto . Non vi è accordo su cosa voglia dire “stato palestinese”.
Il pensiero strategico apre ai possibili piani B, a possibilità future che per quanto remote possano essere – la soluzione due stati, la federazione con la Giordania – non entrano nel dibattito e anche se si rivelano essere catalizzatori critici nelle percezioni tra rischi e benefici, in realtà aprono al dialogo su qualcosa di nuovo che altrimenti resterebbe assente.
In sostanza, se io non propongo altri scenari, considerando l’ “interno” di ciascuna parte, proponendo varie possibilità, non avrò mai sul tavolo quello scenario per cui le parti converanno. Quello scenario per cui la contraddizione tra le parti in conflitto che ha generato la violenza sarà affrontata in maniera significativa, vale a dire non sarà più il punto da cui si aprirà la polarizzazione e tutto il ciclo del conflitto.
Se non considero l’interno di ciascuna parte, vale a dire chi e cosa vuole ogni componente di ciascuna parte in conflitto, non potrò elaborare nuove possibilità. Evidentemente considerare le parti in conflitto come blocchi monolitici sempre uguali a se stessi, ignorando che all’interno di esse vi sono altre parti, mi renderà intrappolato in un ciclo di conflitto che si ripete.
Affrontare l’asimmetria del conflitto
L’asimmetria quantitativa (una parte del conflitto è più grande dell’altra) pone problemi, ma essa è significativamente aggravata quando vi è anche l’asimmetria qualitativa (ad esempio una parte in conflitto è un governo e l’altra no). Questo significa che queste parti in conflitto stanno perseguendo obiettivi strategici interamente differenti. Ad esempio, la fondamentale questione strategica per Israele nel conflitto israelo-palestinese è: perché Israele dovrebbe arrendersi? Laddove la fondamentale questione strategica dei Palestinesi è: come possono i palestinesi trasformare lo status quo?
Al cuore del pensiero strategico vi è la questione dell’equilibrio del potere. Chi prevale? A chi è accordata più importanza tra le parti in conflitto?
Ci facciamo aiutare dal lavoro di Kenneth Boulding e Joseph Nye che ci dicono che esistono differenti tipi di potere da essere messi a confronto. Nel conflitto israelo palestinese, Israele ha una schiacciante forza militare ed economica così come il sostegno delle più grandi potenze mondiali. Ma anche i palestinesi hanno potere, il potere della legittimità internazionale, molto rafforzata nell’ultima decade, al punto che un gran numero di paesi sostengono il principio di uno Stato di Palestina. Come risultato la Palestina è già uno stato non-membro osservatore delle Nazioni Unite. Questo è un trionfo della strategia palestinese.
Anche qui, sono davvero consapevole di queste dinamiche di potere e strategia?
Chiarire il ruolo delle terze parti
Da una prospettiva di negoziazione strategica, le terze parti non sono neutrali, imparziali o disinteressate. Le terze parti anche le cosidette parti trasformative vogliono cambiare i discorsi delle parti in conflitto in modo che siano differenti da come erano prima. Anche loro vogliono “vincere”. Questo è la ragione per cui l’intervento di terze parti anche se all’inizio è benvenuto, spesso finisce con entrare in contrasto con tutte le parti in conflitto. Le parti in conflitto si aspettano che le terze parti li sostengano, quando non lo fanno le parti in conflitto entrano in contrasto con loro o possono entrambe convenire che le terze parti non comprendono per nulla la situazione.
Alla luce di ciò occorre riconoscere di non essere neutrali, imparziali o disinteressati.
Dunque è necessario che le terze parti analizzino il sistema complesso esistente, valutandone le forze e le debolezze, paragonando possibili scenari, determinando gli obiettivi di breve e lungo termine, allo scopo di preparare strade alternative, trovare alleati strategici, adattare e valutare mezzi strategici.
Se il classico schema di cui parlavamo all’inizio della risoluzione dei conflitti ha fallito di produrre i suoi effetti per decadi e decadi, non è possibile licenziare la questione con “è lontana” o con interventi di “aiuto/sostegno” che non sono utili ad affrontare la contraddizione. In questo schema che oramai si ripete da anni, la contraddizione innescherà nuovamente la polarizzazione quindi la violenza vale a dire la guerra. Neanche vale l’affermazione: “non c’è nulla da fare”, perchè l’impegno strategico è proprio questo: individuare altri scenari, non dialogo tra le parti in conflitto. ma all’interno delle parti in conflitto. La consapevolezza che le terze parti non sono neutrali e disinteressate. Qui allora potremmo sentirci dire: e quindi? Che si fa? Si cambia schema, o meglio si inizia da un altro punto, dal dialogo all’interno delle parti in conflitto, dall’essere consapevoli che le terze parti nutrono i propri interessi, che gli spazi vuoti che lasciano i gruppi estremisti possono essere riempiti da gruppi potenzialmente più radicali di quelli precedenti, ma di questo parleremo nel prossimo post.