Agosto 11 2016

Trump – Putin: l’inizio di una lunga storia d’amore?

Trump

Trump e Putin sembrano molto più vicini di quello che appare. Il primo paga come direttore della sua campagna elettorale l’amico degli oligarchi russi ed il secondo si augura la vittoria di colui che può mettere la Russia in una posizione di vantaggio geopolitico.

Partiamo dall’inizio: la Clinton accusa Vladimir Putin di aver incoraggiato l’intelligence russa a violare i documenti del Comitato Nazionale Democratico e dare a WikiLeakes migliaia di email come parte di uno schema più ampio allo scopo di far eleggere Donald Trump come presidente.

La prima cosa che viene da chiedersi è: “perché Putin vorrebbe influenzare le elezioni presidenziali americane?“. 

Si possono “immaginare” diversi motivazioni, ad esempio, la voglia di aumentare le difficoltà di una campagna elettorale già abbastanza controversa. La Russia vede gli Stati Uniti nel loro punto più basso, Putin è persuaso che gli Stati Uniti giochino il loro nefando gioco nella politica russa; Mosca vorrebbe minare la credibilità internazionale americana mettendo in luce le deficienze nella politica partitica americana.
Inoltre, Putin ritiene che gli Stati Uniti l’hanno già fatto a lui. Secondo il presidente russo gli Stati Uniti si sono per primi immischiati nella politica russa quando Putin decise di ricandidarsi per il terzo mandato.

Facciamo un breve salto nel passato: 2011/2012, le strade della capitale russa erano piene di dimostranti che protestavano per le violazioni elettorali nelle elezioni parlamentari e la mancanza di candidati alternativi per l’elezione presidenziale. Secondo Putin la colpa era degli Stati Uniti, asserendo che l’allora segretario di stato Hillary Clinton aveva o incitato ovvero direttamente finanziato i dimostranti.

Nel pensiero di Putin, l’Occidente cerca sempre di abbattere la Russia. Il prossimo anno sarà il centenario della rivoluzione russa e quest’anno si celebra il 25° anniversario della dissoluzione dell’Unione Sovietica. Nella visione globale russa, prima la Germania nella Prima Guerra Mondiale, e poi gli Stati Uniti nella Guerra Fredda hanno tratto vantaggio dalle divisioni domestiche e dalle vulnerabilità e lo stato russo collassò due volte in un secolo.

Uno degli obiettivi primari di Putin è di forzare i leader occidentali ad indietreggiare per essere sicuro che questo non accada di nuovo.

Putin vuole che gli Stati Uniti e i governi occidentali smettano di finanziare, come parte della loro politica estera, organizzazioni che promuovono le trasformazioni politiche ed economiche in Russia. Vuole, inoltre, evitare che i funzionari americani incontrino figure e partiti di opposizione.

Nella prospettiva di Putin, la promozione della democrazia è solo una copertura per un cambio di regime.

Prima di essere leader della Russia, Vladimir Putin era un ufficiale del KGB, il servizio segreto dell’era sovietica, e questa esperienza continua a modellare, condizionare le sue visioni ed azioni. Putin affronta i suoi rapporti con gli Stati Uniti con la logica di un operativo sotto copertura, immerso in congiure e cospirazioni. È pronto a combattere in maniera sporca e si affida agli elementi della sorpresa tattica per assicurarsi il massimo effetto.
Putin ha due caratteristiche che lo distinguono da altri leader mondiali: conosce come “lavorare con il popolo” e “lavora con l’informazione”.

Nel KGB, Putin ha imparato come esplorare le vulnerabilità delle persone, scoprire i loro segreti e utilizzare informazioni compromettenti contro di loro.

In questa visione, gli altri leader mondiali sono essenzialmente “obiettivi”.  Il presidente russo raccoglie informazioni e attentamente confeziona su misura il suo approccio ad ogni leader per vedere come può superarlo con astuzia. Per farvi un esempio, vi racconto di come Putin abbia giocato sulla paura dei cani di Angela Merkel per metterla a margine in un incontro nella sua dacia. Egli permise che il suo Labrador nero annusasse intorno e si stendesse ai piedi del cancelliere tedesco. In molte occasioni ha mostrato che dei funzionari occidentali conoscesse informazioni personali da i loro vecchi file del KGB.

I documenti del Comitato Nazionale Democratico probabilmente non sono stati dati a WikiLeaks dall’intelligence russa, ma la selettiva diffusione di email, in un frangente dove con tutta probabilità possono ottenere la massima attenzione dei media internazionali ed avere il più negativo impatto nella politica degli Stati Uniti, ha il segno caratteristico di un’operazione considerata attentamente.

Trump – Putin: l’inizio di una lunga storia d’amore

Si specula molto sul fatto che Putin potrebbe vedere Donald Trump come qualcuno con cui fare affari e che nutra del risentimento verso Hillary Clinton.

L’elogio di Trump verso Putin come “forte leader” è un sostanziale punto di rottura con la linea generale dei politici americani e dei leader d’opinione che castigano Putin e criticano la Russia. Dall’altra parte, Putin ha fatto dei commenti apparentemente favorevoli a Trump.

In questo quadretto si può aggiungere la circostanza che, sia in pubblico che in privato, Putin e altri ufficiali russi hanno reso chiaro l’opinione negativa della Clinton. Già in un’intervista del 2014 ad una televisione francese, Putin aveva strigliato la Clinton per i commenti che lei fece su di lui, notando che era “meglio non discutere con una donna” e che la Clinton non era mai stata “raffinata nelle sue dichiarazioni”.

In ultima analisi, non ci si può aspettare, ragionevolmente, che Putin possa influenzare il risultato delle elezioni presidenziali americane. La migliore speranza di Putin è di ridurre l’abilità di chiunque si sieda nello studio ovale di perseguire politiche a detrimento degli interessi suoi e della Russia.

Vi propongo dunque un’altra chiave di lettura

La Russia avrà le elezioni parlamentari a settembre, tra un mese dunque, e le elezioni presidenziali nel 2018, quando Putin, ci si aspetta, si candidi per il suo 4° mandato. Le informazioni dei documenti del Comitato Nazionale Democratico per il pubblico russo e per il mondo, sottolineano che la politica americana è “sporca” come quella russa e come in qualunque altro paese. In questo modo gli Stati Uniti vengono mostrati molto meno credibili come autorità morale sulla condotta delle elezioni.
Indipendentemente che sia eletto Trump o la Clinton, nella prospettiva di Mosca, alla fine di questa rovinosa campagna politica, il nuovo presidente americano si presenterà ferito così come si presentò Putin quando entrò in carica nel 2012. Un presidente americano che è eletto tra controversie e recriminazioni, insultato da un consistente segmento dell’elettorato e impantanato nelle crisi domestiche, che incontrerà serie difficoltà a forgiare una politica estera coerente e a sfidare la Russia.

La visionaria politica estera americana di Donald Trump.

Donald Trump ha dichiarato al New York Times che potrebbe non andare in soccorso di uno stato baltico, tutti e tre membri NATO, se la Russia dovesse invaderli. Trump ha poi spiegato che la sua esitazione scaturisce dalla preoccupazione che gli Stati membri della NATO non paghino i loro conti. Resta, tuttavia evidente, quando si parla dell’Alleanza Atlantica, che le affermazioni di Trump vanno al di là dei dollari e dei centesimi. Le  sue ultime dichiarazioni risultano essere coerenti con altri commenti sulla Russia, su Putin e la NATO.

L’insieme di tutte queste dichiarazioni ci indicano che se diventasse presidente Trump, le relazioni tra gli Stati Uniti e la Russia subirebbero una trasformazione. Ricordiamo che Trump ha chiamato la NATO: “obsoleta”, mentre suggeriva a gran voce il miglioramento di legami bilaterali con la Russia.

Trump è rimasto sorprendentemente vago circa i dettagli di quasi tutti i suoi piani politici, tuttavia le sue dichiarazioni ci suggeriscono che in un’amministrazione Trump, gli Stati Uniti si tireranno indietro dalle aree di conflitto con la Russia, garantendo a Putin molta più libertà di movimento sulla scena globale.

È anche probabile che l’amministrazione Trump si limiti nel criticare le pratiche autocratiche del governo russo, incluso la limitazione della libertà di stampa e le repressioni contro l’opposizione politica.
Se Trump vincesse, la relazione tra Mosca e Washington potrebbe includere un canale non ufficiale, dietro le scene, percorso, con tutta probabilità dall’uomo che guida la campagna di Trump: Paul Manafort.

Paul Manafort: la lunga mano russa che guida la campagna elettorale di Trump

Manafort è arrivato a Trump dopo aver fatto miracoli in Ucraina a fianco dell’ex presidente Viktor Yanukovych, uno stretto alleato di Putin. Nel corso di più di una decade, è diventato molto familiare ai potenti giocatori nella regione.
Manafort arrivò a Kiev nel tardo 2004, quando gli ucraini anti corruzione e pro – democrazia erano nel bel mezzo della Rivoluzione cosiddetta “orange revolution”; assunto da Yanukovych, come consulente della campagna elettorale. Quando il popolare leader dell’opposizione, Viktor Yushchenko, fu ad un soffio dalla morte dopo essere stato avvelenato con la diossina, presumibilmente da agenti russi, la sua faccia sfigurata non fece altro che dipingere Yanukovych come il cagnolino di Putin.
Manafort non aveva abbastanza tempo per salvare il suo cliente che perse malamente le elezioni di quell’anno. Molti pensarono che la carriera di Yanukovych fosse finita, ma guidato da Manafort, giocò una lunga partita. Il 2010 fu l’anno di un’altra elezione. L’obiettivo principale di Manafort era quello di muovere Yanykovych più vicino all’occidente, ma di fatto quello che lui fece fu confezionare un’immagine di Yanukovych, alleato ucraino di Putin, che lo faceva apparire più vicino a Washington. Questa operazione ha incluso finanche un photoshop con il presidente Barack Obama in modo che gli elettori ucraini in contrasto con Mosca sarebbero stati propensi a sostenerlo. La vittoria di Yanukovych diede il via ad una rivolta che è terminata con Yanukovych che scappa da Kiev per trovare esilio a Mosca.

Gli anni in cui Manafort ha lavorato nella regione gli hanno permesso di sviluppare relazioni con persone molto vicine a Putin e gli oligarchi russi sono diventati i suoi partner d’affari.

Il modello d’affari di Manfort consisteva nel condurre due operazioni parallele. Una di consultazione politica, l’altra di investimenti che vedevano il continuo guadagno finanziario dai suoi legami sviluppati durante la campagna elettorale per cui lavorava.
La parte politica degli affari, che sembrava specializzata nell’aiutare dittatori, faceva un po’ storcere il naso e qualche volta colpì l’attenzione degli organi di polizia giudiziaria. I procuratori americani accusarono uno dei clienti di Manafort di essere un membro dell’intelligence pakistana. Uno dei suoi partner, il miliardario russo Oleg Deripaska, conosciuto come l’oligarca favorito di Putin è stato oggetto di investigazioni in molti paesi.

Tanto per darvi un’idea del tipo di legame: Deripaska assunse Manafort per aiutarlo quando l’FBI revocò il suo visto americano, tra gli altri, per possibili legami con il crimine organizzato. Manafort e Deripaska, in seguito divennero partner nelle telecomunicazioni ucraine.

Se Trump dovesse diventare presidente, uno dei suoi più visibili cambiamenti nella politica estera americana sarà incentrato sui legami con la Russia. Forse più drammaticamente, ancorché meno visibile, i cambiamenti presumibilmente saranno condotti sotto la guida di Manfort.

Luglio 20 2016

Erdogan: l’asso piglia tutto. Chi perde è la democrazia.

Erdogan

Se avete applaudito al fallito coup in Turchia sappiate che chi ha perso è la democrazia.

Non c’è nessuna ragione per pensare che la democrazia in Turchia sia rafforzata perché il coup d’état è fallito. Erdogan ha risposto epurando tutti i suoi nemici, reali ed immaginari, e spingendo sull’acceleratore di nuovi poteri che porteranno la reputazione della Turchia indietro di secoli, così come la sua economia e la sua capacità di essere stato leader, costruttivo per la Regione.

Erdogan ha vinto la Turchia ha perso

Per qualche tempo le tensioni in Turchia si sono dipanate attorno ai piani ambizioni di Erdogan di espandere i poteri della presidenza. Le sue mosse sempre più crescenti ed insistenti di eliminare l’opposizione e di espandere la sua autorità hanno iniziato a preoccupare seriamente molti. Ci si chiede se la Turchia possa essere l’eccezione alla regola che dice che i paesi con una forte classe media non riescono a far  regredire le dittature.
La Turchia ha fatto esperienza di quel tipo di sfide che forzano i leader a rafforzare la loro presa: multipli attacchi terroristici contro locali pubblici e turistici. Di nuovo in guerra con i curdi del PKK (Kurdistan Workers Party), i milioni di rifugiati siriani.
L’ascesa di un partito islamico come quello di Erdogan: Justice and Development Party (AKP) è stato un anatema per i militari che si vedono come il bastione del secolarismo e i guardiani della democrazia. Tuttavia Erdogan nel suo primo anno in carica ha efficacemente ri-bilanciato le relazioni civili – militari, facendo in modo che non avessero più desiderio di inserirsi di nuovo nella vita politica del paese.

Alcune curiosità sul coup

Questo coup non ricade nella dicotomia “secolare contro religioso” della moderna Turchia. Ci si sarebbe aspettati che i cospiratori del coup fossero particolarmente preoccupati dall’agenda islamica di Erdogan, ma non è stato questo non il caso. Sembra, piuttosto che abbiano agito perché il governo stava per purgare i militari e i supposti sostenitori di Fethulah Gulen, un influente religioso/uomo d’affari (vive negli Stati Uniti) che una volta era un alleato di Erdogan, ma adesso è considerato come un nemico dello Stato. Così questi militari hanno agito apparentemente per prevenire ogni mossa contro i “gulenisti”.

Erdogan è l’asso piglia tutto

I numeri di questa epurazione ci suggeriscono che il governo è stato a lungo impegnato a scrivere una lista dei suoi nemici per poterne tirare fuori una come questa:
– 3,000 giudici
– 8,000 ufficiali di polizia
– 3,500 soldati
– 120 generali e ammiragli
– 492 religiosi
– 257 funzionari nell’ufficio del Primo Ministro.

Un secondo aspetto ironico della vicenda è che sia i militari che i media turchi (spesso assediati) hanno aiutato a invertire il coup. I primi  hanno aiutato Erdogan a scappare da un resort di vacanze solo pochi minuti prima che i carri armati bloccassero le strade e i media hanno permesso che il presidente diffondesse il suo messaggio di mobilitazione al pubblico attraverso i social media sulla televisione nazionale. Militari e media sono due istituzioni per cui Erdogan ha personalmente mostrato disdegno ed ha sempre cercato di diminuire la loro influenza.
Un’altro aspetto tristemente ironico è il grande costo economico di questa crisi. Il successo politico di Erdogan nella scorsa decade e mezza si è basato sulla sua promozione della Turchia come centro globale per il commercio ed il turismo; sulla responsabilizzazione di piccoli imprenditori che non erano parte dell’elite.

Le ferite che si è auto – inflitto per la sua ambizione presumibilmente porteranno dolori economici per lungo tempo a molti dei suoi sostenitori. Il settore turistico è già stato colpito da attacchi terroristici e dal boicottaggio russo, la nuova incertezza politica aggraverà il problema.

Alcuni dei suoi vicini non democratici preferirebbero un leader forte decisivo.

Ed ecco quindi che dopo le prime celebrazioni del coup fallito, maldestramente fatte anche dal Presidente del Consiglio italiano, si sostituiscono alla sensazione che la Turchia dovrà combattere per riottenere il suo equilibro democratico.

Giugno 28 2016

Art. 50 Trattato di Lisbona: se non lo sai sallo!

Art. 50

Per chi si è chiesto almeno una volta: “cosa prevede l’art. 50 (clausola di recesso) del Trattato di Lisbona?”, ecco la risposta.

Nel fiume incontrollato di informazioni tragiche (alle volte comiche) che si rincorrono su ogni mezzo di comunicazione, facciamo un breve viaggio nell’art. 50 del Trattato di Lisbona, la c.d. clausola di recesso.

Prima di iniziare il viaggio, una breve considerazione politica. Uno spunto in più per disegnare le vostre idee sulla vicenda della Brexit.

Giochi di palazzo

Quando il primo ministro David Cameron, nel gennaio 2013, ha promesso agli inglesi che avrebbero potuto dire la loro sulla posizione futura del loro paese nell’Unione Europea (UE), l’ha fatto per ragioni ciniche. Sperava che avrebbe definitivamente messo ko la crescente minaccia dalla destra nazionalista, dell’Independence Party, al suo partito ed era sicuro di mettere a tacere molti euroscettici nel suo stesso partito conservatore. Voleva, inoltre, porre il Labour Party sulla difensiva presentando il suo partito come più supportivo di una democrazia più diretta.

La circostanza che onestamente trovo ilare è che la maggior parte dei politici che si oppongono alla Brexit, incluso lo stesso Cameron e l’ex primo ministro Gordon Brown, hanno speso la loro intera carriera a criticare l’UE e Bruxelles. Adesso si trovano in questa posizione scomoda di difendere un’organizzazione di cui sono stati largamente scettici.

Art. 50 Trattato di Lisbona

Primo comma

Il primo comma dell’art. 50 prevede che “ogni Stato membro può decidere di recedere dall’Unione in accordo con le proprie esigenze costituzionali”. Secondo questo articolo la decisione di lasciare l’UE non è di immediata esecuzione (self-executing), neppure ha un effetto immediato. Piuttosto, lo Stato in questione deve per prima cosa “notificare al Consiglio Europeo la sua intenzione” di lasciare l’Unione; notifica che da avvio ad un processo di negoziazione per il recesso.

Secondo comma

La speranza, stabilita nel secondo paragrafo dello stesso articolo, è che i restanti membri dell’UE e la nazione che vuole recedere dal Trattato, “concluderanno un accordo stabilendo le disposizioni per il suo recesso, prendendo in considerazione la realizzazione di una “cornice” per la sua futura relazione con l’Unione”. Tale accordo deve essere approvato da una maggioranza qualificata del Consiglio (20 dei 27 membri), dal Parlamento Europeo e del Regno Unito stesso.

Terzo comma

Il terzo paragrafo specifica che il Trattato di Lisbona (e, implicitamente tutte le altre leggi dell’UE) “devono cessare di applicarsi” allo Stato alla data in cui l’accordo di recesso entra in vigore.

Se non si raggiunge un accordo, l’appartenenza all’UE cessa “2 anni dopo la notifica” di recesso, a meno che il Consiglio e il Regno Unito  si accordino all’unanimità per un’estensione. Una volta che il Regno Unito è ufficialmente uscito dall’UE, potrebbe tornare ad essere Stato membro solo seguendo le procedure stabilite dal Trattato di Lisbona applicabili agli Stati che vorrebbero aderire all’UE per la prima volta.

Quindi?

Il Regno Unito è ancora uno Stato membro dell’Unione e lo rimarrà fino a quando il governo inglese non notificherà formalmente al Consiglio Europeo il suo intento di recedere. L’articolo 50 non dice niente, sul quando e da chi deve essere presentata questa notifica. Presumibilmente, dal primo ministro. Prima del voto David Cameron ha dichiarato che avrebbe informato il Consiglio Europeo subito dopo il “leave vote”. Giovedì scorso ha annunciato che la notifica sarà presentata dal suo successore che s’insedierà in carica ad ottobre. Perché? Avendo condotto una campagna contro la Brexit e avendo perso, Cameron vuole che sia qualcun altro ad azionare il motore del processo di recesso del paese.

Quindi finché il Regno Unito non gira la clessidra dei due anni per l’uscita, ha una sorta di vantaggio politico nelle negoziazioni con gli altri 27 stati membri.

Per quanto tempo il Regno Unito può procrastinare la notifica?

L’art. 50 non lo dice. Le conseguenze negative sia economiche che politiche sicuramente spingeranno le due parti al tavolo di negoziato senza tenere in considerazione il momento temporale in cui il Regno Unito presenterà la notifica di recesso.

Contrariamente a quanto qualcuno ha dichiarato, tuttavia, le negoziazioni di recesso non risolvono necessariamente in maniera conclusiva lo status di Londra vis-à-vis con Bruxelles. Come ricorderete, il secondo comma dell’art. 50 richiede che l’accordo di recesso “prenda in considerazione la realizzazione di una “cornice” per la futura relazione (del Regno Unito) con l’Unione”. Se i dettagli dello status del Regno Unito dopo il recesso possono essere finalizzati in un momento successivo, la legislazione dell’UE cessa di applicarsi al Regno Unito nel momento in cui l’accordo di recesso entra in vigore.

Giugno 24 2016

Brexit: riflessioni in treno

Brexit

È  stata una giornata lunga e a dire il vero sono ancora in viaggio con un ricco 120 minuti di ritardo. Una chiacchierata con il taxista che mi portava dal dipartimento di giurisprudenza della Luiss alla stazione termini mi ha dato l’idea di scrivere qualche riga e condividere con voi il mio pensiero a proposito del referendum in Gran Bretagna.

Brexit = referendum consultivo

Nessuno si è accorto che era un referendum consultivo per cui la decisione finale dovrà essere presa dal parlamento inglese.

Confesso che non sono esperta di politica economica per cui non farò come quelli che copiano da alcuni giornali proiezioni finanziarie.

Mi limito invece al mio campo. Un referendum su una materia così complessa andava evitato. Non perché il popolo non abbia il diritto ad essere consultato ma perché la materia richiede conoscenze specifiche in tanti ambiti che difficilmente si trovano nella mente della generalità delle persone. Il guaio è che quando i giochetti politici vengono portati fuori dai palazzi e scaricati sulle spalle del popolo non si fa un servizio alla democrazia ma al populismo.

Ho fatto questo esempio al taxista: se la sua autovettura non funziona lei la fa riparare difficilmente dice alla sua famiglia decidete voi se tenerla rotta o buttarla. Potrebbe prima provare a ripararla, no?

Così per l’Unione Europea. Non funziona e allora modifichiamo alla luce dei principi di trasparenza quello che non va.

Come ho detto gettare sulle spalle di un popolo questo tipo di referendum è un’azione scellerata di coloro che hanno ben altre ambizioni.

 

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Giugno 15 2016

Strage di Orlando: motivazioni personali con marchio ISIS

strage di Orlando

Riveste un’importanza vitale distinguere tra attacchi “ispirati all’ISIS” e “diretti dall’ISIS”.

La strage di Orlando sembra più il tentativo di una persona carica di odio di avere uno status, un pubblico.

Questo attacco non si inserisce nel quadro di attacchi diretti al raggiungimento degli obiettivi dell’organizzazione estremista, ma piuttosto come l’azione di un meschino che con il marchio ISIS ha cercato di raffigurare il suo atto come eroico.

I primi rapporti dalla strage indicano che Omar Mateen è un lupo solitario: vale a dire un individuo che è ispirato dall’ideologia di un gruppo estremista ma che non è sotto il controllo operativo dell’organizzazione. Dunque è necessario riconoscere la differenza tra attacchi “ispirati dall’ISIS” e “diretti dall’ISIS”. Gli attacchi ispirati dall’ISIS molto più probabilmente sono amatoriali.

La strage di Orlando ci mostra cosa un solitario con le giuste armi può fare, ma quando l’ISIS dirige un’attacco, come quello di Parigi, beh i risultati sono molto più sanguinosi.

Strage di Orlando: motivazioni personali sotto il marchio dell’ISIS

Ad Orlando, come a San Bernardino lo scorso dicembre, sembra proprio che l’attacco sia un misto di motivazioni personali con il marchio dell’ISIS. Dal momento che i lupi solitari operano per conto loro, le loro agende personali spesso si mischiano e confondono a quelle del gruppo estremista a cui loro dichiarano di appartenere. Dai rapporti degli investigatori sappiamo che Mateen era un omofobo: suo padre racconta che il figlio diventava nervoso quando vedeva due uomini baciarsi.

Sebbene l’ISIS non abbia mostrato particolare amicizia per gli omosessuali non sono particolarmente in alto nella loro lista, e la loro propaganda in Occidente non si è focalizzata su di loro in maniera pressante.

L’Islam utilizzato per giustificare azioni di individui sull’orlo della violenza e dargli uno status ovvero un pubblico.

La strage di Orlando sembra rappresentare la dinamica per cui l’Islam è usato da un individuo già sull’orlo della violenza per giustificare le sue azioni e dargli uno status o almeno un pubblico, come è appena successo a Mateen. La sua ex – moglie ha dichiarato che era violento nei suoi confronti e non  particolarmente zelante nella fede.

Lo stile degli attacchi dell’ISIS è differente

Negli attacchi diretti dall’ISIS a Parigi abbiamo visto molteplici attentatori che lavoravano in gruppi. Il bilancio finale delle vittime, 130 ci suggerisce molto sulla loro efficacia. Alcuni dei cospiratori dell’organizzazione sono stati in grado di adottare un basso profilo e la loro connessione gli attacchi di Parigi, si è scoperta molti mesi dopo.

Sia a San Bernardino che ad Orlando, invece, il sospettato è diventato la vittima come parte della risposta all’attacco, diminuendo gli effetti psicologici che avvengono quando un attentatore attivo è ancora libero di tramare qualcosa.

I più recenti attacchi ispirati all’ISIS non mostrano una logica simile che li collega agli obiettivi dell’organizzazione (obiettivi simbolici o di importanza militare), ma piuttosto sembrano più il tentativo di un tiratore di far apparire il suo atto come eroico.

Che fare?

Fermare gli attacchi dei lupi solitari è davvero molto difficile. Viste le leggi permissive  per l’acquisto di armi negli Stati Uniti, anche qualcuno come Mateen che ha presumibilmente abusato di sua moglie e ripetutamente oggetto di investigazioni dell’FBI, può comprare un’arma automatica perché non ha ancora apertamente sostenuto un gruppo estremista.
Si potrebbe promuovere un senso di resilienza e evitare di demonizzare i musulmani (in questo caso americani).

In conclusione, a mio avviso, è necessario riconoscere che individui Omar Mateen debbano essere raffigurati come persone cariche di odio e meschine, ma non come rappresentative di una minaccia più ampia tra i musulmani o come parte di complotto grandioso dell’ISIS.

*immagine: http://www.pinknews.co.uk/

Maggio 24 2016

Hezbollah: il partito di Dio con la legge del terrore

Hezbollah

Hezbollah significa partito di Dio. Un gruppo che ha usato ed usa la tattica del terrorismo, che controlla territorio in Libano di fatto sostituendosi allo stato.

Cerchiamo di capire l’ideologia, gli obiettivi, le risorse, gli amici e i nemici di questa organizzazione. Soprattutto vedremo quale impatto ha avuto ed ha la guerra civile in Siria su Hezbollah.

Hezbollah: l’ideologia e gli obiettivi

Gruppo sciita. Secondo il manifesto del gruppo del 1985, gli obiettivi erano quelli di distruggere Israele, espellere l’influenza occidentale dal Libano e più in generale dal Medio Oriente e combattere i loro nemici in Libano, particolarmente il Phalanges party. Nel manifesto si affermava anche di voler “permettere” ai libanesi di scegliere un governo ad una condizione: solo un regime islamico poteva far terminare ogni ulteriore tentativo di infiltrazione imperialistica nel paese. Quando la base di Hezbollah si allarga e include sciiti più moderati, i leader dell’organizzazione: Hassan Nasrallah e Na’im Qassem evidenziano che il manifesto è oramai disconnesso con le operazioni e gli obiettivi del gruppo.

HezbollahUn nuovo manifesto del 2009 riflette i cambiamenti dell’organizzazione e del suo ruolo in Libano. Enfatizza l’unità nazionale e denuncia il settarismo, non da più come sola opzione la governance islamica per il futuro del Libano. Tuttavia, continua a sottolineare che il suo obiettivo è quello di liberare la Palestina, la sua opposizione agli Stati Uniti e il suo impegno a combattere l’espansione e l’aggressione di Israele.

Hezbollah: risorse

Hezbollah è sostenuto dall’Iran dalla Siria e da una rete di finanziatori nel mondo, specialmente nella penisola arabica, Europa, Medio Oriente e Stati Uniti. Molti dei suoi fondi arrivano da donazioni private e da profitti generati dai affari leciti ed illeciti. Gruppi ed individui sostengono Hezbollah all’estero: dal commercio dei diamanti in Sierra Leone alle frodi delle carte di credito negli Stati Uniti.
La maggior parte dei membri di Hezbollah sono sciiti libanesi, ma l’organizzazione ha la capacità di reclutare a livello globale.
Dalla creazione di Hezbollah, l’Iran e le sue Guardie Rivoluzionarie hanno giocato un ruolo importante nell’addestramento, rifornimento e finanziamento del gruppo. Le Guardie Rivoluzionarie hanno addestrato migliaia di militanti e continuano a fornire supporto.
Il governo siriano ha ricoperto un ruolo chiave come via di rifornimento per le armi dall’Iran ad Hezbollah, anche fornendo direttamente armi al gruppo.

Hezbollah: attività politiche

Hezbollah è attivo nella politica libanese come partito politico. Tuttavia, prima che formasse un partito ufficiale dopo gli accordi di Taif nel 1989, il gruppo partecipava al discorso della politica nazionale attraverso i media. Poi nel 1984 pubblica il settimanale al – Ahad e di seguito inizia la produzione di due stazioni radiofoniche. Nel 1989 crea la sua stazione televisiva  Al – Manar. Attraverso questi mezzi di comunicazione forniva un commento alla politica, assieme alle notizie, ai programmi culturali, islamici e la propaganda associata con la battaglia dell’organizzazione contro Israele e le forze occidentali.
Il partito si presenta alle elezioni nazionali per la prima volta nel 1992 e vince 8 seggi alle elezioni parlamentari. Da questo punto in poi ha regolarmente vinto circa il 10% dei seggi parlamentari.
Nel Maggio del 2008 il governo inizia a seguire un piano per chiudere la rete privata di telecomunicazione di Hezbollah, la violenza scoppia nelle strade di Beirut. Speculazioni che la violenza avrebbe dato vita ad un coup d’etat rientra quando la Lega Araba media un accordo tra il governo ed Hezbollah. L’accordo, chiamato Accordo di Doha, assegnava ad Hezbollah il potere di veto nel governo e prometteva che nessun gruppo politico potesse usare le armi in dispute all’interno del paese.

Hezbollah: principali attacchi terroristici

  • 23 ottobre 1983: attacco suicida alle caserme americana e francese a Beirut furono uccisi 241 americani e 58 francesi. Sebbene non sia mai stato rivendicato dal gruppo, molti analisti sono d’accordo nell’affermare che l’autore dell’attentato sia stato Hezbollah. A seguito di ciò, Reagan ritira i marines americani dal Libano.
  • 17 marzo 1992: una bomba su un camion esplode all’ambasciata israeliana a Buenos Aires, uccidendo 29 e ferendone 242.
  • 25 giugno 1996: attacco bomba al complesso di case Khobar Tower in Arabia Saudita, uccidendo 19 persone.
  • 14 febbraio 2005: una bomba su un auto uccide l’ex primo ministro Rafiq al – Hariri uccidendo altre 21 persone. Nel 2011 il Tribunale Speciale delle Nazioni Unite per il Libano accusa 4 membri di Hezbollah per l’attentato.
  • 18 luglio 2012: bomba su un bus israeliano in tour in Bulgaria, 5 israeliani morti più il conducente del bus.
  • 28 gennaio 2015: missile anticarro verso soldati israeliani nella disputa sull’area Har Dov tra il Libano e la Siria, due morti. Nello stesso giorno un altro incidente alla frontiera tra Israele ed Hezbollah, un membro della Forza Interim UN viene ucciso.

Hezbollah: relazioni con la comunità libanese

Durante la guerra civile libanese,

Hezbollah

lo stato spesso era inefficiente come fornitore di servizi, così organizzazioni di servizi civili, incluso Hezbollah, hanno iniziato a giocare un ruolo significativo nella fornitura di servizi essenziali ai cittadini libanesi, soprattutto agli sciiti. Il governo è spesso accusato anche di ignorare i bisogni dei cittadini del sud del Libano, dove sono concentrati gli sciiti e dove Hezbollah mantiene il suo quartier generale. In questo contesto, di una comunità marginalizzata, Hezbollah sviluppa la sua capacità di fornitura di servizi sociali. Si guadagna la reputazione di movimento dei poveri dal 1980. Profondamente immesso nel tessuto sociale sciita libanese, usa il raggio d’azione sociale per cementare il supporto politico, recluta nuovi membri e diffonde la sua interpretazione dell’Islam. Nel sud del Libano apre scuole, ospedali, raccoglie i rifiuti, fornisce assistenza finanziaria e fornisce acqua potabile.
Per realizzare questo tipo di lavoro, l’organizzazione comprende un settore di servizi sociali organizzato da molteplici ONG raggruppate attorno a tre rami: unità sociale, unità sanitaria islamica ed unità educativa. Il lavoro dell’unità sociale abbraccia numerose aeree dalla costruzione di infrastrutture al sostegno alle famiglie dei membri del gruppo uccisi o alle vittime civili dei bombardamenti israeliani del sud del Libano del 2006. L’unità sanitaria include un certo numero di ospedali e cliniche, in aggiunta a programmi di salute. L’unità di educazione fornisce borse di studio e mette in funzione scuole.

Hezbollah: oggi

In un discorso del 20 maggio 2016, il leader di Hezbollah promette di rafforzare la presenza del gruppo in Siria. Dopo una settimana dall’uccisione a Damasco di Mustafa Badreddine, un prominente comandante di Hezbollah. Sebbene alcuni rapporti indichino che è stato ucciso in un bombardamento israeliano, la versione ufficiale di Hezbollah asserisce che il comandate è stato ucciso da bombe d’artiglieria di terroristi “takfri” (apostati). Mustafa Badreddine è stato responsabile di alcuni degli attacchi più spettacolari del gruppo incluso il bombardamento del 1983 alle caserme degli americani a Beirut. La sua morte è più di un segnale che la posizione del gruppo in Siria sta cambiando.
Quando il gruppo ha iniziato a mandare combattenti in Siria nel 2012, lo ha fatto senza darne pubblicità. Il leader del gruppo sapeva che la sua organizzazione aveva molto da perdere in ammettere che stava dalla parte di un dittatore in una rivoluzione popolare. Hezbollah più che aiutare il dittatore, in realtà aiutava se stesso.
Nasrallah alla fine ammette pubblicamente il sostegno ad Assad ed al suo padrone, l’Iran, dichiarando “la battaglia è nostra”.
La Siria ed il Medio Oriente sono molto differenti dal 2012. L’Iran è parzialmente tornato in carreggiata per via dell’accordo internazionale sul programma nucleare. La Russia è intervenuta a fianco di Assad. La rivalità tra l’Iran e i suoi vicini arabi è diventata più aspra. Lo stato islamico è diventato un giocatore maggiore, circostanza che ha aumentato le rivendicazioni di Assad come sola alternativa al terrorismo nel paese.

Hezbollah: il prestigo che scema

Senza dubbio, il prestigio di Hezbollah nel mondo arabo è precipitato. La sua immagine di nemico solitario di Israele si è appannata. Ha assunto il ruolo di colui che intensifica la divisione regionale sunniti – sciiti, con conseguenze disastrose per la sua reputazione negli stati governati dai sunniti.

hezbollahA marzo 2016, il Gulf Cooperation Council – GCC –  (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Bahrain, Oman, Qatar) hanno votato all’unanimità la classificazione di Hezbollah come organizzazione terroristica. La mossa arriva all’indomani della scoperta (agli inizi di quest’anno) di una serie di piani terroristici che coinvolgevano operativi di Hezbollah nei paesi arabi, incluso uno in Bahrain. In Kuwait 25 persone sono state accusate di spionaggio per conto dell’Iran ed Hezbollah e di pianificare attacchi; inoltre è stato scoperto in loro possesso un quantitativo di armi che includeva lancia razzi, fucili e granate.
Dopo la decisione del GCC, l’intera Lega Araba si è aggiunta alla classificazione del gruppo come organizzazione terroristica. Solo il Libano e l’Iraq hanno espresso “riserve” circa la designazione. Con questa mossa, il GCC e la Lega Araba si sono aggiunti agli Stati Uniti, al Canada e all’Australia nel classificare Hezbollah come un’entità terrorista. L’Unione Europea chiama solo il braccio militare di Hezbollah organizzazione terrorista.
In aggiunta a questo, Hezbollah ha perso un gran numero di militanti sul campo di battaglia siriano. Tra i morti ci sono anche i più alti operativi e strateghi del gruppo incluso Imad Mughniyeh e Samir Kuntar, in aggiunta a Badreddine. Queste perdite sono un serio colpo per il gruppo, che con tutta probabilità avranno conseguenze durevoli.
Hezbollah ha guadagnato una inestimabile esperienza militare in Siria. Quando la guerra finirà emergeranno rafforzati nella battaglia, addestrati all’uso di equipaggiamenti militari più avanzati ed esperti in tattiche da combattimento incluso quelle sviluppate dall’Iran e dalla Russia.
Molti esperti di intelligence credono che Hezbollah abbia rimpiazzato gli armamenti che ha perso nel 2006 sorpassando i precedenti livelli.

Hezbollah: impatto della guerra in Siria e futuro

L’organizzazione si è evoluta da quando l’Arab Spring ha scosso la regione: ha mantenuto la sua ostilità nei confronti di Israele e degli Stati Uniti, ma è diventato un giocatore prominente nella politica libanese e nella società, si è gradualmente allontanato dall’obiettivo di importare una rivoluzione islamica stile – Iran.
La Siria è costosa per il gruppo, nei 5 anni di conflitto, la grande quantità di vittime tra le loro fila li ha portati, forzatamente, ad espandere il reclutamento. La guerra civile in Siria sta anche mettendo a rischio la posizione di Hezbollah in Libano, nella forma di rifugiati e di radicalismo settario che  turbano la delicata pace nella nazione.
La guerra civile siriana ha avuto un effetto trasformatore sull’immagine pubblica di Hezbollah. Sebbene il gruppo fu stabilito per combattere contro gli interessi della comunità libanese sciita durante la guerra civile in Libano, l’obiettivo principale è stato quello di espellere Israele cosa che ha fatto nel 2000. Ciò ha reso ampiamente popolare Hezbollah nel mondo arabo e musulmano.
Sostenere il regime di Assad è stato disastroso per la reputazione di Hezbollah di movimento di resistenza che combatte i sionisti e i nemici occidentali. Come uno dei gruppi più effettivi militarmente a favore degli interessi di Assad e dell’Iran, è stato denigrato in tutto il mondo sunnita. La recente designazione da parte del GCC e della Lega Araba come organizzazione terroristica, sebbene Hezbollah abbia una lunga storia di terrorismo, mostra il significativo spostamento nelle percezioni regionali.

La perdita della popolarità del gruppo potrebbe iniziare a sbiadirsi alla fine della guerra in Siria. Nasrallah si vorrà confrontare con Israele appena potrà. L’obiettivo principale del gruppo e la missione del suo alleato di lungo corso, l’Iran, resta quella di sfidare Israele. Quando un nuovo ed inevitabile scontro tra Israele ed Hezbollah avverrà, il supporto popolare per il gruppo con tutta probabilità aumenterà di nuovo. Nasrallah è già al lavoro per incitare questo supporto. In un recente discorso si è vantato di un piano per attaccare Israele e causare danni paragonabili a quelli di un attacco nucleare. Il suo piano, ha detto, è di lanciare missili ad una grande infrastruttura chimica nel nord nella città di Haifa, dove depositi di cisterne di ammoniaca, se colpiti possono causare devastazione.

L’impatto finale della guerra siriana su Hezbollah dipenderà da come finirà il conflitto. Se terminasse con un accordo di divisione del potere che porta alla fine il governo di Assad e di altri fedeli iraniani a Damasco, Hezbollah avrà perso molto nel conflitto. Se Assad sopravvivesse i sostenitori dell’Iran – Hezbollah e Assad – verrebbero generosamente ricompensati con armi, denaro e con tutta probabilità accesso al territorio strategicamente utile vicino alla frontiera con Israele. In questo caso Assad rimarrebbe debitore in eterno di Hezbollah ed il gruppo emergerebbe più forte.

Maggio 16 2016

Fratelli Musulmani: fratelli serpenti?

Fratelli Musulmani

I Fratelli musulmani, nati come movimento sociale in Egitto, sono stati banditi in diversi paesi come organizzazione terroristica. Sono davvero pericolosi?

I Fratelli Musulmani sono fondamentalmente un movimento sociale islamico, che educa i suoi membri a vedere prima di tutto il valore del servizio, attraverso le lenti della religione. Un aspetto centrale per il fondatore Hassan al – Banna e caratteristica che definisce i contemporanei Fratelli Musulmani è che il servizio ai concittadini è un atto di costruzione della proprio paese e un atto di servizio per la propria popolazione.
I movimenti islamici come i Fratelli Musulmani sono interessati nel preservare le strutture come lo stato – nazione, dall’altra parte, alcuni gruppi salafisti e molti gruppi jihadisti non condividono questa prospettiva. Questi ultimi non vedono le persone dei loro paesi come loro concittadini; non vedono gli odierni stati – nazione come i loro paesi e quindi è facile per loro decidere di smantellare quello che c’è già e stabilire quello che vedono come paesi paralleli. Condannano e denigrano il riconoscimento dei Fratelli Musulmani dello stato – nazione e rivendicano di cercare quello che loro credono essere la sola legittima forma di comunità nell’Islam: un califfato transnazionale.

Il pensiero di Banna sul califfato

L’articolazione del pensiero di Banna sul califfato è molto breve: “il califfato è un’articolazione di un’unità con base ampia“. Egli affermava che i Fratelli Musulmani cercavano di ri – stabilire un califfato ma altresì asseriva che erano molti i passi da compiere per raggiungere i prerequisiti prima che il califfato potesse iniziare ad essere una nozione realistica, come integrazione culturale, economica e sociale così come l’evoluzione di trattati che definiscano e abbraccino la mutua cooperazione che dà vita ad un’entità che assomigli alla lega delle nazioni musulmana. Attraverso la storia, i Fratelli Musulmani hanno sostenuto l’unità progressiva e vie per una più grande cooperazione tra tutte le nazioni, secondo i principi di rispetto reciproco.
Per i Fratelli Musulmani, i principali elementi chiave sono morali e religiosi. La fornitura di servizi nella forma di aiuto all’educazione accessibile o sanità, distribuzione di cibo serve diversi obiettivi: aiuta le persone bisognose, porta con sé un ritorno spirituale per gli individui coinvolti nella fornitura di assistenza e migliora la società. Se il risultato della fornitura di servizi guidata dalla Fratellanza è che il regime è spinto ad impegnarsi in ulteriori forniture di servizi e migliora la sua risposta ai bisogni della popolazione allora è un successo.

Tutto ciò mette in difficoltà l’idea di molti politici “occidentali” e scrittori che assegnano alla parola califfato il sinonimo di tutto ciò che deve essere temuto dell’Islam e dei musulmani. Sebbene alcuni timori siano credibili e sicuramente richiedono un esame approfondito: libertà religiosa, eguaglianza, altre preoccupazioni sono mere estensioni della visione dei musulmani come un lontano “altri”.

Dovremmo chiederci perché “stati” che desiderano una più perfetta unione oppure paesi europei che lavorano verso una più grande unione sono visti sia come neutrali che lodevoli, ed invece le nazioni musulmane che lavorano verso lo stesso obiettivo siano viste con sospetto e richiedano molta attenzione.
L’inabilità di molti analisti nel comprendere una motivazione spirituale, basata sulla fede per le scelte che gli islamisti fanno, individualmente o collettivamente, rappresenta una barriera alla comprensione dell’“islam politico”.

Fratelli musulmani: movimento sociale e politico

Hassan al – Banna era interessato prima al cambiamento e alla riforma dell’ordine sociale e poi al cambiamento dell’ordine politico. Come risultato, l’attenzione era primariamente diretta alla “ummah” piuttosto che all’autorità.

Tuttavia, nel 2004, l’ex guida suprema Mohammed Mahadi Akef annuncia che il gruppo intraprende una nuova fase sotto il nome di “apertura alla società”. Questa nuova fase è stata caratterizzata da una vasta partecipazione politica competitiva e un impegno nella sfera pubblica senza precedenti.

Fratelli Musulmani
foto del clarionproject.com

Dopo la rivoluzione del 2011 in Egitto la capacità di ogni organizzazione sociale di mobilitare le masse rimane limitata nei confronti di uno stato potente. La centralizzazione dello stato moderno, particolarmente nei regimi autoritari, incoraggia la sua dominazione nella sfera pubblica, incluso l’educazione, i media e le istituzioni ufficiali religiose. Inoltre, un numero crescente di membri della Fratellanza, particolarmente i giovani attivisti, si convinsero che raggiungere obiettivi “rivoluzionari” come cambiamenti di regime non possano essere raggiunti attraverso mezzi deboli di “riforma graduale” suggeriti dal fondatore del movimento.

Ci sembra, tuttavia piuttosto improbabile che coloro che sono coinvolti fedelmente a servire le loro società, indipendentemente dalle loro differenze di fede o di linee politiche, potrebbero cambiare a tal punto dal voler distruggere le stesse società attraverso la violenza o il terrorismo.

La Fratellanza sta conducendo un’ampia revisione delle sue pratiche, particolarmente negli ultimi 5 anni dalla rivoluzione di gennaio. Il coup militare del luglio 2013 in Egitto ha forzato i Fratelli Musulmani a ritirarsi in un clima di segretezza dopo che il gruppo ha lavorato apertamente ed al potere durante la presidenza Morsi. Le autorità egiziane l’hanno designato come organizzazione terroristica e bandito circa 1200 istituzioni civili che erano affiliate del gruppo o i suoi membri, per non dire delle centinaia di persone uccise o imprigionate. La Fratellanza fu lasciata senza nessuna opzione se non quella di protestare. Il coup militare ha colpito i Fratelli Musulmani in modi che potrebbero sostanzialmente cambiare l’aspetto del gruppo nei prossimi anni. Fino ad ora il gruppo non ha delineato una visione politica chiara, non ha neppure gli strumenti per rimuovere i militari. Tutto ciò non esclude la possibilità che il clima politico in Egitto possa forzare più individui o gruppi non organizzati ad abbracciare la violenza. Le priorità di questi gruppi non saranno la fornitura di servizi sociali, piuttosto obiettivi politici e relativi al rovesciamento del regime odierno, con la convinzione dell’impossibilità di sfidarlo attraverso mezzi pacifici.

Finanziamento

Durante l’anno di presidenza di Morsi, il Qatar ha prestato al governo egiziano all’incirca 2.5 milioni di dollari. Sempre durante la presidenza Morsi, somme di denaro equivalenti a 850 mila dollari sono state trasferite segretamente ai Fratelli Musulmani dallo sceicco del Qatar Hamd bin Jasim bin Jaber Al Thani. Altri e numerosi trasferimenti di denaro sono intercorsi tra al Thani e i leader della Fratellanza agli inizi del 2013.
La Fratellanza possiede assetti di valore e fonti di guadagno in tutti i paesi in cui opera. In Egitto riscuote tasse e canoni da approssimativamente 600 mila membri e leader come Khairat el – Shater che possiede imprese commerciali come supermercati o negozi di mobili costituiscono un ingente profitto per l’organizzazione.
Il governo dell’Arabia Saudita ha sostenuto finanziariamente la Fratellanza per decadi ma ha ridotto il suo finanziamento dopo che i Fratelli Musulmani sostennero il dittatore Saddam Hussein nell’invasione del Kuwait del 1990.
In tutta la sua storia, la Fratellanza ha imposto, talvolta, la tassa per i non musulmani, sui cristiani o su altre minoranze religiose.

I Fratelli Musulmani in altri paesi

Siria
La Fratellanza siriana fu vietata e esiliata prima della rivoluzione contro Bashar al – Assad. Al momento dell’inizio delle proteste nel marzo del 2011, la Fratellanza si è rimobilitata e mossa per consolidare il potere politico e militare tra l’opposizione. Nell’inverno del 2011, la Fratellanza siriana era uno dei gruppi più potenti nel Syrian National Council. Nel giugno del 2013 fonda un partito politico, il Waad, lanciato ufficialmente nel marzo del 2014.
Giordania
La Fratellanza giordana ed il suo partito politico, l’Islamic Action Front è la più larga forza di opposizione in Giordania. Tuttavia, la Fratellanza è stata fedele alla monarchia, cooperando per molte delle sue politiche.

Attività violente

  • Giugno 1980, tentativo di assassinare Hafez al – Assad usando granate e fucili.
  • Agosto 2013, rubano e mettono a fuoco le chiese egiziane e le stazioni di polizia in risposta alla morte di centinaia di membri e all’imprigionamento di altre migliaia.
  • Marzo 2014: membri della Fratellanza sparano ad un generale ed un colonnello egiziani in una continua rappresaglia contro le forze di sicurezza a seguito della rimozione di Morsi.
  • Giugno 2014: membri della Fratellanza fanno detonare una bomba vicino all’ufficio presidenziale del Cairo, uccidendo due poliziotti.

Nelle liste di organizzazioni terroristiche di:

Bahrain: li ha indicati come organizzazione terroristica nel marzo del 2013; l’Egitto nel dicembre dello stesso anno. La Russia ha vietato che la Fratellanza operasse in Russia nel 2003 e li ha aggiunti alla lista di organizzazioni terroristiche nel luglio 2006. L’Arabia Saudita nel marzo del 2014 e la Siria nel 1980. Gli Emirati Arabi Uniti nel novembre del 2014, nello stesso periodo hanno indicato altri gruppi affiliati alla Fratellanza incluso il Consiglio per le relazioni americane – islamiche, l’International Islamic Relief Organization, Muslim American Society.

Chi li sostiene

Qatar
Il Qatar per lungo tempo ha sostenuto la Fratellanza attraverso vie finanziarie, di diplomazia e attraverso i media.
Turchia
La Turchia è stata un centro per l’organizzazione internazionale della Fratellanza. Soprattutto dopo la caduta di Morsi, Istanbul ha visto la riorganizzazione del gruppo e gli sforzi logistici per rafforzare la comunità internazionale della Fratellanza. La Turchia ha anche fornito armi e intelligence all’organizzazione in Egitto. Quando Sisi è salito al potere, le relazioni tra la Turchia e la Fratellanza si sono indebolite a causa dei timori turchi di rappresaglia da parte dell’Egitto e degli stati del golfo.
Recep Tayyip Erdogan è un loro sostenitore di lungo corso. Erdogan è stato un oppositore vocale della rimozione di Morsi e del regime militare che ha preso il suo posto.

Conclusioni

Quando si tenta di rispondere alla domanda: “i Fratelli Musulmani sono pericolosi?” bisogna tenere bene a mente che la chiusura dello spazio per i servizi sociali, quando è fatta in combinazione con la chiusura di altri modi di vita in Egitto, potrebbe dare luogo all’estremismo da parte di alcuni.

*immagine in evidenza: www.english.ahram.org.eg

Aprile 29 2016

Boko Haram: l’erba cattiva non muore mai

Boko Haram

Boko Haram, come altre organizzazioni simili, ha in sé una sorta di genialità: avanzare verso obiettivi politici attraverso il raggiungimento di enormi effetti psicologici con il minor investimento di risorse possibile.

In realtà quello che aiuta questi gruppi nel recuperare dalle sconfitte militari è la mancanza di attenzione che si dedica alle questioni principali che li sottendono e li fanno crescere.

Verso la fine del marzo di quest’anno, in Italia, rimbalza su tutti i mezzi d’informazione un video in cui Boko Haram dichiara di arrendersi. Chiaramente malgrado la stampa internazionale abbia deciso di non diffondere il video in attesa della conferma dell’autenticità dello stesso, in Italia si dice sempre di tutto. Il gruppo estremista però non tarda a diffondere un video in cui dichiara che non si arrenderà mai. Quest’ultimo video non viene peraltro diffuso in Italia, tanto per lasciare il pubblico nella confusione.

Chi è Boko Haram?

Eccovi una scheda riassuntiva.

Boko Haram

 

Boko Haram è ancora una minaccia

Malgrado i rapporti che dicono che Boko Haram sia stato allontanato da tutti i territori che controllava all’inizio del 2015, il gruppo continua a porre una seria minaccia alla sicurezza delle popolazioni dei quattro paesi attorno al lago Chad: Nigeria, Niger, Camerun e Ciad. Le organizzazioni internazionali hanno difficoltà ad accedere alle aree dei 26 governi locali nel nord Adamawa, sud Borno e est Yobe, più del 30%  della nord est rurale della Nigeria, a causa della persistente presenza dei militanti di Boko Haram.

Oggi Boko Haram assomiglia più ad un’impresa criminale piuttosto che a un gruppo jihadista. Coloro che vivono nei territori controllati dal gruppo, dichiarano che molti degli appartenenti all’organizzazione estremista conoscono solo in maniera rudimentale l’ideologia del gruppo stesso. Radicato nell’influenza, sin dal 2009, del nuovo leader Abubakar Shekau, questa metamorfosi è iniziata con l’espulsione nel 2013 di jihadisti dalle roccaforti urbane a Borno ad opera del personale di sicurezza nigeriano e di vigilanti indigeni conosciuti come Civilian Joint Task Force. In risposta Boko Haram ha iniziato a lanciare raid punitivi sulle comunità che sospettava appoggiassero i vigilanti. Boko Haram si è trovato ad operare in città e villaggi le cui popolazioni non erano musulmane e neanche mosse da visioni di un violento Islam come quelle del gruppo. Per cui Boko Haram ha dovuto ricorrere sempre di più a incentivi materiali, coercizione, rapimento dei minori per riempire i suoi ranghi, cambiando fondamentalmente la composizione del movimento. Malgrado il loro territorio invaso e le linee di comunicazione compromesse, le figure più anziane del gruppo sopravvissute sono ancora attive e per la maggior parte si sono ritirate nei boschi. Lì pare che abbiano abbandonato tutte le pretese di essere impegnati in una guerra santa, saccheggiando le comunità rurali lasciate senza la protezione dell’esercito nigeriano.

La visibile assenza di un fervore ideologico tra i combattenti di Boko Haram non presagisce necessariamente la caduta del gruppo. Esiste ancora un cuore jihadista determinato a portare avanti la sua lotta contro la Nigeria ed i suoi vicini. Al di là di questi fanatici ci sono numerosi ribelli che, mentre forse non sono interessati nel condurre il jihad, restano fedeli all’alto comando di Boko Haram. Le unità individuali di Boko Haram godono di un grado di autonomia operativa che gli permette di conservare la loro coesione e le capacità militari anche quando isolate da gruppi militanti. La distruzione delle linee di rifornimento di Boko Haram ha creato delle sfide logistiche per il gruppo, anche se saccheggiare le comunità vulnerabili ha in qualche modo mitigato questo fatto. E malgrado le recenti sconfitte, Boko Haram non ha sofferto di defezioni in larga scala. Questo ci suggerisce che i militanti di Boko Haram conservano un senso di solidarietà di gruppo oppure che hanno paura di violente rappresaglie da i loro compatrioti o dalle forze di sicurezza nigeriane.

La locazione dei rifugi di Boko Haram, particolarmente la foresta Sambisa, lago Ciad, le montagne Mandara lungo la parte nord della frontiera Cameroon – Nigeria, presenta un grande ostacolo alle operazioni per contrastarli ed eliminarli. Nel loro inaccessibile territorio, queste aree hanno ospitato a lungo gruppi che cercano di evitare il controllo dello stato, sette islamiche dissidenti, tribù, banditi.

A pagare il prezzo sono le comunità distrutte

Per le comunità distrutte, abbandonate a sé stesse nel migliorare i fattori socio – economici, sarà impossibile ricostruire la loro vita, soprattutto se continua la depredazione ad opera di Boko Haram.

La presidenza Buhari è appesa a due minacce: Boko Haram e la corruzione che sottrae linfa vitale alle fondamenta del governo nigeriano e alla società.  Tuttavia, avendo fallito nel riconoscere i due fenomeni e le loro connessioni ci sembra che abbia esigue possibilità di successo.

Mettere in sicurezza il nord – est richiede un livello di presenza dello stato senza precedenti nella regione. Presenza che l’amministrazione Buhari non sembra dare, a parte aver dichiarato che Boko Haram è stato sconfitto, ed esprimere il desiderio di iniziare a ricollocare più di 2 milioni di Internally Displaced Persons, anche se molto del nord est non è colpito dal conflitto. Buhari con la sua pressione sugli aspetti militari del contro – estremismo sta facendo lo stesso errore degli americani che uccidono i combattenti, che sono il sintomo e non la malattia.

Curare il sintomo e non la malattia

Il principale elemento chiave sottostante a Boko Haram è la corruzione.  Un decennio di ricerca sulle motivazioni dei gruppi estremisti dimostra che la povertà non è correlata alla probabilità di unirsi a queste tipologie di gruppi. Una governance inefficiente, l’ingiustizia, specialmente quando combinate con profonde fratture sociali, sono invece motivazioni che spingono gli individui a far parte di queste organizzazioni.

A marzo 2016, il Benin annuncia che contribuirà con 150 soldati alla Multinational Joint Task Force (MJTF), una coalizione dell’Africa occidentale la cui missione è quella di combattere Boko Haram. La Task Force ha approssimativamente un totale di 9,000 truppe, ciononostante è un appoggio primariamente politico piuttosto che un gruppo militare integrato. Le forze armate nazionali perseguono le loro campagne: esplicitamente supportano la narrativa della cosiddetta “soluzione africana ai problemi dell’Africa”, ma implicitamente facilitano il coinvolgimento occidentale nella battaglia contro Boko Haram, spesso su base bilaterale. L’approccio regionale rafforza anche le posizioni politiche di governanti autoritari nella regione.

La MNJTF resta una buona idea in principio: Boko Haram è diventato un problema regionale; tuttavia da un punto di vista politico rimane un’ennesima distrazione rispetto alle situazioni e problematiche oggettive dell’Africa Occidentale.

Aprile 23 2016

Contro – narrativa all’ISIS: quando la iniziamo?

contro-narrativa

Contrastare i messaggi di organizzazioni estremiste, come l’ISIS, è di vitale importanza. Le parole fanno molto più male delle bombe.

Alla domanda: “qual è lo strumento più adatto per combattere l’estremismo, ovvero organizzazioni come l’ISIS?”, molti risponderanno senza esitare “le bombe”. In questa risposta personalmente vedo sempre la superficialità con cui si guarda il fenomeno di organizzazioni complesse, transnazionali violente che si incarnano in ideologie conservatrici, estreme. Trovo, inoltre, che chi risponde che le bombe sono l’unica soluzione possibile, sottovaluti quanto calcolo ci sia dietro ogni singola mossa, piccola o grande di organizzazioni di questo tipo.

I programmi di nation building che costruiscono solo le case di chi si intasca i soldi

Governi di tutto il mondo hanno investito ed investono grandi quantità di denaro in iniziative di contrasto al terrorismo. La panacea a tutti i mali è sempre stata finanziare la famosissima community building, malgrado la totale mancanza di alcuna evidenza che queste iniziative di finanziamento abbiamo in qualche modo prevenuto l’estremismo violento in modo significativo. Se spostiamo la lente più in alto vediamo come a livello mondiale, gli esercizi di nation building e quindi programmi di riforme democratiche, di educazione, sono stati foraggiati di grandi somme di denaro verso regioni e paesi convinti che potessero andare dritti al eradicazione dell’estremismo violento. Il fatto che la Germania e la Gran Bretagna appaiono essere i maggiori fornitori di foreign fighter per l’ISIS rispetto alla Somalia, dovrebbe far riflettere o perlomeno far porre una serie di domande sulla validità dei programmi di cui si parlava poco fa.

Contro-narrativa

Piuttosto che spendere risorse in programmi di nation building il percorso più sensato sarebbe quello di classificare, elencare, la messaggistica che l’ISIS utilizza per raggiungere i suoi obiettivi e in seguito distruggere sia l’integrità del contenuto che la distribuzione.
La macchina della propaganda dell’ISIS è un affare calcolato. Ha 5 obiettivi principali che implicano sempre lo sforzo di semplificazione della complessità del mondo reale in una battaglia stile cartone animato tra il buono e il cattivo. Vediamoli:

–  proiettare un’immagine di forza e vittoria,
– stimolare coloro che hanno tendenze violente abbinando la violenza estrema alla giustificazione morale della costruzione di una sua presunta società utopica,
– manipolare le percezioni di cittadini ordinari in Occidente o nei paesi che il gruppo categorizza come nemici, affinché richiedano e incitino l’azione militare, ed instillare, allo stesso tempo, il dubbio che queste azioni possano avere successo,
– incolpare altri di ogni conflitto e far in modo che il conflitto sia dipinto come risultato dell’aggressione di governi occidentali,
– rielaborare ogni azione contro l’ISIS come un azione contro i musulmani in generale, specificatamente evidenziando le vittime civili.

La messaggistica offensiva

Ognuno di questi obiettivi è vulnerabile alla messaggistica offensiva, ma alcuni messaggi che provengono dall’Europa come dagli Stati Uniti, rinforzano gli obiettivi dell’ISIS. Ad esempio: le nuove storie che descrivono ripetutamente i video dell’ISIS come terrificanti o descrizioni ingigantite della minaccia che presenta l’organizzazione. Coloro che fanno dichiarazioni, anche i programmi televisivi, attraverso cui pensano di combattere il messaggio dell’ISIS con una simile narrativa semplificata, non sanno, evidentemente, che finiscono per rinforzare l’obiettivo dell’organizzazione estremista e cioè di inquadrare il mondo come parte di una battaglia cosmica tra il bene supremo e il male supremo. Non so se avete presente quei programmi tipo tavole rotonde dove sedicenti esperti, aiutati evidentemente dalla voglia di apparire, continuano a brandire lo spettro della guerra di religione, della guerra di civiltà, continuando appunto a perpetrare lo stesso messaggio dell’ISIS: il bene contro il male.

Esposizione delle vulnerabilità

Se attacchi mirati alle infrastrutture di comando e controllo dell’ISIS risultano essere utili, nelle priorità si dovrebbe inserire l’esposizione delle vulnerabilità dell’organizzazione estremista.

Si potrebbero sfruttare le immagini aeree, la sorveglianza elettronica per mostrare quello che realmente accade nella pancia dell’organizzazione. Si dovrebbe dedicare molta attenzione alla documentazione di crimini di guerra e atrocità contro i sunniti nelle regioni controllate dall’ISIS.
Evidenziare semplicemente la barbarie dell’ISIS è inadeguato perché non c’è dubbio che l’organizzazione voglia mandare il messaggio di come tratta i nemici. Per diminuire la forza dell’ISIS si dovrebbero documentare i suoi fallimenti, particolarmente all’interno dei territori che controlla: incidenti in cui le persone si ribellano al loro controllo, corruzione, povertà, infrastrutture inadeguate.
Soprattutto potremmo controbattere alle priorità dei messaggi dell’ISIS rifiutandoci di giocare nella sua narrativa di apocalisse.

Ascoltando la conferenza stampa di Papa Francesco dopo la sua visita a Lesbo mi sono accorta che quella sì, era una contro – narrativa all’estremismo violento. Indipendentemente dalla religione, che come avete visto negli obiettivi dei messaggi dell’ISIS non compare, Papa Francesco ha mandato un messaggio di integrazione, di aiuto per i bisognosi, di accoglienza, di speranza, di un modello di società che abbracci tutti (“siamo tutti figli di Dio”). Ve la propongo, così che la possiate guardare e ascoltare anche da questo punto di vista di contro – narrativa.

 

Aprile 18 2016

Referendum 17 aprile: hanno perso gli italiani

referendum

Il vero perdente del referendum del 17 aprile è stato il popolo italiano.

In questo blog si parla di politica internazionale, si ragiona spesso, del fragile contesto politico di alcuni paesi lontani, di come vengano lesi i diritti fondamentali. Diverse volte si è parlato di come la partecipazione politica dei cittadini venga negata sistematicamente da regimi e di come i paesi occidentali abbiano pensato che rovesciare un dittatore potesse far fiorire tutto di un colpo istituzioni democratiche e riportare il popolo al centro della vita politica.

La saggezza popolare direbbe: “chi ha il pane non hai denti”.

Ieri, 17 aprile 2016, il popolo italiano, recandosi alle urne aveva l’occasione di dire la sua, apporre una croce per esprimere la sua partecipazione alla vita politica. Qui non si fa questione sul sì o sul no, ma sul dovere civico di votareChi non voleva che si abrogasse la legge poteva barrare la casella NO, in fondo era molto semplice.

Esprimere la propria idea, al bar, con gli amici, davanti ad una pizza, dalle righe di un blog o di un giornale, attraverso Facebook, Twitter è giusto, interessante, ma poi bisogna agire, partecipare con lo strumento del voto.

Ieri quando sono andata a votare, con la mia scheda elettorale in mano, mi guardavo intorno, mentre percorrevo il viale per entrare nella scuola media di Santa Maria degli Angeli e vedevo altre persone con la scheda in mano, fiere, come se tenessero tra le mani un’arma. Quella fierezza, per cui qualcuno è morto, è mortificata da quanti hanno scelto di non votare e da chi si è sperticato per consigliare gli italiani a non votare.

E’ molto comodo dire: “ma tanto non cambierà nulla”, per giustificare il non aver votato, piuttosto non cambierà nulla finché eviteremo di usare l’unico strumento che ci permette di essere vivi nella vita politica: il voto.

Fiumi di parole sul fatto che il Presidente del Consiglio, Matteo Renzi, non è stato eletto dal popolo e quando poi ci chiamano a votare cosa si fa? Si resta a casa. Che sia un referendum, che siano le amministrative, le nazionali, il voto, cari lettori, è lo strumento che ci permette di partecipare alla vita politica del nostro paese, se non lo usiamo, scivoliamo lentamente verso un pericoloso sentiero da dove poi è difficile tornare indietro.

 

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