Novembre 9 2016

Trump Presidente degli Stati Uniti: la democrazia fa paura?

Trump

Trump Presidente degli Stati Uniti. La democrazia è anche questo.

Gli Stati Uniti sono una Repubblica presidenziale, gli americani, in un unico giorno, hanno espresso il loro voto. Hanno scelto tra due candidati: uno rappresentava il partito democratico, l’altro il partito repubblicano. Ha vinto Donald Trump. Punto. La democrazia è questo.

Svegliandomi presto stamattina, ancora un po’ intontita ho iniziato a leggere i vari commenti degli italiani sui social. Forse era meglio lasciar perdere. Dunque io capisco la voglia di far sapere al mondo intero cosa si pensa dell’elezione del Presidente degli Stati Uniti, posso comprendere (anche se con fatica) che oggi tutti vogliano dire che Trump è il Male quello con la emme maiuscola pur non avendo idea dei programmi dei due candidati.

Quello che però sfugge dalla mia limitata comprensione è perché un italiano dovrebbe criticare l’elezione di Trump.

La democrazia, detto in soldoni, è quel sistema che ti permette a te cittadino, consociato, appartenente alla comunità di scegliere chi deve rappresentarti, chi deve governare la cosa pubblica.

Noi, in Italia, una Repubblica parlamentare, siamo tristemente famosi per esprimere un voto e poi ritrovarci al governo tutte altre persone: i rimpasti, i partiti che si sono presentati alle elezioni che poi scompaiono, simboli che cambiano, individui che esprimono ideologie afferenti alla destra che poi si siedono in poltrone di sinistra e viceversa. Noi siamo quel paese dove i delinquenti si sono seduti in parlamento per anni. Fare i primi della classe, ecco non lo capisco.

Dobbiamo prepararci al voto del 4 dicembre, un voto importante, il cui rischio è che nel nostro paese venga ridotta drasticamente ogni forma di democrazia e stiamo lì a scrivere che Trump è il Male.

Gli Stati Uniti hanno un sistema elettorale valido, noi no.

I cittadini degli Stati Uniti, hanno scelto il loro Presidente.

Noi scegliamo i nostri parlamentari ci aspettiamo che il Presidente della Repubblica nomini il Presidente del Consiglio seguendo il risultato elettorale, seguendo le fasi delle consultazioni e pufff abbiamo un governo e un presidente del Consiglio dei Ministri che non sono il frutto di un risultato elettorale.
Noi non votiamo più.
Sulle ricadute di politica internazionale della presidenza Trump ne parleremo quando farà le sue scelte.

Ricordo infine che durante la presidenza Obama di ben 8 anni, sui temi di politica internazionale, per fare giusto qualche esempio, si sono fatti sfuggire di mano i ribelli in Siria, lo “Stato islamico” è diventato un’organizzazione grande e forte, in Libia proprio Hillary Clinton ha contribuito con la sua scellerata azione a rendere la Libia quello che non è.

 

Novembre 7 2016

Mosul: la riconquista e dopo? Qualcuno ci ha pensato?

Mosul

Nei giorni successivi al lancio dell’operazione per la “liberazione” di Mosul mi sono venute in mente queste domande:

“la battaglia per riprendere il controllo di Mosul dallo “Stato islamico” è iniziata, ma qualcuno ha pensato al dopo? Siamo sicuri che si tenga in considerazione l’estrema razionalità dei comandanti militari dello “Stato islamico”? E se gli Stati Uniti volessero utilizzare la ritirata dei combattenti del gruppo estremista islamico per erodere le vittorie russe in Siria?”

Proviamo a ragionare sulle possibili risposte, ma prima facciamo un riassunto della situazione per chi si fosse perso alcuni momenti.

Il riassunto:

La battaglia per cacciare i combattenti estremisti dalla città è la più grande operazione sul terreno in Iraq dall’invasione americana del 2003.
Alla fine della settimana scorsa le forze speciali irachene hanno dichiarato di aver ripreso sei distretti ad est di Mosul.
Il territorio ripreso dal governo è ancora solo una frazione della vasta città che è divisa in dozzine di distretti residenziali ed industriali, casa di 2 milioni di persone.
In un comunicato diffuso la settimana scorsa, il leader dello “Stato islamico” ha dichiarato che non ci sarà ritirata in una “guerra totale” contro le molteplici forze che combattono contro il suo gruppo, esortando i militanti a rimanere fedeli ai loro comandanti.
I 2 milioni circa di persone che vivono a Mosul rischiano di restare intrappolati nel mezzo di una brutale guerra urbana. I militanti estremisti hanno ucciso già centinaia di persone, 50 disertori e 180 ex impiegati del governo iracheno nei dintorni di Mosul. Hanno trasportato 1,600 persone dalla città di Hamman al – Alil (sud Mosul) a Tal Afar ad ovest, presumibilmente per usarli come scudi umani contro i bombardamenti e hanno imposto ai residenti di consegnare i bambini maschi sopra i 9 anni, in un apparente processo di reclutamento di bambini soldato.
Il numero delle persone che hanno lasciato le loro abitazioni dall’inizio della “campagna di Mosul” è arrivato a 30,000.
L’operazione dello “Stato islamico” per infiltrare il centro di Kirkuk attraverso Havika e collegarsi con le loro cellule dormienti nella città è stato il più importante sviluppo delle operazioni dei giorni 21-24 ottobre. A questo hanno fatto seguito informazioni e resoconti che indicano lo “Stato islamico” contro-attaccare a Rutbah nella provincia irachena di Anbar, non molto lontano dalla frontiera del paese con la Siria e la Giordania. Il 24 ottobre un attacco del gruppo estremista islamico contro Sinjar, che domina la strada vitale da Mosul alla Siria, è stato bloccato dalle forze yazide sostenute dagli aerei americani.

Le forze Hashd ash-Shaabi (unità di Mobilitazione Popolare) prevalentemente sciiti, si sono aggiunti alla campagna sabato, il loro compito è tagliare allo “Stato islamico” la via di rifornimento dell’ovest verso la Siria.

Mosul: le sfide e le insidie

La vera vittoria nella battaglia di Mosul potrebbe richiedere mesi o ancora settimane ma più difficile sarà la lotta politica. Le forze irachene devono mantenere la loro unità nel lungo periodo e deve essere concordato un più ampio accordo politico: qui non c’è molto margine per essere ottimisti.
Le sfide militari nell’operazione di Mosul sono considerevoli. Sebbene i militari americani abbiano stimato che ci siano soltanto dai 3,000 ai 4,500 combattenti dello “Stato islamico” a Mosul, paragonati alle decine di migliaia dei membri delle forze di coalizione, escludendo il vantaggio della potenza aerea americana, i militanti del gruppo estremista godono di considerevoli vantaggi all’interno della città: il territorio urbano è un incubo per le forze che attaccano.
Bisogna considerare che lo “Stato islamico” ha avuto tempo per prepararsi. Dopo che il gruppo ha preso il controllo di Mosul nel 2014, i militanti del gruppo hanno disseminato bombe e scavato tunnel, questi ultimi visti come la creazione di linee di comunicazioni e rifornimenti sicure pur avendo i droni che volteggiavano sulle loro teste. Più di un milione di civili sono letteralmente mescolati ai militanti, circostanza che complica gli sforzi della coalizione.

Una significativa insidia è rappresentata dalla variegata e variopinta accozzaglia di forze offensive.

Le forze che attaccano rappresentano un vero “chi è chi” delle multiformi forze armate e milizie. I curdi iracheni hanno capeggiato gli attacchi iniziali, “ripulendo” i villaggi ad est della città.  Hanno giocato un ruolo importante anche i membri delle tribù sunnite, le unità dell’esercito iracheno (specialmente la sua forza d’elite di contro-terrorismo) e le milizie sciite.

Questo miscuglio è un problema

I sunniti dominano Mosul e vedono il governo iracheno e specialmente le milizie sciite come ostili, le forze sostenute dall’Iran. Questo è del resto, anche se in parte, il motivo per cui molti locali hanno accolto lo “Stato islamico”, due anni fa, quando ha preso il controllo della città; sebbene poi molti si siano irritati per il governo brutale del gruppo.

I curdi reclamano parti di Mosul, altre minoranze come gli yazidi, gli assiri e i caldei rivendicano aree dentro o vicino a Mosul come storicamente parte delle loro terre natie. Per tutto questo gli americani stanno cercando di limitare i ruoli dei curdi e delle forze sciite, anche se queste forze sono tra le più competenti militarmente.

L’unità delle forze offensive durerà?

Le differenti fazioni hanno dunque  visioni divergenti e competitive di quello che l’Iraq dovrebbe essere.

I sunniti vedono un governo centrale forte come una minaccia per i leader locali di controllare le aeree locali e per ottenere supporto finanziario dal governo centrale.

I curdi aspirano ad un alto grado di decentralizzazione se non completamente indipendenza e vogliono controllare le aree popolate dai curdi anche quando i curdi sono insieme alla popolazione araba irachena.

I gruppi sciiti iracheni credono che la loro comunità, la più grande dell’Iraq, dovrebbe governare il paese e molti  politici sciiti dipingeranno ogni concessione alla minoranza sunnita come una svendita ai terroristi e ai loro sostenitori.

Il collasso del prezzo del petrolio e la corruzione irachena insieme alla cattiva gestione economica in generale rendono difficile per il governo riconoscere i sostenitori.

Alla diminuzione della minaccia dello “Stato islamico” corrisponderà una continua lotta da parte delle fazioni irachene per ottenere ciò che vogliono.
Inoltre, il governo di Abadi non ha un forte sostegno in tutte le comunità irachene e i sunniti locali e i curdi vorranno un più alto grado di autonomia.

Qualcosa che non si può controllare: 

il 23 ottobre, l’esercito iracheno e i peshmerga* dovevano lanciare attacchi simultanei sullo “Stato islamico” dagli assi di avanzamento, ma l’esercito iracheno semplicemente non ha attaccato. Non è chiaro il motivo.

Con un significato potenzialmente più grande: gli Stati Uniti hanno poca potenza aerea nella regione per soddisfare tutte le necessità richieste per il suo supporto alle forze di terra. Il 20 ottobre, gli Stati Uniti non hanno fornito alcun supporto aereo alle forze curde. Non è chiaro il perché, ma il personale americano sul campo si lamenta del fatto che semplicemente non ci sono abbastanza tempi aerei disponibili. Questo potrebbe rivelarsi un problema importante nel momento in cui i curdi e gli iracheni avanzeranno lungo 5 assi di attacco. Siccome i curdi e gli iracheni sono diventati pericolosamente dipendenti dai bombardamenti americani per avanzare, la potenza aerea della coalizione sembra essere spinta in troppe direzioni per sostenere troppe operazioni, lasciando troppo poco per molti settori e niente per altri. E se fosse fatto apposta? Una vera e propria strategia americana? Continuate a leggere e vi spiegherò il perché.

Lo “Stato islamico” cercherà di trarre vantaggio da tutti questi problemi. Si prepara ad andare sul terreno per ricominciare la sua campagna di assassinii contro i leader sunniti che vede come collaboratori e altri avversari; strategia che utilizzò con successo dopo il 2011 dopo essere stato devastato dalla campagna di contro-terrorismo guidata dagli Stati Uniti. Il gruppo estremista e altri gruppi con simili ideologie prenderanno di mira gli abusi del governo e delle forze sciite facendo leva sulla generale insoddisfazione dei sunniti.

Quindi anche se la battaglia di Mosul ha successo militarmente, proclamare la vittoria sarebbe una mossa da evitare. Le vittorie potrebbero essere invertite o almeno minate, perché probabilmente lo “Stato islamico” utilizzerà la sua postura di gruppo terroristico transnazionale per lanciare attacchi in altri paesi.
Sebbene sia impossibile sapere con certezza le intenzioni del gruppo estremista, sembra che l’attacco a Kirkuk del 21 ottobre sia stato un attacco a lungo pianificato. Il gruppo è “famoso” per tentare la rappresaglia orizzontale: attaccare da qualche altra parte per compensare una perdita, come l’assalto a Ramadi dopo che la coalizione aveva ripreso Tirkit nel 2015.

I piani post liberazione? Mistero!

Uno degli aspetti più sorprendenti e forse tragici dell’operazione è che si conosca poco o niente di piani post-liberazione: per la sicurezza, il governo e la ricostruzione di Mosul.

Nessuna della parti curde, nessuno dei gruppi iracheni coinvolti nell’operazione, né i turchi né la forza di Mobilitazione Popolare sono consapevoli che ci sia un piano specifico a riguardo. Tutti dichiarano di aver ricevuto istruzioni in termini generali e non gli è stato chiesto di firmare un piano più dettagliato. I curdi si sono accordati per tenere i peshmerga a diversi chilometri di distanza dalla città e lasciare l’assalto in sé alle forze di sicurezza irachene. Ai leader di altri gruppi che parteciperanno all’operazione sono stati assegnati settori di assalto e fornite direttive su cosa gli altri faranno per prendere la città, ma niente su quello che accadrà quando la città sarà presa.
Tutto ciò sembra suggerire che gli Stati Uniti hanno deciso di permettere al governo iracheno di prendere la guida del post liberazione di Mosul e gestire la situazione. Mossa che contiene considerevoli rischi. Il governo iracheno ha mostrato solo una modesta capacità di condurre questo tipo di operazioni. L’entità dell’operazione e la necessità di seguire le manovre correnti simultaneamente da altre parti potrebbe far inabissare le capacità del governo iracheno. Inoltre, perseguire questo tipo di approccio potrebbe anche dire giocare a dadi con i vari attori al di fuori del pieno controllo del governo iracheno: Hashd ash-Shaabi, Atheel al – Nujayfi – le guardie di Nivive – varie tribù sunnite, il partito dei lavoratori curdi, i turchi. In assenza di un piano concordato e condiviso che da ad ognuno di questi attori una missione ben definita e i confini sia geografici che operativi, alle loro attività ognuno potrebbe scegliere di prendersi tutto quello che vuole.

La domanda che ci si pone è se lo “Stato islamico” resisterà a Mosul per mesi come ha fatto a Fallujah e a Ramadi o si scioglierà senza apporre una forte e sostenuta resistenza.

Lo “Stato islamico” sembra essere acutamente cosciente dell’esistente battaglia che affronta contro i peshmerga, le tribù arabe sunnite della provincia di Ninive, le forze regolari e le milizie sciite. Il gruppo estremista islamico mostra segnali di voler di lanciare una nuova ondata di terrore con contro-attacchi e con autobomba e attacchi suicidi.
Sembra abbastanza probabile che lo “Stato islamico” cerchi di creare una guerra civile etnico-settaria in Iraq mandando uomini e donne suicida nei luoghi religiosi sciiti e nelle moschee e nei territori disputati come Kirkuk e quelli tra Erbil e Baghdad.
Analizzando la prima settimana dell’operazione di Mosul si nota che per ritardare l’avanzata del nemico nel centro di Mosul, lo “Stato islamico” ha fatto ricorso, nei villaggi vicini, ai cosiddetti attacchi “colpisci e scappa”. Più di 20 attacchi con veicoli bomba sono stati registrati nella periferia di Mosul dall’inizio dell’operazione. Per lasciare senza poteri la massa delle forze della coalizione intorno a Mosul, il gruppo estremista islamico li ha distratti con operazioni a Kirkuk e a Rutbah, che senza dubbio hanno un alto valore simbolico. In breve: lo “Stato islamico” è determinato a rimanere e combattere.

La leadership militare dello “Stato islamico” aderisce a strategie militari razionali, in contrasto con i suoi militanti sul terreno, che sono motivati da ideologie salafiste/jihadiste con una visione apocalittica.

Abbiamo visto quanto siano razionali i comandanti militari del gruppo estremista, quando il 16 ottobre, invece di cercare di difendere l’importante simbolo di Dabiq contro l’assalto del Free Syrian army appoggiato dalla Turchia, si sono ritirati verso al-Bab. Il comando militare dello “Stato islamico” ha agito razionalmente durante il loro periodo di difensiva da gennaio a giugno e stanno agendo razionalmente adesso che sono sotto una pesante pressione.

Dunque, se è questo il caso cosa dice il pensiero militare razionale per Mosul?

Molto semplice: difendere più che puoi. Minare le intenzioni offensive del nemico. Dettare il ritmo. Rendere il combattimento statico. Espanderlo su un lungo periodo in modo da rompere la coesione del nemico che già appare come un assortimento di forze. Se non c’è necessità di ritirarsi, non esitare a raggrupparsi organizzarsi e colpire di nuovo.

Con questa linea di pensiero molto probabilmente lo “Stato islamico” resisterà a Mosul il più a lungo che potrà e poi evacuerà la città in fasi e muoverà la sua forza principale a Deir ez-Zor e Raqqa o nel terreno rurale popolato dai sunniti di Diyala.

Non sembra che il gruppo estremista islamico sia pronto a concedere Mosul facilmente. Un’indicazione che il gruppo intende combattere duramente per Mosul, ci è fornita dall’esecuzione di 60 prigionieri e dal divieto di cellulari e connessioni internet.
Poi c’è l’ampia realtà di centinaia di posizioni di combattimento del gruppo fortificate da bombe sulla strada, tunnel, cecchini e uomini e donne suicida.
Se i militanti dello “Stato islamico” non potranno porre fine all’assedio di Mosul con la loro resistenza, si faranno la barba, si mescoleranno ai civili e ai combattenti stranieri e si ritireranno in altri luoghi per riorganizzarsi. Il terreno rurale di Diyala, con le sue caratteristiche desertiche, le sue colline, fornisce un luogo ideale per riorganizzarsi.
Se lo “Stato islamico” perdesse Mosul,  la Siria, l’Iraq e il resto del mondo devono essere pronti ad avere a che fare con il fenomeno dello “Stato islamico” senza Stato e con un territorio in diminuzione. Ci si dimentica della parte transnazionale del gruppo e si sottovaluta forse l’incremento delle attività di propaganda  in paesi vicini come la Giordania e la Turchia a seguito di perdite di territorio. Lo “Stato islamico” potrebbe, verosimilmente, spostare le proprie attività in Turchia per addestrare e esportare cellule in altri paesi.

Sembra probabile che se perdesse Mosul, il gruppo modificherà la sua strategia di combattimento e si attivi in modalità “clandestina” incoraggiando le sue operazioni di propaganda nel cyberspace e sposti le attività di addestramento in Giordania e in Turchia mentre incrementerà gli atti di terrore per veicolare il messaggio: “siamo ancora forti”.

Se lo “Stato islamico” diventasse più un’organizzazione terroristica “clandestina”, potrebbe diventare un proxy rilevante nello sviluppo della lotta di potere Stati Uniti-Russia in Siria ed Iraq.

Gli Stati Uniti fanno il doppio gioco?

Gli Stati Uniti vedono che con il coinvolgimento della Russia, l’esercito siriano ha svolto meglio i suoi compiti e sta per porre fine alla battaglia di Aleppo. Per indebolire i militari russi e degradarli economicamente, gli Stati Uniti potrebbero mettere in pratica l’opzione di non annientare lo “Stato islamico” a Mosul, ma lasciare che si ritiri in Siria attraverso il fianco occidentale di Mosul, che è stato lasciato aperto. Se questo schema funzionasse, i combattenti dello “Stato islamico” si riorganizzerebbero a Raqqa – Deir ez-Zor così da formare una linea difensiva tale da impedire alle forze del presidente siriano Assad di attraversare l’est della linea Aleppo – Palmira.
Gli Stati Uniti permettendo ai militanti dello “Stato islamico” di ritirarsi in Siria da Mosul potrebbero sperare di utilizzare l’organizzazione per erodere le vittorie militari della Russia e del regime di Assad.
Ci si chiede se gli Stati Uniti non stiano ridisegnando un nuovo Afghanistan in Siria per esaurire militiarmente ed economicamente la Russia.

* il nome si traduce in “coloro che affrontano la morte”. Sono i combattenti curdi nel nord dell’Iraq. Quindi non è necessario scrivere “peshmerga curdi” perché la parola “peshmerga” indica già chi sono.

Ottobre 29 2016

Venezuela: verso l’abisso dell’autoritarismo

Venezuela

Venezuela: sempre di più nell’abisso dell’autoritarismo. La resistenza civile potrebbe essere una soluzione se sostenuta dalla comunità internazionale.

Venezuela: la situazione politica

Il Presidente Maduro ed il suo governo socialista stanno muovendo costantemente il paese verso l’abisso. Sebbene Maduro sia stato eletto con voto popolare nel 2013 il sistema di governo del Venezuela non può più, ragionevolmente, essere denominato “democrazia”.

La scorsa settimana il Consiglio nazionale elettorale ha ordinato all’opposizione di fermare la pressione per il referendum popolare sul governo Maduro. L’opposizione si è adoperata con grande fatica nell’ottemperare a tutti gli stringenti requisiti necessari per indire il referendum, disposizioni contenute nella Costituzione del Venezuela che però fu scritta sotto la stretta supervisione di Chavez.

Nel momento in cui l’opposizione si prepara a lanciare la campagna per le firme di massa, le autorità elettorali dichiarano di aver riscontrato irregolarità e fermano l’intero processo. Questo vuol dire che il partito unito socialista di Maduro (PSUV) resterà al potere fino alla fine  del 2019.

Se il referendum venisse tenuto prima del 10 gennaio e Maduro perdesse, si dovrebbero tenere delle nuove elezioni immediatamente. Se invece si tenesse dopo questa data, la costituzione delega il vice presidente a portare a termine il mandato che appunto scade nel 2019.

Con il paese che affonda sempre più nella disperazione, l’opposizione ha aggrappato le sue speranze alle disposizioni costituzionali che permettono, per plebiscito, di rimuovere un presidente eletto. Quando il Consiglio elettorale ha frantumato le speranze sul plebiscito, l’opposizione si è riunita in una sessione d’emergenza e ha dichiarato che Maduro ha condotto un coup d’état, accusandolo di aver distrutto l’ordine costituzionale in un assalto contro “la costituzione e il popolo venezuelano”. Quindi ha stabilito di lanciare il procedimento di messa in stato d’accusa contro di lui.
A questo punto il governo dichiara che è stata l’Assemblea Nazionale ad aver condotto il coup, cercando di far decadere il presidente legittimo del paese.

Nel momento in cui l’Assemblea dibatteva la messa in stato d’accusa del Presidente, i militari dichiarano di stare a fianco di Maduro. Tutto ciò non è una sorpresa dal momento che Maduro e prima di lui, Chavez, si sono assicurati che le fila dei militari fossero riempite da loro fedelissimi.

Il governo ha preso il controllo di praticamente tutte le istituzioni, mentre la Suprema Corte, dominata dai socialisti ha fatto diventare l’Assemblea Nazionale un apparato simbolico, per il quale ogni disputa di grande importanza in chiave elettorale diventa un oltraggio alla Corte.

Maduro, inoltre, ha assunto i poteri d’emergenza che gli permettono di aggirare la legislatura, infatti recentemente ha unilateralmente promulgato un nuovo budget nazionale.

I venezuelani si riversano nelle strade come hanno fatto anche il 26 ottobre, ma il governo risponde con misure che esacerbano le tensioni rendendo una pacifica soluzione politica sempre più difficile.

Venezuela: la vasta crisi umanitaria

La crisi che assume un carattere sempre più nefasto travolge i venezuelani in una rapida spirale economica che ha già devastato le condizioni di vita dei cittadini creando una vera e propria crisi umanitaria di larga scala.

Il tasso di povertà in Venezuela è salito al 75% della popolazione; la povertà è cresciuta di pari passo con il deterioramento economico e sociale.

Il crimine è balzato alle stelle e milioni di persone sono affamate per la mancanza di cibo, medicine e di ogni prodotto immaginabile.

Secondo Human Right Watch il Venezuela è nel mezzo di una profonda crisi umanitaria peggiorata da un risposta del governo inadeguata e repressiva.
Il Fondo Monetario Internazionale predice che l’economia si contrarrà per un altro 10% quest’anno, con un’inflazione al 475% che quadruplicherà l’anno prossimo.

Malgrado molti osservatori sono d’accordo nel ritenere che la principale causa del collasso economico siano le politiche economiche errate, l’inettitudine manageriale e la corruzione, Maduro continua a dare la colpa al “complotto capitalista”.

Venezuela: il dialogo è la via di uscita dalla crisi?

La crisi in Venezuela ha creato allarme tra i paesi vicini e gli osservatori. Lunedì scorso, dopo le pressioni di Papa Francesco, Maduro ha dichiarato di essere d’accordo nel tenere colloqui con l’opposizione. Tuttavia ci sono flebili speranze che ciò accada e che produrrà risultati.

Per i governi vicini in particolare, il dialogo è ancora visto come la migliore via per tentare di risolvere la crisi venezuelana. L‘Unione delle Nazioni sud americane ha sponsorizzato uno sforzo di mediazione da parte degli ex presidenti di Panama (Martin Torrijos), della Repubblica domenicana (Leonel Fernandez) e l’ex primo ministro spagnolo (José Luis Zapatero). Papa Francesco ha intrapreso un ruolo prominente nel processo di dialogo, annunciando un nuovo inviato della Santa Sede l’arcivescono Emil Paul Tscherrig in Venezuela. La Santa Sede ha il vantaggio di essere uno dei pochi attori esteri che gode del rispetto sia del governo venezuelano che dell’opposizione. Persino l’Argentina, il Brasile, la Colombia ed il Messico sempre più critici per la deriva non democratica del paese ritengono che la migliore soluzione sia il dialogo.

Non è chiaro se ci sia qualcosa che il governo voglia discutere

Le recenti decisioni di sospendere la richiesta di referendum e le elezioni dei governatorati sono state pessime scelte per il governo. Per cui andare incontro alle richieste dell’opposizione, come il rilascio dei prigionieri politici o riconoscere i diritti costituzionali e le prerogative della legislatura sembra piuttosto improbabile.

Le proteste contro il regime del 26 ottobre hanno incontrato l’ampia repressione (fuori dalla capitale Caracas) della polizia e della Guardia Nazionale che hanno lavorato insieme con organizzazioni informali paramilitari chaviste conosciute come colectivos.

Interessante che il regime abbia deciso di aumentare il suo braccio repressivo affidandosi ai paramilitari piuttosto che all’esercito regolare; conseguenza delle latenti spaccature all’interno delle forze armate venezuelane.

Fondamentalmente, Maduro e il suo circolo non possono rischiare negoziazioni che potrebbero condurre alle elezioni come programmato originariamente che quasi certamente perderebbero.

Perdere il referendum, qualora si dovesse tenere entro quest’anno, vorrebbe dire nuove elezioni presidenziali, con il rischio che funzionari del regime coinvolti in corruzione, traffico di droga e abusi dei diritti umani siano resi responsabili di tali crimini.

Svolgere le elezioni nei governatorati vuol dire per Maduro un altro rischio per se stesso. Ad oggi, la maggioranza dei governatori in Venezuela provengono dal suo partito politico e sono la chiave per mantenere il potere del regime ed eseguire i suoi piani. Le elezioni quasi certamente rovescerebbero questa situazione ed il trasferimento di molte istituzioni a livello statale nelle mani dell’opposizione.

Resta difficile cogliere la ragione per cui il regime di Maduro dovrebbere correre il rischio di perdere l’impunità di cui gode oggi per impegnarsi in un dialogo significativo o permettere le elezioni.

Sono molto abili nel ponderare il rischio di permettere che istituzioni democratiche funzionino (presumibilmente conducendole a perdere potere) contro il costo di imporre un regime autoritario; costo, al momento, non molto alto per il regime, ma sempre più mortale per i venezuelani.

Ciò vuol dire che l’opposizione ha bisogno di incrementare i costi del regime nella sua odierna traiettoria autoritaria.

La resistenza civile

Nel libro: “Why Civil Resistance Works: the Strategic Logic of Nonviolent Conflict” di Erica Chenoweth e Maria J. Stephan (Columbia University Press) si afferma che le campagne di resistenza attiva sono più efficaci quando attraggono il supporto di massa, quando producono delle defezioni all’interno del regime al potere, quando coordinano l’uso di tattiche variegate e flessibili per aumentare la pressione sulla dittatura.

L’opposizione in Venezuela

Organizzata sotto il nome di Tavola rotonda di unità democratica (Mesa de Unidad Democrática – MUD) è stata in grado di riunire un grande numero di manifestanti. Tuttavia non è in grado di porre pressione sui servizi di sicurezza o indurre membri del governo a riconsiderare il loro sostegno a Maduro. Il MUD detiene il 54% del supporto tra i venezuelani, ma la sua unità è messa spesso a dura prova da disaccordi sulla strategia.

Che fare?

La società civile e politica potrebbe iniziare ad incrementare il sostegno alla resistenza civile dell’opposizione. Ciò include la fornitura di consulenti, incoraggiarli a sviluppare una campagna sostenibile. (Negli anni ’70 questo sostegno fu cruciale e potrebbe rivelarsi ancora tale).

Gli Stati potrebbero continuare ad alzare i costi, dove possibile, per l’amministrazione Maduro e i suoi sostenitori nel governo e nei servizi di sicurezza per il comportamento repressivo. Sanzioni precise, azioni penali, congelamento dei beni. L’azione diplomatica degli Stati di condanna alla deriva autoritaria del Venezuela è diminuita fortemente.

Una campagna di resistenza civile prolungata da parte dell’opposizione ed il sostegno internazionale dovrebbero cambiare l’equazione costi/benefici del regime di Maduro nel portare avanti l’attuale strategia. Fondamentalmente il cambiamento in Venezuela arriverà dall’interno.

È utile tenere a mente che le campagne civili di resistenza sono spesso lunghe e difficili: trascorsero 8 anni dalla fondazione del movimento Solidarność che portò dalla transizione alla democrazia in Polonia nel 1989.

Senza l’alterazione dell’equazione costi – benefici per il regime, è improbabile che il dialogo in Venezuela generi risultati significativi.

 

Ottobre 15 2016

NATO: il suo versante ad est è più prezioso di quello a sud

NATO

Il rafforzato impegno della NATO in Europa Centrale e dell’Est ha un valore diplomatico e simbolico. Tuttavia c’è il rischio che il “fianco sud” dell’Alleanza da dove emana la minaccia dei gruppi estremisti riceva troppe poche attenzioni.

Ogni tanto, quasi ciclicamente, in Italia si riapre un discorso oserei dire sciocco sullo status di membro del nostro paese nella NATO. Notizie e fatti già noti vengono ripescati, rimescolati e confezionati ad hoc per qualche attimo di notorietà in più. Detesto sinceramente, ma anche educatamente, coloro che buttano la parola “guerra” qua e là, nei titoli, per attivare le masse in un rincorrersi di parole al vento. Detto questo cerchiamo insieme di rimettere ordine nelle valanghe di notizie tipo “l’Italia va in guerra/non è la mia guerra/ ci portano in guerra” e di capire cosa succede. In particolare, di riflettere sulla circostanza che la NATO destini troppe poche attenzioni alla minaccia che emana da gruppi estremisti nel suo versante sud.

Per chi se la fosse persa, vi ricordo che nel giugno di quest’anno la NATO ha condotto: Anaconda-16, la più vasta esercitazione NATO che si è svolta in Polonia dalla fine della Guerra fredda. Non mi pare che questa circostanza abbia turbato i benpensanti nostrani.

https://youtu.be/vOn4FkrwWeQ

Il summit NATO a Varsavia 8-9 luglio 2016

La scelta della città non è stata, evidentemente, casuale nelle menti dei leader dell’Alleanza: il paese dove la percezione della minaccia dell’aggressione russa è particolarmente acuta. A Varsavia dunque è stato deciso di rimpolpare la presenza della NATO nell’Europa Centrale e dell’Est, decisione che sia la Polonia che i suoi partner regionali chiedevano fosse attuata dall’Alleanza  da quando la Russia si è annessa la Crimea nel 2014 ed ha iniziato la sua incursione in Ucraina. 4 battaglioni composti dalle truppe degli Stati membri della NATO, incluso: Inghilterra, Germania, Canada, Italia e Stati Uniti si dispiegheranno (a rotazione) in Polonia e nei tre Stati Baltici: Estonia, Lituania e Lettonia che vi ricordo sono Stati membri della NATO.

Questi dispiegamenti non saranno permanenti e realisticamente non saranno abbastanza per trattenere una invasione su vasta scala della Russia.

L’impegno della NATO in questa parte dell’Europa è importante diplomaticamente e simbolicamente.

Crea quello che io chiamo “filo d’inciampo” per gli Stati Uniti e il coinvolgimento dell’Europa occidentale nell’eventualità di un’invasione russa: le truppe russe che invaderebbero la regione dovrebbero ingaggiare truppe americane e di altre potenze militari, che in teoria li porterebbe immediatamente in guerra. Circostanza assai rischiosa anche da un punto di vista economico per Putin.

Precedentemente l’art.5 della NATO sulla difesa collettiva era generalmente visto come una garanzia sufficiente. Ed è qui che le visioni differiscono: è importante avere i piedi sul terreno per garantire la sicurezza della regione o basta mostrare i muscoli con esercitazioni come Anaconda ’16? Sebbene nel contesto dell’incontro di Varsavia i 28 Stati membri della NATO hanno raggiunto un livello di accordo e di mutua soddisfazione quasi sorprendente, mi chiedo: “un approccio così unito, nel lungo termine si potrà mantenere?” Credo che sia parecchio difficile.

La NATO sta anche incrementando la sua presenza militare in Romania, con una brigata multinazionale che staziona nel paese.

La Romania è sempre stata, storicamente, scettica nei confronti della Russia; Bucarest ha una delle forze armate più capaci nella regione al di fuori della Polonia. La Romania, dal canto suo voleva più che una brigata multinazionale, ma l’aspettativa è che il paese vedrà un incremento delle attività militari della NATO, o almeno degli Stati Uniti, nei prossimi anni.

NATO: il versante est vince sul versante sud

La decisione della NATO di accrescere la presenza  nel suo versante est è stata vista da molti, soprattutto dal vice ministro della difesa polacco, come un nuovo elemento del concetto di difesa collettivo, aggiungendo che la “presenza in avanti” è il secondo pilastro della deterrenza.

Come non comprendere le istanze della Polonia e dei Stati baltici; la Russia non si è mai dimenticata di far notare la sua presenza facendo alzare in volo i suoi aerei militari lungo la frontiera con i paesi NATO, o le rapide esercitazioni. Queste mosse di Mosca sono viste e percepite dagli Stati baltici come dimostrazioni, sì di forza militare, ma contenenti in sé il rischio di poter subito intensificarsi.

Lo “spazio Suwalki

L’attenzione, recentemente, si è focalizzata sul cosiddetto  spazio Suwalki la frontiera di circa 97km tra la Lituania e la Polonia schiacciata tra Kaliningrad e l’alleato russo: la Bielorussia. Se la Russia agguantasse lo spazio, isolerebbe gli Stati baltici dal resto della NATO.

Tuttavia altri Stati membri della NATO non condividono la percezione del rischio russo degli Stati baltici e della Polonia.

Il presidente francese Hollande, ha dichiarato che la NATO non ha nessun ruolo per stabilire quali debbano essere le relazioni con la Russia, rimarcando che per la Francia, la Russia non è né un avversario né una minaccia.

Spostandoci un po’ più a sud, la Repubblica Ceca, la Slovacchia e l’Ungheria sono più immediatamente preoccupate per i flussi migratori e l’instabilità dei Balcani, anche se nel quadro della NATO capiscono la prospettiva della Polonia e degli Stati baltici.

L’unità della NATO reggerà?

La domanda che vi ponevo all’inzio. Tre sono le riflessioni che voglio proporvi. L’approccio della NATO a quel serbatoio di benzina che è i Balcani, la minaccia di gruppi estremisti, vale a dire il terrorismo internazionale e il ruolo della Turchia.

La NATO non rotola a sud:

1. i Balcani

L’approccio della NATO nel potenziale serbatoio di benzina dei Balcani è stato esitante e divisivo. La Grecia ha continuato a bloccare la membership della Repubblica di Macedonia a lungo rinviata. La Russia ha tratto vantaggio dalle proteste anti-NATO nel Montenegro che dovrebbe unirsi all’Alleanza, per richiamare i Balcani ad essere “militarmente neutrali”. Nello stesso tempo Mosca fornisce assetti militari, sostegno in situazioni di emergenza e addestramento per le forze speciali di polizia in Stati dei Balcani: Bosnia e Serbia.

2. Il terrorismo internazionale

Sulla questione del terrorismo internazionale, in particolare “lo Stato islamico”, nella dichiarazione di Varsavia, troviamo tante bellissime parole, ma sostanza poca. Si dice che il gruppo estremista transnazionale è stato degradato, molti accoliti uccisi, molti seguaci si sono allontanati. Molti. Veramente? Allora tutto bene, che bello! In Iraq, si invitano le autorità locali a darsi da fare per migliorare le forze armate e la sicurezza, e già, dopo che nessuno si è preso la briga non solo di pianificare, ma di eseguire la “exit strategy”, adesso rispettiamo la sovranità dello Stato iracheno. Sulla Siria, una chicca: “l’efficace battaglia contro lo “Stato islamico” sarà possibile solo con un governo legittimo in carica”. Questa affermazione forse tralascia la circostanza che per ora Assad è il presidente della Siria, che gli Stati Uniti hanno per anni finanziato gruppi di ribelli contro Assad per poi accorgersi che la situazione gli era sfuggita di mano. Gli Stati Uniti, membri della NATO, si ricordano che giocano sul doppio livello in Siria, da un lato paladini della sicurezza e della pace internazionale e dall’altro potenza dominante contro la Russia, finanziatori con denaro e armi di gruppi estremisti?

Si legge, inoltre, nel documento NATO di Varsavia che nello sforzo di proiettare stabilità, si è consapevoli che c’è la necessità di affrontare le condizioni che portano alla diffusione del terrorismo internazionale. Beh mi sembra troppo poco; seppur un passo avanti è stato fatto perché si ravvisa la necessità che ci sia bisogno di affrontare le cause del terrorismo internazionale e non le conseguenze, non è abbastanza senza una strategia focalizzata sulle radici dei gruppi estremisti e di lungo termine.

Leggete anche voi uno dei pezzi della dichiarazione di Varsavia che riguarda lo “Stato islamico”.

NATO

3. La Turchia e il gioco delle tre carte

La Turchia cerca attivamente ora più che mai un riavvicinamento con Mosca, visto il raffreddamento delle relazioni con Washington dal “tentato golpe”.

La Turchia potrebbe fare il doppio gioco, difficile predire quale sia la sua vera strategia. Potrebbe prendere parte alle misure di “rassicurazione” della NATO nella regione del Mar Nero mentre, allo stesso tempo, migliorare le relazioni con la Russia e riposizionarsi vis-a-vis con gli Stati Uniti.

Non dimentichiamo che gli strumenti utilizzati dalla Russia come la corruzione, lo spionaggio, la sovversione, la propaganda e le campagne di disinformazione, non sono necessariamente ben contrastate da soldati.

Teniamo anche bene a mente che l’Italia è il versante sud della NATO.

Ottobre 11 2016

Somalia: la triste pagina del mondo che si gira dall’altra parte

Somalia

Somalia: emergenza dopo emergenza, il paese non riesce a trovare il suo equilibrio. Un fallimento della comunità internazionale e dell’Unione Africana che si fatica a riconoscere.

Somalia: i fatti

Il numero di somali che non ha abbastanza da mangiare è salito a 5 milioni, i bambini sono al più alto rischio di malattie e morte. Il numero è salito di 300,000 da febbraio di quest’anno per il protrarsi del conflitto tra il gruppo estremista islamico al-Shabaab e il governo somalo appoggiato dall’Unione Africana.
Decine di migliaia di rifugiati sono tornati in Somalia quest’anno dal più grande campo di rifugiati al mondo: Dadaad, in Kenya, visto che il governo keniota vuole chiuderlo entro novembre. Le autorità governative keniote adducono come motivazione della chiusura del campo che Dadaab, casa di più di 300,000 mila somali rifugiati è stato usato come base di al-Shabaab per attacchi sul suolo keniota

Il clima che non aiuta: scarse piogge riducono la produzione di cereali

Molti stanno tornando nel centro-sud della Somalia, la “pancia” del paese, dove però le poche piogge hanno ridotto la produzione di cereali almeno della metà.
Oltre 300,000 bambini al di sotto dei 5 anni sono malnutriti e più di 50,000 sono severamente malnutriti. (Vi ricordo che la maggioranza delle 260,000 persone che sono morte durante la carestia del 2011 erano bambini).

Vi invito ora a leggere una breve storia del paese, dal mio quaderno degli appunti. Le date degli avvenimenti più importanti ci aiuteranno a comprendere come questo paese, spartito da grandi potenze esterne e poi vittima di milizie locali ed estremismo non sia mai riuscito a camminare con le sue gambe.

Somalia

 

Anni di sforzi da parte della Nazioni Unite, dell’Unione Africana e di gruppi di supporto internazionale la Somalia ha un governo nazionale e una forza di sicurezza, ma resta uno stato precario economicamente, mentre politicamente e militarmente il potere rimane nelle mani di leader locali e di forze piuttosto che nelle mani del governo centrale.

Come se non ci fosse fine al peggio, i militanti jihadisti salafisti si radicano in Somalia

durante le decadi di frammentazione e diventano particolarmente violenti soprattutto quando un gruppo chiamato Harakat al–Shabab al– mujahedeen, o più semplicemente al–Shabab, si separa da un’organizzazione conosciuta come l’Unione delle Corti islamiche.
Nel 2012, al–Shabab giura alleanza ad Al–Qaeda ed inizia a rendere le complesse battaglie interne una scelta tra potere somalo ed estremismo islamico transnazionale.

I foreign fighters si uniscono ai militanti locali e ricoprono posizioni chiave, da qui al-Shabab inizia ad orchestrare attacchi negli stati vicini come in Uganda ed in Kenia per punirli della loro partecipazione alle missioni di peacekeeping dell’Unione Africana in Somalia (AMISOM).

Non era evidentemente abbastanza: lo “Stato islamico” stabilisce una presenza in Somalia.

Lo “Stato islamico” ha diffuso un video il 14 aprile 2016 del Campo di addestramento “comandante sceicco Abu Numan”, presumibilmente ubicato nella regione Puntland nel nord-ovest del paese. Il video, prodotto da Al Furat il media center dello “Stato islamico”, ritrae l’ex comandante di al-Shabab Abdiqar Mumin.

Il video mostra più di una dozzina di militanti nel campo di addestramento chiamato “Bashir Abu Numan”, un ex comandante che fu ucciso da Shabaab Amniyat, la branca di sicurezza e intelligence rivale all’interno del gruppo, dopo che defezionò nello “Stato islamico” nel tardo 2015.

Oltre alla promozione del suo campo, lo “Stato islamico” rivendica il suo primo attacco in Somalia il 25 aprile. In una dichiarazione diffusa sugli account nei sociali media, si rivendica la detonazione di un IED (improvised explosive devise) contro un “veicolo militare delle forze crociate africane a Mogadiscio”.

La comunità internazionale (compresi gli Stati Uniti) non hanno trovato alcun modo per spezzare le profonde radici che al- Shabab ha piantato e fatto crescere nella società somala.

Nei recenti anni, AMISOM ha respinto il gruppo estremista fuori da Mogadiscio e altre città maggiori, ma i militanti islamici controllano ancora territori importanti della campagna e continuano ad attaccare i peacekeeper soprattutto le loro linee di rifornimento, assieme a soft target come hotel ristoranti frequentati da stranieri o funzionari del governo nazionale somalo.

Ci si chiede dunque perché gli aiuti non bastino, gli appelli neanche e per quale motivo nessuno è stato in grado di contrastare il richiamo di Al–Shabab verso giovani uomini arrabbiati. La risposta è nella corruzione, nelle competizioni interne all’elite politica somala e nelle forze di sicurezza, l’incapacità del governo e delle forze di sicurezza di controllare efficacemente il territorio.

Piuttosto ci sembra che la strategia adottata dall’Unione Africana e dalla comunità internazionale più in generale sia quella di ignorare tutto quanto detto finora e creare strutture politiche nazionali e di sicurezza che però mancano di unità, coerenza e hanno una esile opportunità di sopravvivenza.

Quello che manca sono concetti strategici per gestire strutture di potere localizzate e sparpagliate.

Malgrado le ingenti somme di denaro provenienti da donatori stranieri, l’esercito nazionale somalo non è capace di mettere al–Shabab all’angolo, figuriamoci sconfiggerlo. Le élite locali e basate su un sistema di clan e milizie rimangono più importanti rispetto al governo.

Questo è un problema ricorrente quando potenze esterne basate su un’autorità centralizzata si coinvolgono in culture basate su tribù o clan dove il potere e l’autorità sono decentralizzate. Piuttosto che riuscire a trovare alleati locali e creare strutture nazionali anche a livello locale, le potenze esterne si accaniscono, con i loro alleati, a voler “aiutare” creando un sistema centralizzato effettivo.

La Somalia e l’Afghanistan sono due dei maggiori esempi dove la comunità internazionale capeggiata dagli Stati Uniti continuano a mantenersi ancorati all’idea del sistema centralizzato, non curanti del fallimento che continuano a perpetrare.

La Somalia difficilmente arriva ad essere oggetto di critiche o lezioni apprese, e ancora meno riesce ad arrivare ad un nostro telegiornale o giornale. Riflettiamoci.

 

Ottobre 1 2016

Stati fragili: il campo di battaglia delle grandi potenze

Stati fragili

Spesso i cosidetti “Stati fragili” diventano un vero e proprio campo di battaglia, dove chi combatte più ferocemente sono le grandi potenze.

“Stato fragile” o nella versione inglese “fragile State” è sistematicamente ed inesorabilmente confuso con “Failed State” o “Stato fallito”. Dunque prima di approfondire la connessione tra Stati fragili e grandi potenze, facciamo la necessaria chiarezza (anche un po’ accademica) su questi concetti.

Una pagina di appunti dal mio quaderno riassume i concetti principali e la sostanziale differenza tra failed o failing State e State fragility.

Stati fragili
Dunque: affinché si abbia uno “Stato”nel senso del diritto internazionale occorre la presenza di uno o più individui (governanti) che pretendono di regolare la vita di altri individui (governati) stanziati stabilmente entro un territorio delimitato da confini senza dipendere da altri Stati all’esterno (indipendenza). La dottrina e la giurisprudenza prevalenti sintetizzano questa definizione sostenendo che lo Stato secondo il diritto internazionale è identificabile da: governo-popolo-territorio. Questa teoria tridimensionalistica della statualità è generalmente accolta nella giurisprudenza internazionale, nonché dalla giurisprudenza statale compresa quella italiana. A favore della teoria tridimensionalistica si sono espressi anche organi internazionali come la Commissione Badinter nel parere n.1 del 1991 sulla dissoluzione della Jugoslavia. In sostanza, tale teoria, tende a precludere la qualificazione giuridica di Stato e l’attribuzione delle corrispondenti prerogative ad entità del tutto prive di territorio ( Stato “virtuale) o di popolazioni stabili (comunità nomade).
Costituisce un luogo comune sia in dottrina che nella giurisprudenza il richiamo alla Convenzione di Montevideo sui diritti e i doveri degli Stati del 1933, al cui art.1 stabilisce che lo Stato come persona di diritto internazionale dovrebbe possedere le seguenti caratteristiche: 1) una popolazione permanente; 2) un territorio definito; 3) un governo; 4) la capacità di intrattenere rapporti con gli altri Stati. Il quarto elemento viene inteso, usualmente, nel senso dell’indipendenza dello Stato nei confronti degli altri Stati. Si tratta di un richiamo di routine, giuridicamente irrilevante, poiché la Convenzione (adottata alla 7° Conferenza internazionale degli Stati americani e in vigore per 15 Stati latino-americani e per gli Stati Uniti) non può in se stessa stabilire una nozione di Stato che vincoli la generalità degli Stati.*

Failed  o failing States

Un ente che in passato ha costituito uno Stato che non ha più un governo effettivo, per motivi che possono dipendere da un’insurrezione o da una guerra civile o da un intervento militare esterno viene definito failed o failing State. Stando al requisito dell’effettività si dovrebbe ritenere che una volta perduta venga meno lo Stato. Nella prassi tuttavia i failed States vengono considerati come Stati a prescindere dall’aver perso l’effettività.

Esempio: la Somalia nel periodo 1991-2001 (tuttora in crisi di effettività e ce ne occuperemo nei prossimi post) ha continuato ad essere considerata uno Stato, è rimasta membro delle Nazioni Unite, qualificata come uno Stato dalla giurisprudenza britannica (sentenza Woodhouse Drake e Carey 1992).

La continuità dei failed States viene spiegata sostenendo che se si ammettesse l’estinzione dello Stato si creerebbe un territorio nullius suscettibile di occupazione ed appropriazione da parte di altri Stati, il che violerebbe il diritto di autodeterminazione dei popoli.
Anche se la ragione potrebbe essere spiegata più facilmente con la paura che l’ordine globale sia minato da vuoti di potere.

Stati fragili

La cosiddetta State fragility come construtto teorico è diventato ora una parte importante del discorso politico internazionale,  nondimeno resta un concetto elusivo sia per gli accademici che per i politici. Ci sono diverse interpretazioni di fragility, concetti analitici distinti che riguardano principalmente la vulnerabilità del sistema politico dello Stato. (prossimamente cercheremo di spiegare anche cosa è un sistema politico dello Stato)
Il concetto di “fragile State” è un’ invenzione recente. La questione ha generato un estensivo lavoro accademico molto del quale si è focalizzato nel trovare alcune chiavi di lettura utili a spiegare la fragilità dello Stato.

Come si presenta uno Stato fragile?

Uno Stato fragile” è uno Stato suscettibile in maniera significativa di una crisi da parte di uno o più dei suoi sottosistemi. Uno Stato particolarmente vulnerabile a shock esterni ed interni: conflitti interni ed internazionali. Negli stati fragili, gli accordi giuridici istituzionali sono vulnerabili a sfide da parte di sistemi istituzionali rivali essendo essi derivati da autorità tradizionali, concepiti da comunità sottoposte a condizioni di stress che percepiscono poco dei servizi erogati dal governo in termini di sicurezza, sviluppo o benessere, ovvero derivati da signori della guerra, o da altri intermediari di potere non statali.

La comunità dei Donatori equipara la fragilità dello Stato con l’incapacità di uno Stato ricevente ad utilizzare i flussi di aiuti per raggiungere la crescita economica e la riduzione della povertà. Il consenso raggiunto dalla comunità internazionale dei Donatori su questo concetto di “State fragility” si basa sulla circostanza che l’impatto dell’aiuto sulla crescita interna, riduzione della povertà e altri esiti di sviluppo è condizionale ai regimi politici dello Stato ricevente e alla performance istituzionale. Più specificatamente: più appropriati sono questi regimi da un punto di vista di sviluppo e migliore è la performance delle istituzioni locali, maggiore sarà l’efficacia incrementale dell’aiuto.

Prospettive di fragilità di prima generazione

Le visioni sulla fragilità di Stato e failure che appartangono alla “prima generazione” si concentrano sulla rottura del sistema politico causata da una singola variabile: un conflitto violento intra-statale. Questo tipo di prospettive appartengono agli anni ’90 in cui si sono verificate un certo numero di rotture dei sistemi statali legate a conflitti: Liberia, Somalia, Sierra Leone in Africa; Serbia e Bosnia in Europa.

Si potrebbe dividere la prima generazione in due campi:

1. teorie più strutturalmente orientate che si focalizzano sulle “cause alla radice” della debolezza del sistema politico: quelle condizioni permissive che consentono lo sfociare di un conflitto o l’incremento della povertà.

2. Prospettive più concentrate sul sistema politico e sugli attori non – statali, come forze che nell’intento di perseguire agende individualistiche e competitive, interagendo su queste basi producono conflitto.

La povertà è una variabile strutturale chiave per il primo campo definita sia in termini assoluti che relativi, mentre il secondo gruppo guarda alle motivazioni degli attori incluso l’avidità. Puntare i riflettori soltanto sui fattori di conflitto non aiuta a sviluppare politiche più efficaci per rispondere o, idealmente, per prevenire la failure.

Quando il conflitto o la povertà diventano sufficientemente estremi per spronare la comunità internazionale all’azione, è di solito troppo tardi per rispondere efficacemente fatta eccezione per quegli interventi attraverso operazioni costose (interventi militari) o dolorosi aggiustamenti economici. Quello di cui c’è bisogno sono approcci proattivi che si concentrino su trasformazioni strutturali di lungo termine.
Prospettive di fragilità di seconda generazione

Esse riconoscono che i fattori come la povertà ed il conflitto in se stessi non sono delle buone misure di fragilità, piuttosto sono sintomatiche dell’esistenza di più fattori causali fondamentali. E’ vero che molti Stati fragili sono poveri, ma soffrono, ad esempio, anche di un’ineguale distribuzione dei servizi o di una debole governance.

Gli indici: perché se lo dice un indice allora è vero!

Il Fund for peace Index è un approccio di prima generazione che pone una più grande enfasi sui risultati dei conflitti piuttosto che su altri indicatori di fragilità. Questo indice considera Stati con una fine relativa dei conflitti e non necessariamente il processo che porta alla fragilità.

Stati fragili e rivalità tra grandi potenze

Il rischio che pongono gli Stati fragili è diventato una delle maggiori preoccupazioni per i politici dopo l’11/9. L’insuccesso delle missioni di stabilizzazione in Afghanistan, Iraq, Libia e Yemen ha reso questi Stati una sorta di emblema del fallimento politico.
Ben lungi dall’essere una preoccupazione “distante ed astratta”, gli Stati fragili restano al centro di molto del disordine regionale odierno e del cambiamento globale radicale.

Per rendere chiaro il punto basta dare un’occhiata alla Siria e al suo impatto sugli stati confinanti, sulla regione e sull’Europa.

La sfida animata dall’assenza – ovvero dalla rottura – di unitarietà sociale tra le persone ed il loro governo diventerà, con tutta probabilità, molto più acuta nel tempo dal momento che gli Stati lottano per tenere il passo rispetto alle richieste sempre più alte dei propri cittadini.
La convinzione che si debba cercare di “aggiustare” ogni singolo “Stato fragile” è errata.

Sarebbe auspicabile articolare principi di politiche realiste per determinare dove e come investire scarse risorse e l’attenzione per ottenere il massimo effetto. Questo, strategicamente, vuol dire identificare e ad avere come obiettivi gli Stati dove la fragilità e le ricadute sugli Stati confinanti e le regioni pongono la più grande minaccia all’ordine mondiale. Sebbene questo potrebbe essere un buon inizio, le cose si fanno complicate quando, per guidare gli sforzi futuri, si applicano le lezioni apprese dalla passata decade dalle missioni di stabilizzazione di lungo termine.
Ci sono i casi in cui le nuvole di una possibile crisi del sistema politico statale sono ben visibili, ma molto spesso le radici di una crisi sono oscurate o nascoste da una repressione efficace o da un consenso solo in apparenza, rendendo gli avvertimenti iniziali quasi impossibili da decodificare.

Come regola generale, ci si aspetta che regimi autoritari rigidi alla fine cedano all’instabilità, ma predirli sarebbe come saper leggere i fondi delle tazze di caffè.

Anche quando una crisi si dichiara, prevedere la sua evoluzione è rischioso. Dopo tutto, chi avrebbe potuto prevedere l’entità del collasso Siriano nel caos nel 2011?

La politica estera del presidente Obama quando entrò in carica nel 2009 era quella di restaurare la posizione globale degli Stati Uniti attraverso un impegno diplomatico e la riduzione degli interventi militari. Anche se ben concepita, questa strategia in alcuni modi fu sovvertita dal ritorno della rivalità tra grandi potenze, nell’arena internazionale, soprattutto nella forma del revanscismo russo e dell’assertività cinese.
Le provocazioni russe potrebbero facilmente risultare in incidenti che presentano un rischio più grande di intensificazione, perché la memoria “dei muscoli di Washington” di come fare retrocedere la Russia si è atrofizzata e i meccanismi per farlo o sono appassiti o non esistono più.

Per 25 anni il conflitto tra le grandi potenze è stato licenziato come irrilevante o ignorato come improbabile.

4 domande che deve porsi e a cui, evidentemente, deve rispondere il prossimo presidente degli Stati Uniti

  1. Gli Stati Uniti vogliono ancora e sono capaci di sostenere la sicurezza mondiale, coordinare gli sforzi per stabilizzare gli Stati fragili di importanza strategica?
  2. Gli Stati Uniti cercheranno di immunizzarsi dal contagio del disordine?
  3. Vogliono accettare un ordine multipolare di egemonie regionali e di accordi di divisione del potere?
  4. Oppure risponderanno con più forza alle sfide revisioniste di potenze entusiaste di mettere fine al periodo degli Stati Uniti come impareggiabile potenza mondiale?

Senza queste risposte, gli Stati Uniti saranno forzati a reagire agli eventi e alle crisi piuttosto che gestirle e rispondere alle trasformazioni piuttosto che condurle.

Chiaramente non poniamo 4 domande al presidente del Consiglio dei Ministri italiano perché l’Italia ben lungi dall’essere una grande potenza e ancora molto lontana dal costituire un attore chiave nella scena internazionale. 

*C. Focarelli, Diritto internazionale, terza edizione- Cedam, 2015.

Settembre 19 2016

Il terrorismo nega Dio: le mie riflessioni

terrorismo

A chi fosse sfuggito ad Assisi dal 18 al 20 settembre si celebra il 30° anniversario del cosiddetto “Spirito di Assisi”. Il 27 ottobre 1986 l’allora Papa Giovanni Paolo II, oggi San Giovanni Paolo II, aprì la sorgente dello Spirito di Assisi che si è diffuso in tutti gli angoli del mondo. Incontri inter-religiosi, giorni di dialogo tra rappresentanti, fedeli di diverse religiosi per costruire un mondo migliore.

Abito ad Assisi oramai da tantissimo tempo e onestamente lo Spirito di Assisi appartiene a me come persona indipendentemente da dove mi trovo, probabilmente era questo che intendeva San Giovanni Paolo II, quando istituì questa giornata.

Un dialogo costante non solo tra i “capi delle diverse religioni”, ma tra tutti i fedeli ovunque nel mondo.

Dal 1986 al 2016 però il mondo è cambiato, il contesto come dicono i grandi pensatori, non è più lo stesso. Io, te, nessuno è uguale al 1986, non siamo forse nemmeno gli stessi di ieri figuriamoci di 30 anni fa.

Quello che vi propongo oggi sono spunti di riflessione, perché io dopo l’incontro – dibattito a cui ho partecipato, tornando a casa a piedi lungo la mattonata ho riflettuto a lungo.

Purtroppo non era possibile partecipare a più di un incontro la mattina e il pomeriggio perché quelli previsti in mattinata si sono tenuti tutti contemporaneamente alle 9:30 e quelli del pomeriggio tutti contemporaneamente alle 16;30.

terrorismo

Il terrorismo nega Dio

Facendo la fila per entrare avevo grandi aspettative, come sempre quando si tratta di un argomento che studio, oggetto del mio lavoro quotidiano: il terrorismo internazionale. L’argomento legato a Dio, inteso (a mio avviso) come religione in senso generale, non una in particolare, mi entusiasmava parecchio.

terrorismo

Il problema principale di questi dibattiti è la terminologia. Se tutti i relatori che vi mostro nella foto, parlano di estremismo, qualcuno di ISIS, qualcun’altro di Al Qaeda, dell’11/9 o di un gruppo affiliato dell’ISIS nelle Filippine, ebbene allora si discuterà di terrorismo internazionale. Di quei gruppi che hanno una natura transnazionale. Quindi il generico titolo “il terrorismo nega Dio” non è appropriato. La circostanza che non esista una definizione condivisa a livello internazionale di terrorismo, come vi ho già detto altre volte, è un enorme problema, soprattutto quando poi Kulkarni dice: “non esiste pace senza giustizia e non c’è giustizia senza pace“. Bello slogan, ma poi nei fatti, purtroppo resta solo uno slogan, proprio per la difficoltà di poter condannare, punire un gruppo perché di natura terroristica transnazionale.

Quando Karman asserisce: “il terrorismo è il risultato delle dittature“, beh ho dei problemi a comprendere. Ed allora mi chiedo cosa vuol dire questa frase? Il terrorismo internazionale non ha una singola e precisa causa e dunque non è possibile affermare con assoluta certezza che esista una causa ed una sola. Pur nel rispetto del suo premio nobel per la pace del 2011, mi chiedo quale sia il ragionamento che l’ha portata a questa affermazione. Proseguendo aggiunge che il portatore del terrorismo è anche la mancanza di riforme.

Qui, il mio primo spunto di riflessione: se confondiamo terrorismo internazionale con forme di stato, insieme a possibile soluzioni riformiste senza una precisata direzione, cosa stiamo dicendo a chi ascolta?

Il mio secondo spunto di riflessione arriva da Muaammar, il quale propone come soluzione il dialogo tra i religiosi e i politici.

Mi chiedo: “il fenomeno del terrorismo internazionale si ferma se mettiamo attorno ad un tavolo religiosi e politici a parlare?” e, poi… “di cosa esattamente dovrebbero parlare?”.

L’intervento che invece ho trovato più interessante è stato quello di Onaiyehan, più che altro perché l’unico focalizzato sul titolo dell’incontro. Riporta le parole del papa il quale asserisce che uccidere nel nome di Dio è blasfemia, un atto satanico. Dall’altra parte ricorda che molto spesso si fa finta di dimenticare le “guerre sante”, pagine buie della cristianità.

Mi ha dato un altro spunto di riflessione con questo esempio. Dopo gli attentati in Europa ci sono stati una serie di bombardamenti in rappresaglia in Siria con moltissime vittime civili. Non è anche questo negare Dio, uccidere innocenti? Non è forse un modo per sviluppare il terrorismo internazionale piuttosto che frenarlo?

Le mie riflessioni sono piuttosto critiche, in primis con la Chiesa Cristiana Cattolica alla quale appartengo. Questi incontri pur essendo un momento di riflessione, di dialogo, mi sembra restino sempre un po’ confinati nelle mura dell’ipocrisia. Ho avuto l’impressione che fosse poco più di una sfilata di personaggi che ripetono slogan. 

Quando si chiede ai leader religiosi musulmani di condannare il terrorismo internazionale religioso islamico, si dimentica che nessuno ha mai condannato i movimenti estremisti cattolici o protestanti. Il terrorismo internazionale nega Dio, nel senso che nega qualsiasi entità che predichi l’uguaglianza della diversità, la bellezza della condivisione con chi professa un’altra religione, il rispetto altrui. Il diritto alla vita, la dignità di ogni persona in quanto e in primis come Figlio di Dio. Dio come entità superiore che poi ognuno è libero di chiamare come vuole, nella libertà che Lui stesso ci ha donato.

Probabilmente è più utile pregare perchè ci si rispetti di più nella nostra diversità, piuttosto che dire preghiamo per la pace: ma chi prega per la guerra me lo dite?

Il terrorismo internazionale di natura religiosa non è solo della religione islamica! E’ triste doverlo ancora ripetere nel 2016, fa forse più comodo trovare un capro espiatorio piuttosto che soluzioni. Non credo che sia utile, risolutivo, dire “la mia religione è migliore della tua”, sarebbe forse e dico forse più significativo chiedere conto a quel governo del perché arma i movimenti estremisti in quel paese o del perché pensa che bombardare tutto sia la soluzione. Forse è l’autocritica che manca anche a noi cattolici.

 

Settembre 11 2016

Emozioni battono logica: ecco chi guida il comportamento politico

emozioni

Le emozioni guidano il comportamento politico? Anche quando crediamo che le decisioni prese seguano la logica in realtà il vero fulcro della decisione appartiene al regno delle emozioni.

Il neuroscienziato Antonio Damaso ha condotto una serie di studi su un gruppo di persone che presentavano danni in una parte del cervello dove sono generate le emozioni. Egli ha riscontrato la loro incapacità nel sentire le emozioni; tuttavia si caratterizzavano per una peculiarità in comune: non potevano prendere decisioni. Potevano descrivere quello che dovevano fare in termini logici, ma per loro era molto difficile prendere anche semplici decisioni, come per esempio quella di cosa mangiare.

Molte decisioni si presentano come due facce di una medaglia, con i loro pro e i loro contro: “mangio il pollo o l’agnello?”, ebbene questi soggetti erano incapaci di prendere una decisione.

Le emozioni sono molto importanti quando si tratta di prendere una decisione

Anche quando crediamo che siano decisioni logiche, il vero fulcro di scelta è verosimilmente sempre basato su un’emozione.

Inoltre, diversi ricercatori hanno evidenziato come emozioni accidentali spostino, in maniera estesa, una situazione a quella successiva, interessando decisioni che riguardano una prospettiva normativa non collegata alle emozioni. Questo processo è chiamato: spostamento di emozioni accidentali. Per fare un esempio: la rabbia accidentale innescata da una situazione può cogliere un motivo per incolpare individui in altre situazioni anche se gli obiettivi di tale rabbia non hanno nulla a che vedere con la fonte della rabbia. Lo spostamento di emozioni accidentali avviene, tipicamente, senza che se ne abbia consapevolezza.

Per capire il nesso tra emozioni e comportamento politico prenderemo ad esempio: Donald Trump e lo “Stato islamico”.

Il caso di Trump e dello “Stato islamico”

Potreste chiedervi: “come possono mettersi sullo stesso piano, anche solo per comparazione queste due realtà così diverse tra loro?“.

Se guardiamo cosa guida il sentimento popolare in sostegno di leader politici come Trump, Marine Le Pen ed altri in Europa, vediamo che essi invece di appellarsi alla logica, tamburellano su un bacino di emozione: un misto di identità nazionale, di risentimento socio – economico, che spesso mescola la rabbia, l’umiliazione ad un certo senso di nostalgia per un tempo migliore di quello recente.

È l’emozione, piuttosto che la logica che guida il comportamento politico

Quando i giovani occidentali cadono in preda al richiamo della narrativa di gruppi religiosi estremisti come lo “Stato islamico”, le cose si complicano. In aggiunta agli elementi non-razionali di emozione ed affetto, c’è un altro modo non – razionale esperienziale in gioco: il sacro contro il profano o meglio le nozioni apocalittiche contro quelle sacre.

Anche se poche, esistono evidenze che i gruppi come lo “Stato islamico” facciano leva su individui mentalmente vulnerabili permettendogli di legittimare le loro emozioni rivestendole di un’ideologia. Tuttavia nella maggior parte dei casi, il gruppo si rivolge a giovani in cerca di significati e di validazione attraverso una causa che è più grande della loro condizione individuale; una ricerca che si è rivelata vana nelle società europee in cui molti sono cresciuti.

La logica dei tecnocrati

Per i tecnocrati, i problemi devono essere affrontati usando un quadro logico di analisi. Cause ed effetti devono essere identificati ed isolati. Le soluzioni potenziali devono essere disegnate ed esaminate per comparare i costi e i benefici e gli obiettivi desiderati contro le possibili conseguenze. La legislazione deve essere scritta e conseguentemente diventare legge per essere sicuri che gli strumenti applicati siano i più appropriati.

Viene però da chiedersi: “Perché la visione di un mondo senza frontiere non attrae più rispetto a quella di un mondo circondato da muri?“.

È nella risposta tecnocratica il vero problema. Essa ci dimostra non solo il fallimento della comprensione accurata del problema, ma soprattutto la mancanza del vocabolario necessario capace di indirizzare la situazione.

Ciò diventa ovvio in relazione alla problematicità dei giovani radicali e delle campagne di de-radicalizzazione che cercano di convincerli che la causa che hanno adottato è una strada senza uscita. Questo tipo di richiami che utilizzano argomenti razionali per demistificare gli appelli dello “Stato islamico”, che si rappresenta come una forma pura di Islam pre-moderno, semplicemente non raggiungono le orecchie della persona che cercano di convincere, poiché essa è sintonizzata su un modo non-razionale di esperienza sacra.

La stessa dinamica è in gioco quando si cerca di rispondere alla crescita dell’ondata di populismo nazionalista

in Europa e adesso, nella forma di Trump, negli Stati Uniti. Le analisi degli elementi positivi per cui gli immigranti contribuiscono all’economia della Gran Bretagna e l’impatto catastrofico che lasciare l’Unione Europea avrebbe, non possono competere con la catarsi emotiva di votare in favore della Brexit. Niente è stato in grado di diminuire il richiamo xenofobo della campagna di Trump.

L’ideale europeo vale la pena che sia difeso, ma è stato raramente menzionato nella campagna della Brexit.

Anche nella campagna elettorale per la Casa Bianca sono stati pochi i riferimenti ai valori americani nati dall’essere una nazione di immigrati.

Le emozioni tendono a bloccare la nostra abilità di assorbire nuove informazioni, inibiscono anche l’abilità di condividere una prospettiva alternativa in un modo tale per cui l’altra persona la prenda in seria considerazione.

 Senza l’abilità di prendere e assorbire nuove informazioni le persone s’impantanano in una visione che non ha  potenziale di crescita, di cambiamento o di sfumature.

 

Settembre 3 2016

Zawahiri: cogito ergo sum.

Zawahiri

Zawahiri c’è! E con lui anche Al Qaeda, malgrado molti l’abbiano dimenticata, forse pensando che si sarebbe disintegrata per lasciare il passo allo “Stato islamico”. I nuovi messaggi di Zawahiri ci raccontano cosa pensa l’ “altra metà del cielo del jihad”.

Sebbene alcuni pensassero che Al Qaeda (AQ) sarebbe letteralmente implosa dopo la morte di Bin Laden, Ayman al-Zawahiri è riuscito a tenerla insieme e in qualche maniera ha migliorato la sua posizione, malgrado la campagna di contro-terrorismo condotta incessantemente dagli Stati Uniti.

Dopo un lungo periodo di silenzio, talmente lungo che qualcuno ha addirittura pensato che Zawahiri fosse morto, nel gennaio del 2016 vengono diffusi dei nuovi messaggi di AQ. Prima però di dare un’occhiata veloce al contenuto, poniamoci questa domanda:

ZAWAHIRI è CAPACE A COMANDARE AL QAEDA?

Ayman al-Zawahiri nasce nell’élite egiziana, da padre medico, uno zio Grand Imam di al-Azhar (il centro di studi islamico in Egitto), il nonno materno presidente dell’Università del Cairo. In un tempo in cui molti dell’élite egiziana abbracciavano una identità più secolare, la famiglia di Ayman rimaneva una famiglia di pii musulmani. Ayman era uno studente brillante ma anche disinteressato a proseguire la tradizione di famiglia e diventare un dottore. Si fa coinvolgere subito dalla politica e forma la sua prima cellula rivoluzionaria all’età di 15 anni. Ispirato dall’esecuzione di Sayyd Qutb, Zawahiri si unisce ad altri giovani egiziani radicali che volevano far diventare il paese uno Stato islamico, critici dell’accordo con Israele del presidente egiziano Sadat formano l’Egyptian Islamic Jihad (EIJ). I membri di questo gruppo assassinarono Sadat nel 1981, provocando non solo una massiccia repressione ma anche l’arresto di Zawahiri stesso. Ayman fu torturato in prigione e svelò informazioni sui suoi compagni.

Per molti anni Zawahiri si focalizzò sul rovesciare il governo egiziano, appariva come il più improbabile leader di AQ. Nel 1993 dichiarò che l’obiettivo primario del gruppo era quello di stabilire uno Stato islamico in Egitto, asserendo che le finalità di EIJ si concentravano essenzialmente sul nemico vicino: i regimi apostati del Medio Oriente, e non sul nemico “lontano”: gli Stati Uniti. Avendo visto come gruppi egiziani ripetutamente fallivano nell’orchestrare un coup, scatenare una rivoluzione popolare o creare un gruppo rivoluzionario, Zawahiri sviluppa una sorta di sacro rispetto per la segretezza, la pianificazione e l’addestramento considerandole come le chiavi per il successo.

Attraverso AQ, EIJ otteneva l’accesso al denaro di Bin Laden e ai campi di addestramento, soprattutto ai cosiddetti safe heaven.

Quando EIJ si trovò sotto forte attacco da parte del governo egiziano, per Zawahiri diventò difficile pagare gli operativi, prendersi cura delle loro famiglie o più generalmente sostenere il gruppo. Coltivare legami con Bin Laden permetteva alla sua organizzazione di vivere e combattere ancora. Quando EIJ sembrava sbiadirsi, Zawahiri si associò sempre di più con AQ, prima come scusa per sfruttare Bin Laden poi per necessità e infine per convinzione. Un jihadista egiziano riporta che Bin Laden sostenne che gli attacchi in Egitto erano troppo costosi in termini di vite, di denaro e che Zawahiri avrebbe dovuto rivolgere le armi della sua organizzazione sugli Stati Uniti ed Israele. Nel corso del tempo Zawahiri abbracciò questo tipo di ragionamento. Parte di questo cambiamento potrebbe essere stato determinato da un mutamento ideologico genuino, ma il collasso degli sforzi in Egitto, unitamente all’aggressiva assistenza americana per distruggere la rete EIJ al di fuori dell’Egitto, spingono Zawahiri a cambiare l’obiettivo della sua vita. Così nel 1998 EIJ si allea con AQ, cambia le finalità organizzative per accordarle con quelli di Bin Laden e interrompe tutti gli attacchi in Egitto, nel 2001 formalmente i due gruppi si uniscono.

QUAL è LA DIFFERENZA CON BIN LADEN?

Al contrario di Bin Laden, Zawahiri non è carismatico. Nella sua persona e nella retorica che utilizza è più “laborioso” che stimolante. Non ha neppure la stessa storia personale di Bin Laden per ispirare altri. Sebbene sia rispettato per la sua dedizione al jihad, non ha direttamente combattuto i sovietici ed il suo tradimento per altri membri del EIJ (sotto tortura) diminuisce ulteriormente ogni tentativo di coltivare il mito dell’eroe. Sebbene sia differente nello stile rispetto a Bin Laden, condivide il suo pragmatismo. Più pedante e dogmatico dell’ex leader di AQ, Zawahiri ha ripetutamente mostrato che può imparare dai suoi errori e si è dimostrato capace di lavorare con gruppi che non sono ideologicamente alleati.

Cogito ergo sum. Il pensiero di Zawahiri attraverso i suoi video messaggi.

Gennaio 2016: quello che potremmo chiamare l’ufficio stampa di AQ: Sahab, diffonde tre nuovi messaggi di Ayman al Zawahiri: due messaggi audio e una dichiarazione di 7 pagine.

Nel primo messaggio audio, di 7 minuti, dal titolo: “Al Saud, assassini dei mujahideen”, Zawahiri incoraggia il popolo saudita ad insorgere contro la monarchia e critica il governo saudita per l’esecuzione di più di 40 prigionieri agli inizi del mese di gennaio. Il leader di Al Qaeda asserisce che l’uccisione di più di 40 mujahideen e del prominente religioso sciita Nimr al Nimr è stata eseguita per servire gli interessi degli Stati Uniti e dei “crociati”. Il messaggio di Zawahiri è preceduto dal filmato di una riflessione di Anwar al Awalaki, un ideologo di Al Qaeda nella penisola arabica che fu ucciso da un drone americano nel 2011. Il video serve ad enfatizzare l’importanza del martirio sulla scia delle esecuzioni del governo saudita. Awlaki afferma: “il martirio è come un albero, frutti crescono e maturano e poi arriva il tempo per raccogliere questi frutti. Questo accade in stagioni specifiche. E’ cosi che gli schiavi di Allah passano attraverso stadi fino a quando raggiungono la fase in cui è tempo per loro diventare martiri”.

Il video si conclude con un’ultima frase di Awlaki: “perciò l’albero del martirio nella Penisola Arabica ha già frutti maturi su di esso ed il tempo per raccoglierli è venuto, così l’Onnipotente Allah prenderà da questi martiri”. Queste parole, anche se sono state utilizzate in precedenza, servono a spiegare il presunto valore dei martiri di Al Qaeda.

Il secondo messaggio audio è l’episodio 8 della serie di Al Qaeda “Primavera islamica”, lungo più di 24 minuti. Zawahiri si concentra fondamentalmente sul Sud Est Asia, specialmente l’Indonesia, Malesia e le Filippine. Statuisce che la regione ha bisogno di un risveglio jihadista come le altre parti del mondo. Il messaggio si apre con un video di un’intervista rilasciata alla CNN di Amrozi Nurhasyim, indonesiano imprigionato e giustiziato per il suo ruolo negli attentati di Bali nel 2002 in cui furono uccise 202 persone di cui 88 turisti australiani. La fine del video ritrae gli autori dell’attacco a Bali e Abu Bakar Bashir, un religioso radicale jihadista.

La terza dichiarazione include la condanna scritta di Zawahiri dell’Arabia Saudita per il suo ruolo nella guerra siriana.

L’ultimo messaggio viene diffuso da Sahab il 25 agosto; è il terzo episodio della serie: “brevi messaggi per una Ummah vittoriosa”. Nel primo episodio della nuova serie Zawahiri maledice i Fratelli Musulmani egiziani, nel secondo chiama i musulmani al supporto dei talebani afghani e respinge la recente presenza dello “stato islamico” in Afghanistan. Nell’episodio: “Abbiate timore di Allah in Iraq”. Il leader di AQ si aspetta chiaramente che lo “Stato islamico” continui a perdere terreno, argomentando che i sunniti dell’Iraq dovrebbero riorganizzarsi per una guerriglia protratta allo scopo di sconfiggere l’occupazione iraniana delle regioni, cosa che hanno già fatto in precedenza.

Le critiche di Zawahiri sull’approccio dello “Stato islamico” nel dichiarare il jihad in Iraq durano in tutto 4 minuti. Ayman sottolinea come AQ e lo “Stato islamico” abbiano sviluppato strategie molto differenti nell’intraprendere il jihad. Dove AQ vuole essere vista come una forza popolare rivoluzionaria, servendo gli interessi dei musulmani, lo “Stato islamico” si propone come un regime autoritario che cerca apertamente di imporre il suo volere alla popolazione.

I leader di AQ ritengono che la metodologia dello “Stato islamico” nel portare avanti il jihad aliena le popolazioni musulmane, situazione che facilita i nemici nel distruggere i sunniti.

Zawahiri ritiene che gli jihadisti in Iraq debbano rivedere le proprie esperienze per evitare di commettere gli errori che li hanno portati alla separazione dalla comunità islamica. Questi errori hanno portato i jihadisti a cadere negli abissi dell’estremismo e del “takir” (la pratica di dichiarare altri musulmani come non credenti)”.

Zawahiri afferma che “la battaglia è una”

Il leader di AQ collega il jihad in Iraq con quello in Siria rilevando che i mercenari e le milizie appoggiate dall’Iran combattono in entrambi i paesi. Afferma, inoltre, che l’Iran e i suoi alleati cercano di annientare i sunniti in tutto il Medio Oriente. Sostiene che i sunniti sono stati torturati e decapitati in Iraq con il pretesto di combattere lo “Stato islamico” di Baghdadi, ma la vera ragione è da ritrovarsi nell’espansionismo dell’Iran.

Zawahiri afferma che gli iraniani e gli americani hanno raggiunto un accordo che permetterebbe alla “coalizione crociata-iraniana-alawita (l’alleanza occidentale, l’Iran e le forze del regime di Assad) di inghiottire l’intera regione.

Sebbene Sahab abbia sofferto di ritardi nella produzione dei comunicati negli ultimi due anni, la recente diffusione di tre episodi della serie di Zawahiri: “brevi messaggi per una vittoriosa Ummah”, indica che l’apparato ufficiale di comunicazione della leadership di AQ è tornato in pista, in grado di diffondere regolarmente contenuti.

 

Agosto 20 2016

Burkini versus bambino ferito e bombe come se piovesse

Burkini versus bimbo ferito e bombe a gogo

Mentre in Europa si discute sul burkini, in Siria si continua a bombardare tutto e tutti con la scusa di combattere lo “Stato islamico”.

Vi propongo una riflessione diversa, un modo di guardare il mondo con un occhio meno populista e più attento.

Mentre in Europa si fa un gran parlare del burkini e si fa una gran confusione sul modo di coprirsi delle donne di fede musulmana, in Siria si ripete ogni giorno, il dramma di una guerra civile senza fine. Qualche giorno fa è comparso il video e la foto di un bambino coperto di polvere, ferito in Siria, ad Aleppo.

Il burkini versus bimbo ferito

Quel video e quella foto, che io non pubblicherò per rispetto del minore, è stata diffusa da un gruppo di attivisti siriani. Un modo duro, crudo, per sensibilizzare il mondo intero cieco e drammaticamente lontano da quello che avviene in Siria. Molti hanno pensato che quella foto fosse un oltraggio al minore, uno sciacallaggio, un pretesto per qualche minuto di notorietà.

Vi propongo la mia visione della storia.

Stando ai numeri che vi mostro in questa tabella,

Burkini versus bambino ferito e bombe a gogo

 

da quando è iniziata la guerra civile sono morti a causa dei bombardamenti quasi 6000 bambini, il che mi sembra, non so a voi, un numero decisamente elevato.

Diffondere la foto di un bambino vittima di un bombardamento aereo, che può definirsi sproporzionato, non necessario su un edificio civile ad Aleppo, (violazione delle regole stabilite dal diritto internazionale umanitario) resta uno dei pochi modi rimasti per scuotere le menti dei potenti.

Personalmente non credo che le menti dei potenti si scuotano o che le loro coscienze possano avere un cedimento. Ho sentito diverse volte, nel mio ruolo di consulente di politica internazionale, la tragica frase: “se l’obiettivo militare prevede che ci siano delle vittime, beh è il prezzo da pagare per raggiungere l’obiettivo“.

Possiamo ragionare all’infinito sull’orrore della guerra, ma esistono delle regole precise per cui la guerra non può diventare il luogo dove tutti fanno un po’ quello che gli pare.
Bombardare ospedali è diventato oramai da fatto illecito nel diritto internazionale umanitario, un fatto all’ordine del giorno in molti paesi. Non distinguere più tra combattente e non combattente, altra circostanza a cui oramai nessuno ci fa più caso. Ed è proprio questo non farci caso, questo volersi chiudere gli occhi che fa scivolare l’intera umanità verso un baratro di menefreghismo totale.

Gli aiuti umanitari che non riescono ad arrivare alla popolazione siriana, perché dall’inizio del mese non è stato permesso a nessun convoglio di raggiungere le aeree assediate, questo non riempie nessuna pagina di giornale, di telegiornale, di quotidiano.

La Russia che continua allegramente a fare come le pare, addirittura utilizzando una base aerea iraniana per  le missioni di bombardamento in Siria, in palese violazione della risoluzione 2231 del Consiglio di Sicurezza che vieta la fornitura, vendita o trasferimento di aerei da combattimento all’Iran a meno che non sia approvato in anticipo dal Consiglio di Sicurezza. Ci si accontenta della dichiarazione del ministro degli esteri russo Sergei Lavrov che asserisce che gli aerei sono utilizzati dalle forze aeree russe con il consenso dell’Iran nel quadro dell’operazione anti- terrorismo in Siria su richiesta del governo “legale” siriano.

Ora ci sarebbe da chiedersi se questa operazione contro lo “Stato islamico” considera “terrorista” ogni uomo, bambino, donna, civile, membro dell’opposizione ad Assad, malato.

E il burkini?

Prima di tutto chiariamoci le idee sui tipi di velo utilizzati in diversi paesi.

HIJAB

hijab

copre capelli e collo. (Utilizzato prevalentemente in Egitto, Tunisia, Marocco, Algeria. Personalmente l’ho visto spesso indossato dalle donne pakistane)

 

 

NIQAB

niqabvelo che copre il volto della donna e che lascia gli occhi scoperti. (Utilizzato prevalentemente in Arabia Saudita, Yemen, Emirati Arabi Uniti).

 

 

 

BURQA

burqaper lo più azzurro, con una griglia all’altezza degli occhi, copre interamente il corpo della donna. (Utilizzato prevalentemente in Afghanistan)

ABAYA

abayalungo dalla testa ai piedi, leggero ma coprente, lascia completamente scoperto il volto. (Utilizzato prevalentemente nei paesi del Golfo Persico)

CHADOR

chadorgeneralmente nero, indica sia un velo sulla testa, sia un mantello su tutto il corpo. (Utilizzato prevalentemente in Iran)

Se solo si fosse pronunciata la parola sicurezza

Piuttosto che trattare la questione del lato dell’integrazione, se non altro perché in Italia esiste (grazie al cielo) la libertà di culto, sarebbe stato auspicabile che i termini si fossero sviluppati sulla sicurezza, sulla necessità che almeno il viso sia scoperto.

Il problema a mio avviso è che molti si accontentano di spiegazioni sbrigative, di commenti superficiali che possano contribuire al pensiero distorto che si ha su determinate situazioni. Commenti che possano avvalorare le personali tesi, piuttosto che criticarle o peggio ancora metterle in dubbio.

Io sono una sognatrice e continuerò a sognare che questo mondo possa risalire da questo burrone di banalità e superficialità.