Mali: il conflitto che non trova pace
Fin dagli inizi del 2017, più di 1200 civili, per la maggior parte di etnia Fulani, sono stati uccisi negli scontri nel Mali centrale.
La violenza viene perpetrata, spesso, utilizzando questa tattica: uomini armati conducono raid letali bruciando i villaggi e rubando tutto il bestiame che possono. Questo tipo di violenza è attribuibile ai membri delle cosidette milizie di autodifesa create dai gruppi etnici Dogon e Bambara, sebbene anche gli estremisti islamici e i soldati con la complicità dell’esercito del Mali abbiano condotto assassini.
In risposta a ciò anche i Fulani hanno creato i loro propri gruppi di autodifesa i quali sono stati implicati nella morte di dozzine di Dogon.
Per lunghi anni si sono verificate tensioni tra le differenti comunità del Mali centrale per l’accesso alla terra e alle risorse idriche, attriti esacerbati dai cambiamenti climatici.
Le milizie di autodifesa sono, relativamente, un nuovo fenomeno. Molte di esse si sono formate nel contesto del conflitto che è iniziato nel nord del Paese nel 2012, l’anno in cui gli estremisti islamici hanno preso il controllo di metà del Mali. I ranghi delle milizie di autodifesa hanno continuato ad ampliarsi in risposta alle uccisioni extragiudiziali ad opera delle forze di sicurezza del Mali e la relativa assenza dello Stato nella Regione.
Human Right Watch rivela che nel giugno del 2018 nell’attacco a Gourou la milizia di autodifesa conosciuta come Dan Na Ambassagou, ha aperto il fuoco su dozzine di abitanti del villaggio nel momento in cui stavano riunendosi per un battesimo nella casa del capo villaggio. Sebbene il motivo preciso dell’attacco sia ignoto, Human Right Watch nel suo rapporto fa notare che Gourou è nota per l’abbondanza di bestiame e che dopo l’attacco, i miliziani hanno depredato gli animali così come le riserve di cibo e i gioielli.
Questo tipo di violenza rappresenta l’ultima manifestazione dell’insicurezza cronica che affligge parti del Mali da più di una decade.
Non vi è solo la sfida della sicurezza che il governo del Presidente Ibrahim Boubacar Keita, salito al potere nel 2013 e rieletto lo scorso anno, deve affrontare. Oltre alla violenza etnica nel Mali centrale, l’amministrazione Keita è alle prese con una ribellione Tuareg di lungo corso nel nord del Paese e con la crescente rete di gruppi estremisti islamici che possono condurre attacchi in ogni luogo del Paese.
In questo ambiente di fragile sicurezza, i funzionari governativi stanno cercando di stabilire un equilibrio tra riconciliazione e giustizia; sostenuti dalle Nazioni Unite e da donatori internazionali, hanno intrapreso una serie di iniziative per cercare di andare oltre il conflitto. Azioni che includono il disarmo, una Commissione di Verità, e sforzi per portare i perpetratori davanti ai giudici e rompere il ciclo di impunità.
I gruppi armati
Il conflitto in Mali, che per molte persone non è mai realmente terminato, è iniziato nei primi mesi del 2012, quando l’etnia Tuareg nel nord del Paese, marginalizzata, ha lanciato una rivoluzione e dichiarato il suo proprio Stato indipendente – Azawad -, che comprendeva tutto il nord Mali.
I ribelli avanzavano velocemente, spingendo fuori un esercito del Mali poco equipaggiato e disorganizzato. Infuriati con l’allora Presidente Amadou Toumani Toure per la sua incapacità di gestire la crisi, un gruppo di soldati, a Bamako, organizzano quello che alcuni hanno descritto come un “coup accidentale”, marciando verso il Palazzo presidenziale incitando Toure alla fuga.
La confusione prodotta da tale evento ha come conseguenza l’ulteriore intensificazione del conflitto, con i Tuareg che perdono quasi i due terzi dei territori, per poi vedere gli stessi territori e con essi la loro ribellione, sottratti dai gruppi armati estremisti islamici.
Gli estremisti islamici prendono il controllo delle città di Kidal, Gao, Timbuktu, impongono la legge della Shariah nella loro maniera e modalità, ma quando essi minacciano di avanzare su Bamako agli inizi del 2013, la Francia invia le sue truppe che, con l’aiuto degli alleati africani, riprendono rapidamente il controllo delle città del nord del Mali. Tuttavia anche se i gruppi estremisti islamici si erano ritirati nelle aree rurali, essi restano una presenza giacché da questa parte del Paese migrarono nelle parti centrali.
Nel 2015 colloqui di pace tenuti ad Algeri producono un accordo tra le tre parti principali: il governo del Mali, i gruppi armati arabi e Tuareg pro-indipendenza facenti parte del Movimento di coordinamento Azawad; gruppi armati pro-governativi indipendenti dalle forze armate del Mali. L’accordo prevede l’utilizzo di due strumenti principali per dirigere il conflitto verso la fine: disarmo e giustizia transitoria.
La componente disarmo comprendeva il consentire ai gruppi armati di deporre le loro armi ed essere integrati nell’esercito del Mali o ritornare alla vita civile. Uno degli obiettivi di questo sforzo di integrazione era quello di creare un esercito nazionale che poteva essere più rappresentativo della società del Mali, vale a dire meno dominato da coloro che abitavano il sud del Paese.
A nord un totale di 36,000 combattenti di diversi gruppi armati si registrano per il disarmo; di questi solo 15,000 sono parte del processo perché registrati con un’arma; gli altri si presentano soltanto con munizioni.
Il processo di disarmo prevede la creazione di un’unità speciale denominata “Meccanismo operativo di cooperazione” composta da tre battaglioni: uno a Timbuktu, uno a Gao e uno a Kidal.
Nei primi giorni del gennaio 2017, quando 600 membri del battaglioni stavano aspettando il loro primo impiego, i gruppi estremisti islamici fanno esplodere la loro caserma, uccidendo 77 persone, nell’attacco più sanguinoso che sia mai accaduto sul territorio maliano. L’attacco, rivendicato dal Gruppo al-Mourabitoun legato ad Al Qaeda, ha sottolineato una delle più grandi minacce all’accordo di pace: il fatto che i gruppi estremisti islamici restano la più grande sfida alla sicurezza e al disarmo.
Il Sistema giudiziario
La presa del potere da parte dei gruppi estremisti islamici ha spinto molti giudici alla fuga verso il nord del Paese, altri sono stati attaccati prima che potessero scappare, molti uccisi o rapiti. Gli estremisti hanno creato un sistema di giustizia parallelo che ha distrutto la già fragile infrastruttura giuridica della Regione. Malgrado la firma dell’accordo di Algeri, la persistente insicurezza ha avuto delle serie conseguenze nelle azioni volte a ristabilire la legge e l’ordine nel nord del Mali. A settembre dello scorso anno, secondo la missione delle Nazioni Unite di peacekeeping, un terzo dei giudici nel nord non si trovava al loro posto di lavoro, mentre coloro che erano impiegati non andavano spesso a lavoro ovvero venivano ricollocati per ragioni di sicurezza.
Allo scopo di mantenere in funzione il sistema di giustizia durante il conflitto, la Corte Suprema ha trasferito la giurisdizione per alcuni crimini commessi nel Nord ai due tribunali a Bamako – uno per i reati di violenza sessuale e l’altro per i crimini legati al terrorismo. Nel 2015, la Corte Suprema ha ripristinato la giurisdizione per i tribunali del Nord, ma essi non erano operativi. Come risultato, la documentazione di molti casi giaceva ancora nei tribunali a Bamako che non avevano l’autorità legale per perseguire i criminali.
L’accordo di Algeri prevede la creazione di una Commissione di Verità, Giustizia e Riconciliazione per fare luce sugli abusi di diritti umani commessi dal 1960, quando terminarono circa sette decadi di governo coloniale francese. La Commissione doveva creare una politica di indennizzo ed indagare le cause alla radice del conflitto.
La Commissione ha iniziato ad ascoltare i testimoni nel 2016 e ha raccolto più di 10,000 accuse di illeciti da tutto il Paese, tuttavia deve ancora iniziare le indagini per produrre un rapporto con le raccomandazioni indirizzate alle autorità.
Così come per i tribunali, la mancanza di sicurezza ha investito le operazioni della Commissione. L’apertura dell’ufficio a Kidal è avvenuta solo lo scorso mese e i membri della Commissione sono riluttanti nello spostarsi a nord perché ritengono di poter essere obiettivo dei gruppi estremisti islamici.
I tribunali locali e la Commissione non sono gli unici apparati che indagano i crimini commessi in Mali. Una commissione d’indagine internazionale, con mandato delle Nazioni Unite, al momento nella fase di pianificazione, indagherà crimini di guerra, crimini contro l’umanità e la violenza sessuale legati al più recente conflitto allo scopo di produrre un rapporto per il Segretario generale delle Nazioni Unite per l’ottobre 2019.
Ciò che più preoccupa è una legge promossa dal Presidente Keita, per concedere l’amnistia a coloro che presero parte alla ribellione del 2012. L’amnistia si applicherebbe a tutti i reati, anche ai crimini di guerra, i crimini contro l’umanità e la violenza sessuale. Secondo i termini della proposta di legge, gli ex combattenti avrebbero sei mesi per ammettere i loro crimini e deporre le armi ai giudici, sindaci e commissari di polizia.
Il voto era previsto per dicembre, ma il dibattito è stato rimandato ad aprile dopo proteste di organizzazioni non governative internazionali.