Aprile 6 2016

Iraq: i civili tra l’avanzata delle forze irachene e l’ISIS

Iraq

Iraq: civili che restano intrappolati tra l’avanzata delle forze governative e l’ISIS, paralisi politica e crisi finanziaria. Si pensa all’ISIS, ma chi pensa alla ricostruzione dell’Iraq?

Ci si dimentica facilmente di ciò che non è vicino a noi e così dell’Iraq, dove si combatte per liberare le città dall’ISIS, non si parla più. Eppure proprio la settimana scorsa, decine di centinaia di civili iracheni sono rimasti intrappolati tra l’avanzamento delle forze governative nella battaglia contro lo stato islamico nella provincia occidentale di Anbar. Così come rivela il portavoce del contro – terrorismo iracheno al The Guardian, i civili sono letteralmente intrappolati tra le linee delle forze governative e gli estremisti.

I civili nel mezzo dei due fronti di combattimento

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La scorsa settimana gli attacchi aerei della coalizione sono stati circa 17. I comandanti preparano i piani di evacuazione per le famiglie, le forze irachene lanciano volantini per informare i civili di quali strade possono percorrere in maniera sicura, ma pare che questo non sia sufficiente a prevenire che i civili restino intrappolati.

L’ISIS però aveva già dimostrato, nella battaglia di Ramadi, che all’avanzamento delle forze governative irachene loro indietreggiavano e prendevano in ostaggio civili, rallentando significativamente l’avanzamento delle truppe di terra. Mentre il centro di Ramadi è stato dichiarato sotto il controllo del governo lo scorso dicembre è stato soltanto due giorni dopo che le forze irachene e della coalizione hanno potuto dire che la città era pienamente liberata.

L’ Iraq rivuole Mosul

Le forze militari irachene stanno facendo quel genere di operazioni che la coalizione a guida americana definisce: shaping operations” prima di pianificare l’offensiva per riprendere Mosul. Le forze irachene sono riuscite a spingere fuori l’ISIS da alcuni villaggi vicino a Makhmour. La settimana scorsa si è celebrata la vittoria della “riconquista” della città di Kubaisa nella provincia di Anbar dalle mani dell’ISIS.

Iraq
Gli Stati Uniti hanno impiegato assetti aggiuntivi in Iraq l’artiglieria a Makhmur e sistemi avanzati lancia missili. Ci sono circa 5000 soldati americani in Iraq.

La paralisi politica

Il primo ministro Abadi ha commesso un bel po’ di passi falsi: non si è consultato con i personaggi influenti prima di annunciare la sua agenda di riforme. Ha ripetuto lo stesso errore annunciando un rimpasto di governo, vedendosi svanire nel nulla il suo sforzo perché osteggiato da vari partiti politici in particolare dai gruppi sciiti rivali.
Lo staff del primo ministro sta lavorando su una serie di riforme politiche ed economiche di lungo termine, le riforme strutturali sebbene necessarie richiedono inevitabilmente un lungo periodo di tempo prima che possano mostrare dei risultati.
La riconciliazione tra sunniti e sciiti rimane fievole. Il presidente Fuad Massoum ha riunito un comitato sulla riconciliazione per cercare di spingere in avanti il processo, ma il comitato si incontra raramente e quando lo fa non raggiunge che poco. I leader sunniti sono contenti della volontà di Abadi di decentralizzare l’autorità e le risorse ai governatori delle province di Anbar e di Salah al – Din per aiutare la ricostruzione di Ramadi e Tikrit, ma continuano a guardarlo con sospetto, temendo che queste risorse sostituiscano la possibilità di avere un posto al tavolo a Baghdad.
La leadership sunnita rimante fortemente frammentata, ma il governo fa pochi sforzi per unificarli.

La crisi finanziaria dell’Iraq rimane acuta risultato di prezzi del petrolio persistentemente bassi. Inoltre, le frustranti lungaggini burocratiche e l’aumento di problemi di sicurezza nel sud Iraq (risultato dello spostamento delle forze di sicurezza irachene a nord, per combattere l’ISIS), hanno creato grandi problemi alle compagnie petrolifere internazionali che operano nel sud del paese.
L’Iraq sta negoziando con il Fondo Monetario Internazionale un aiuto finanziario che dovrebbe ammontare complessivamente a più di 9 miliardi di dollari.

Se solo si implementasse la famigerata PHASE IV

E’ un fatto assolutamente acclarato e più volte sottolineato dagli analisti politici di tutto il mondo che la vittoria contro lo stato islamico potrebbe risultare effimera se non si crea un contesto politico che traduce le vittorie militari tattiche in obiettivi politici.
Si parla di Mosul, di toglierla dalle mani dell’ISIS, ma non si è mai sentito parlare di un piano di ricostruzione e stabilizzazione. Ricordiamoci che la famosa fase IV dei piani cioè quella appunto di ricostruzione e stabilizzazione nell’invasione dell’Iraq del 2003, non era stata evidentemente articolata e meno che mai fornita delle risorse necessarie, visto il catastrofico fallimento del post invasione nei successivi 3 anni. Non metto in dubbio che la fase sia stata pianificata effettivamente dai militari, ma evidentemente mai realizzata dalla parte civile, quando i militari si sono ritirati. Il ritorno alla guerra civile nella metà del 2014 è il risultato inevitabile di questi fallimenti, di entrambe le parti, civile e militare. Se si sta pianificando la riconquista di Mosul, e allora costruiamo un piano per la fase successiva, dandogli le risorse adeguate, piano che sarebbe stato meglio pianificare nello stesso momento in cui si pensava di riprendere Mosul.
Il grave problema è che il compito della missione della coalizione, della campagna militare, è quello di distruggere l’ISIS. Stabilizzare l’Iraq sembra essere un compito meno importante, e questo vuol dire meno risorse e meno attenzione. Forse sarà che è difficile imparare dal passato, ma il fatto di distruggere l’ISIS non significa automaticamente che tutti gli estremisti cadano in un buco nero, spazio – tempo, ma potrebbe presumibilmente verificarsi la nascita di una nuova formazione estremista, proprio dalle sue ceneri come fu per AQI (al Qaeda in Iraq) e poi ISIS.

La stabilizzazione e la ricostruzione è quella in cui il fulcro sono i civili. Le città, prima conquistate dall’ISIS, soggiogate ai suoi dettami, poi riconquistate dalle forze governative, non possiamo certo immaginare che non abbiamo bisogno di risorse specifiche o che siano intonse come quando furono costruite.

Marzo 31 2016

Jihad, califfo e califfato: istruzioni per l’uso

jihad

Jihad, califfo e califfato sono i termini più usati nei talk show, ma sanno veramente ciò di cui parlano?

Tutti coloro che cercano di fare chiarezza su temi complessi, per renderli fruibili a tutti, perché ognuno deve poter elaborare una sua personale opinione, sono le voci fuori dal coro, scomode e alle volte finanche fastidiose.  Ritengo invece che sia necessario e oserei dire: fondamentale, conoscere il significato dei termini che si usano, la loro storia, per poter anche decodificare i discorsi di coloro che si servono di questi termini per fare propaganda politica, per l’audience o qualche copia in più. 

Jihad

E’ un termine incredibilmente complesso. Nel Corano esso è utilizzato in riferimento all’attitudine di essere proteso al servizio degli scopi di Dio su questa terra. La parola è stata usata per catturare un ampio spettro di comportamenti che oscillano dal sacrificio spirituale (alle volte ci si riferisce a ciò con il termine greater jihad) al conflitto armato (lesser jihad). Uno studioso indo – pakistano islamista del XX secolo sostenne che dal momento che il mondo stava facendo esperienza di una moderna jahiliyya – periodo di ignoranza che minaccia l’Islam -, era dovere del vero musulmano rispondere a queste crisi combattendo contro l’influenza di individui eretici. Lui raccomandava un approccio metodico per le riforme e soluzioni politiche. Sosteneva che solo un governo può dichiarare il jihad, insistendo che fosse l’ultima possibilità.
Sayyid Qutb salafista, invece, criticava l’idea che governi corrotti potessero essere cambiati da dentro il sistema e sosteneva la rivoluzione. Tuttavia aveva comunque capito che il jihad militante era solo una parte della soluzione ed insisteva che dovesse andare di pari passo alla rivoluzione interna. A dispetto della sua reputazione come fondatore del moderno jihadismo, non esortava alla violenza indiscriminata. Mohammed Abd Al Salam Faraj scrisse che il jihad è secondo solo al credo, un obbligo per ogni devoto musulmano: il jihad militante e l’unica via sostenibile.
Una posizione simile fu articolata da Abdullah Azzam. L’invasione dei non – musulmani nel territorio musulmano ha creato, secondo Azzam, un obbligo d’impegno nel jihad anche se la minaccia non è locale. Azzam essenzialmente sposta i parametri di Qutb verso la difesa delle terre dei musulmani. Jihad difensiva, dunque, risposta giustificata, sempre secondo Azzam, ad una parte esterna che invade uno stato musulmano e in questa situazione i musulmani sono obbligati a rispondere. Pensatori come Qutb, Feraj, Azzam hanno influenzato movimenti salafisti come Al Qaeda e l’ISIS. Ognuno di questi pensatori ha contribuito con un piccolo pezzo agli argomenti utili per giustificare il jihad oggi.

Califfo

Dal momento che il messaggio di Dio indicava che Maometto sarebbe stato l’ultimo profeta, non era chiaro chi dovesse guidare la giovane comunità dopo la sua morte. Secondo un consenso generale la sua famiglia e i suoi seguaci decisero che la comunità sarebbe dovuta essere guidata da un califfo. Non era visto quindi come il sostituto di Maometto o come un profeta, ma semplicemente come leader selezionato per governare nella tradizione che lui (Maometto) aveva stabilito. I primi 4 califfi che governarono consecutivamente dal 632 – 661, conosciuti come Rightly Guided Caliphs continuarono il lavoro che Maometto aveva iniziato supervisionando la compilazione del Corano, consolidando il potere e impegnandosi in una serie di conquiste. La morte del terzo califfo, tuttavia, finì per fratturare la comunità islamica/musulmana in sunniti e sciiti. Per i sunniti, il leader doveva essere qualsiasi componente maschile della tribù Quraysh scelto dalle autorità della comunità. Da qui il termine sunnita che deriva dalla frase “persona della tradizione e della comunità”. Per gli Sciiti, il leader doveva essere un diretto discendente maschio di Maometto. Da qui il termine sciita che è un’abbreviazione di Shi’at’Ali che significa “seguaci di Ali” – genero e cugino di Maometto. Ali, infatti, scelto per essere il quarto Califfo (e l’ultimo dei rightly guided caliphs), fu assassinato e i califfi che seguirono non furono discendenti di Maometto e non ebbero il supporto dell’intera comunità.

Califfato

Durante i primi secoli del califfato, approssimativamente tra il VII e il IX secolo, il mondo islamico fa esperienza di una crescita significativa per una delle società più avanzate dell’epoca. La sua crescita geografica al suo massimo, si estendeva dalla Spagna all’India. Un certo numero di fattori ne determinarono il declino: l’estensione dell’impero rendeva l’amministrazione da un unico punto di potere difficile; le tensioni interne minarono la stabilità del governo. La comunità sciita continuava a sfidare l’autorità del califfo. Per la metà del IX secolo, il califfato era un istituzione indebolita e coloro che credevano nella sua importanza furono costretti a giustificarne la continua esistenza e così facendo offrirono una descrizione accurata dell’ufficio del Califfo: “mantenere l’ortodossia, eseguire decisioni di natura legale, proteggere le frontiere dell’Islam, combattere coloro che si rifiutano di diventare musulmani (quando convocati), raccogliere le tasse (canoniche) e in generale supervisionare lui stesso l’amministrazione degli affari senza delegare troppa autorità”. Doveva avere qualità fisiche, intellettuali, spirituali e appartenere alla stessa tribù di Maometto. Dopo l’assassinio del califfo regnante nel 1258, durante l’invasione mongola di Baghdad, il mondo islamico viene amministrato localmente senza una sovrastruttura di governo che unisca quello che una volta era un vasto impero. Nel XV secolo emergono un numero di potenti imperi musulmani che controllano la regione. Il più importante è l’impero ottomano che “resuscitò” l’ufficio del califfo e durò più di 400 anni. L’impero ottomano collassa nel XX secolo quando i suoi territori vengono divisi tra francesi e inglesi dopo la prima guerra mondiale e il governo turco (3 marzo 1924, Kemal  Ataturk ) che prese il suo posto abolisce l’ufficio del califfato. Malgrado la comunità musulmana sia stata guidata da un califfo per molta della sua storia, l’ufficio del califfato è mutato nel corso del tempo. Il risultato è che i richiami contemporanei per un ritorno al califfato restano poco chiari su come dovrebbe essere ripristinato l’ufficio del califfo.

Marzo 23 2016

Di interventisti da poltrona e altre amenità

interventisti

Dopo gli attacchi di Bruxelles, parliamo di un pericolo tangibile in Italia: gli interventisti da poltrona e la disinformazione.

Quando pensavamo che gli esperti da salotto si fossero estinti dopo gli attacchi di Parigi ecco ricomparire sulla scena l’interventista da poltrona, che seduto comodo con l’ipad in mano ci illumina con le sue svariate competenze e conoscenze.

L’interventista da poltrona

E’ un individuo che compare ovunque, sui social, nelle trasmissioni televisive, nei telegiornali, alle radio e persino sulla carta stampata. Lui sa tutto! Lui sa cosa pensano gli jihadisti violenti, lui sa cosa si doveva fare e soprattutto lui non sa cosa si deve fare. L’unica cosa che sa è che si deve: “andare a combattere” in un imprecisato spazio temporale, in un qualsivoglia paese lontano. Questi personaggi non hanno rispetto per i morti, meno per i famigliari dei morti, per nulla per le persone ferite, scioccate, perché l’importante è dire che lui lo sa!

La disinformazione

Puntuali arrivano tutta quella serie di servizi con le stesse immagini ripetuti fino alla nausea. I titoli attira pubblico, quelle interviste con le domande: “hai avuto paura?“. Oppure quelli fuori dalla stazione Termini a Roma che chiedono ad un ignaro viaggiatore: “lei si sente al sicuro?“. Che domande sono? Forse io non ho la sensibilità per apprezzare questo genere di informazione, che invece di mostrare immagini di vita ci propone le macchie di sangue, le persone ferite, a ripetizione le immagini dell’esplosione (peccato che qualcuno ha messo al posto dell’immagine dell’aereoporto di Bruxelles quelle di un attentato a Mosca del 2011). Il diritto alla cronaca, per carità, giustissimo, ma noi abbiamo bisogno di immagini di vita, dei colori dei gessetti sulla piazza di Bruxelles, abbiamo bisogno di sentire ridere i bambini, non sentire quello straziante pianto del bambino nella metro a Bruxelles, subito dopo l’esplosione. Perché a voler essere precisi, le organizzazioni estremiste di natura religiosa come l’ISIS, si combattono anche attraverso delle campagne di comunicazione mirate. La strategia di comunicazione, di contrasto al loro modo di comunicare, riveste una particolare importanza, soprattutto per chi come loro dell’informazione ne fa un’arma. Lo stato islamico semplifica la visione del mondo in buono e cattivo per fornire terreno fertile alla loro ideologia e dall’altra parte intere campagne di informazione a dire: l’ISIS è il male! Ho letto di un’intervista (spero sia falsa) di padre Amorth che dice che l’ISIS è il demonio. Complimenti! Riproduciamo quello che loro vogliono: la dicotomia tra bene e male, la semplificazione della visione del mondo e l’appiattimento di tutte le sfumature delle nostre società.

L’espertone di intelligence

L’ultimo nato in fatto di figure post attentati è l’espertone di intelligence. Posto che chi scrive ha qualche esperienza nel settore dell’intelligence e qualche corso in questo ambito, mai mi sognerei di dichiarare delle certezze. La colpa dell’attentato di Bruxelles è dell’intelligence è il nuovo slogan. E sentiamo, perché dobbiamo identificare un capro espiatorio? Se poi il Ministro della difesa italiano ieri sera a Ballarò dice che: “non possiamo pensare che i nostri servizi segreti siano più veloci dei terroristi”, beh mi viene da piangere seriamente. Evidentemente al Ministro (Ministra è un’altra amenità di una politicante che mette la “a” e però tollera una discriminazione di genere inquietante nel nostro paese per un governo che ha tolto il ministero delle pari opportunità) era stato detto che è molto molto difficile poter stabilire quando gli attentatori si siederanno ad un tavolo, su una panchina, al bar, alla fermata del bus, al parco, per decidere ora e giorno dell’attentato. Avrebbe potuto rassicurare tutto il paese dicendo, per esempio, che i servizi segreti italiani lavorano indefessamente per la sicurezza della Repubblica e che fanno molto bene un lavoro di prevenzione, sebbene non siano maghi con la sfera di cristallo. Avrebbe potuto magari dire che coloro che si fanno saltare in aria sono proprio l’ultimo anello di una catena, una rete, enorme, le cui cellule non si conoscono tra di loro, che proprio per questo il lavoro di prevenzione è essenziale.

Si può ipotizzare che i politici belgi, il procuratore, siano stati tanto superficiali da divulgare a tutti i costi le dichiarazioni di Salah e che siano stati abbastanza imbranati dal non predisporre misure di controllo più efficaci, posto che ovviamente l’attentatore non va con un segnale luminoso in volto: “sto per saltare in aria”. E’ facile con i fotogrammi dire: “ecco li vedete sono i due che portano i guanti e lì c’è il telecomando”. Ma certo fermiamo tutti quelli con i guanti allora.

La semplificazione a tutti i costi di temi complessi è un danno per tutti.

Sono sempre dell’idea che chi non abbia una formazione su temi complessi come il terrorismo internazionale, piuttosto che gli estremisti di natura islamica, sentendo le trasmissioni televisive e leggendo i giornali si confonda ancora di più e la paura, fisiologica di tutti, si centuplichi. Semplificare a tutti i costi riunendo in un calderone fumante, i temi della migrazione, dell’estremismo, delle religioni è un danno! Non si fa un servizio alla comunità, per qualche attimo di visibilità in più, ridurre tutto ad un unico argomento.

Le quantità di informazioni in mano agli operatori di intelligence noi non le conosciamo, non possiamo dire non si parlano o si parlano poco tra di loro, perché nella realtà a parte la relazione del COPASIR al parlamento, di quello di cui parlano e su cui investigano i servizi segreti, se si chiamano segreti un motivo ci sarà.
Non sono d’accordo che siccome la persona della strada non può capire la complessità del fenomeno dello stato islamico bisogna girare il minestrone del calderone. No, io piuttosto credo che bisogna anzitutto scomporre il problema nelle sue sfaccettature e soprattutto attuare una strategia di contro – comunicazione a quella dello stato islamico. Ritengo inoltre, che intervenire militarmente non è uno gioco elettorale, ci vuole una strategia di lungo termine e non è il solo e unico strumento per sconfiggere la minaccia di un gruppo transnazionale terrorista che al suo interno si comporta come uno stato.

Credo, infine, che i quartieri di Bruxelles, dove hanno sputato ai poliziotti che cercavano i presunti terroristi, siano l’emblema del fallimento delle politiche di integrazione, se mai si siano attuate, visto che quei quartieri, già quando frequentavo io la Scuola Europea (e si parla veramente di moltissimo tempo fa) erano già piuttosto ghetti che quartieri integrati nel tessuto della società belga.

Marzo 22 2016

Riflessione a caldo sugli attentati a Bruxelles

Bruxelles

Bruxelles colpita da esplosioni, la tattica terroristica c’è, in attesa di altre notizie e della rivendicazione, rifletto, a caldo sulla situazione.

ore 7;45 del 22 marzo 2016 l’aereoporto di Bruxelles viene sconvolto da due esplosioni, una mezzora più tardi giornali online, televisioni, social media ci rivelano che un’altra esplosione avviene nella metro di Maelbeek, che corrisponde al cuore delle istituzioni europee.

E da qui inizia un rincorrersi di notizie di tutti i generi, dai nomi sbagliati della metro, ai twitter: ” Rettifichiamo”. E ancora immancabile in Italia: solo in Italia: kamikaze! E’stato un kamikaze. Ricordiamo qui che è del tutto errato parlare di kamikaze, basta semplicemente dire: attacco suicida. Non è difficile!

E i social come Facebook si scatenano in un tripudio di bandiere cuore belga. La Farnesina si affretta a dire che finora non ci sono italiani morti, la solita orribile agenzia di stampa che ci fa sembrare il paese che se non sono morti italiani se ne frega. Scorrendo su twitter trovo una cosa che mi ha veramente stupito. Qualcuno Bruxellessi domanda perché i bombardamenti russi in Ucraina, che pure fanno vittime civili, non ricevono la stessa copertura mediatica degli attentati di Bruxelles di oggi.

Qualcun’altro si chiede perché i morti degli attentati in Turchia non hanno ricevuto la stessa attenzione dai media internazionali.

Bruxelles

Quello che sappiamo è che la tattica terroristica usata è ancora quella degli attacchi simultanei contemporanei su luoghi a grande frequentazione di civili. Non sappiamo null’altro per ora, solo una notizia su Telegram che farebbe capo allo stato islamico, ancora da confermare. Non c’è stata nessuna rivendicazione, le uniche dichiarazioni che abbiamo sentito sono quelle del premier belga.

Come in un copione oramai riprodotto a memoria iniziano le interviste e le opinioni di esperti da salotto, degli interventisti da poltrona, di coloro che sanno già tutto, che lo sapevano. Sì, quelli che lo sapevano che colpivano Bruxelles. E immancabili in Italia, puntuali come orologi svizzeri: è colpa dei migranti! Di quelli che in questo momento annegano nel Mediterraneo. Non si può pensare minimamente, come confermano le indagini sugli attentati di Parigi, che sono immigrati di seconda generazione, gente perfettamente integrata nei paesi europei. Perché non si dice? Presto detto: dimostrerebbe il fallimento dei processi d’integrazione finora adottati. Che il pericolo non era al di fuori delle frontiere europee, ma dentro. Che ci sono tante problematiche irrisolte all’interno del carrozzone dell’Unione Europea, come una struttura condivisa di informazioni di intelligence. Che ogni paese se la canta e se la suona da solo senza agire nel quadro delle istituzioni belghe. Ed indipendentemente da chi rivendicherà gli attentati hanno vinto nel dimostrare la debolezza delle istituzioni belghe nel coordinarsi insieme nel fornire la sicurezza.

E nessuno mai ci dirà che bombardare a tappeto la Siria non è servito a niente. Che uccidere con i droni un leader dello stato islamico non ha fermato niente, che le bombe senza strategia non servono proprio a niente!

 

 

Marzo 21 2016

I russi fuori dalla Siria: sarà vero?

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L’intervento dei russi in Siria ha: addestrato le proprie truppe e ha dimostrato che Mosca è un attore importante nella regione. Il contingente russo che resta non solo è capace di sostenere una guerra, ma di ripristinare la campagna militare ad un cenno di Putin.

L’intervento militare dei russi in Siria ha due scopi fondamentali. Prima di tutto, prevenire la sconfitta militare di Assad e sostenere il regime. Inoltre, perché Mosca possa giocare un ruolo da attore principale nella soluzione della guerra civile in Siria e ancora di più all’interno della regione.

Ritiro russo solo parziale

e con una tempistica non specificata.
La base navale a Tartus e la base aerea a Khmeimim rimarranno pienamente operative, controllate dai russi e sorvegliate dai moderni sistemi di difesa aerea S-400. I consulenti ed istruttori militari russi resteranno nel paese e, secondo alcune stime, Mosca terrà fino a 1000 soldati sul terreno. La fornitura di armi al regime di Assad continuerà.
L’intervento russo ha significativamente indebolito l’opposizione. Assad ha solo ripreso una piccola parte del territorio che aveva perso l’anno prima dell’intervento russo e con le forze del regime impegnate in tanti fronti, sarebbe improbabile per Assad vincere la guerra.

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Un altro punto interessante del ritiro russo è la “relazione” tra Assad e Putin. Proprio perché è curiosa la circostanza per cui Assad, qualche settimana fa, dichiara che vuole riconquistare tutta la Siria e la Russia si ritira. Sembra proprio invece che Mosca voglia recapitare una busta ad Assad con un messaggio: “proteggiamo il territorio, ma non andremo oltre. Devi negoziare un accordo”. Una delle circostanze che ha indispettito Putin è stata l’emanazione del decreto presidenziale di Assad sulle elezioni parlamentari ad aprile. Questa azione è stata vista con tutta probabilità da Mosca come una decisione volta a rovesciare il cronogramma stabilito dagli accordi di Vienna. Il furbetto Assad si è dimostrato il tipo di alleato troppo costoso da mantenere nel lungo periodo.

Gli obiettivi russi

Il principale obiettivo dell’intervento dei russi in Siria è stato quello di garantire a Mosca ed al suo alleato Assad una sedia al tavolo di negoziazione. Prima dell’intervento russo l’occidente parlava della partenza di Assad come precondizione per i colloqui di pace. Se allarghiamo la nostra lente e guardiamo la situazione da un punto di vista più ampio scopriamo che con questo intervento militare i russi hanno dimostrato quanto siano importanti, decisivi, come attori nella regione. Mosca si presenta come l’attore che “risolve” e può incanalare i colloqui di Ginevra come meglio gli aggrada. Che si pensi che Putin è un opportunista tattico o che abbia una precisa strategia, ha raggiunto un obiettivo strategico: rendere la Russia geo – politicamente rilevante, forzando l’Occidente a tenere in considerazione gli interessi russi.

Un altro obiettivo raggiunto dai russi è stato quello di fornire un addestramento cruciale per le truppe di Mosca qualora Putin voglia condurre altre operazioni militari, che siano in Ucraina o in qualche vicino “scomodo”.

E, non da ultimo questo intervento e il conseguente ritiro possono essere venduti all’opinione pubblica russa come una vera e propria vittoria.

Il ritiro russo è solo formale

Alcuni aerei sono tornati in Russia, ma non sappiamo attualmente quanti ce ne siano perché arrivano altri, nuovi. Inoltre, non ci sono numeri di quanti erano all’inizio dell’intervento militare. È stato stimato che c’erano tra le 3 e le 6 mila truppe russe in Siria  e quello che sappiamo ora è che i russi hanno lasciato truppe a sufficienza per supportare logisticamente le loro forze  alla base aerea a Khmeimin e al porto di Tartus

Più importante: il dispiego di dispositivi d’arma così detti area denial weapon cioè quei dispositivi che servono a prevenire la creazione di corridoi umanitari o no – fly zone sono tutti rimasti. Le forze russe che monitorano e dominano lo spettro elettromagnetico sono rimaste.

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Anche i più avanzati velivoli SU – 35 e SU – 30 sono lì. I loro consulenti e l’artiglieria, i decisivi fattori sul terreno stanno ancora guardando il campo di battaglia siriano preparati a cosa debba avvenire dopo. 

Il contingente russo che resta non solo è capace di sostenere una guerra, ma di ricostruire la sua campagna militare ad un cenno d’ordine del presidente Putin. Mantenendo la sua capacità di area denial weapon contro l’occidente e la Turchia, si assicura che non ci siano sforzi per rovesciare il bilancio di potere sul campo di battaglia. Manda un chiaro messaggio alla Turchia e agli altri: la Russia continuerà ad assicurare che nessuno possa capovolgere la sua vittoria o minare il suo peso “riconquistato” nel sistema internazionale.
Un altro importante gruppo di attori non è definitivamente partito dal campo di battaglia siriano: le centinaia di truppe del Revolutionary Guard Corps iraniane, i combattenti di Hezbollah, un certo numero di milizie sciite provenienti dall’Iraq e dal Pakistan.

Se la vogliamo mettere proprio in termini semplici semplici: la presenza significativa di aerei russi non era più necessaria.
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Marzo 18 2016

I migranti diventano merce

Migranti

I migranti diventano merce secondo l’accordo dell’Unione Europea che possiamo tranquillamente chiamare l'”Accordo della Turchia”.

Una pagina imbarazzante della storia dell’Unione Europea e per la dignità della persona umana, soprattutto per coloro che sono stati costretti a scappare dalle loro case a causa di conflitti, persecuzioni. 

L’Unione Europea (UE) e la Turchia hanno raggiunto, all’unanimità, l’accordo sui migranti, parola di Donald Tusk intorno alle 17, 15 circa di venerdì 18 marzo 2016.
Come ha scritto il primo ministro finlandese su Twitter: “The Turkey deal has been approved”. E sì.

Migranti: la Turchia detta le regole

La Turchia ha dettato le sue regole. Tutti i rifugiati e migranti che arriveranno in Grecia da domenica saranno rimandanti in Turchia. L’accordo sembra più un contratto di scambio merce che un’azione volta alla soluzione del problema del flusso massiccio di migranti. La Turchia in cambio avrà la riapertura dei colloqui per l’accesso all’Unione Europea con la promessa che le negoziazioni saranno riaperte prima di luglio.
Ma il pezzo forte è questo, l’UE ha accordato la velocizzazione dell’esborso di ben 3 miliardi di euro alla Turchia per aiutare i rifugiati siriani in Turchia. Ulteriori 3 miliardi per il 2018 una volta che Ankara abbia compilato una lista di progetti che si possano qualificare per l’assistenza dell’UE. Quello che fa gola a Davutoglu oltre al denaro è il viaggiare in Europa senza visto, per i suoi 78m di cittadini. Grande vittoria, l’abolizione dei visti per la leadership turca. La rimozione del processo di visto è un gran salto in avanti della popolarità del Justice and Development Party al governo.
La Turchia ha promesso che tutte le persone che torneranno saranno trattate in linea con il diritto internazionale, inclusa la garanzia che non saranno rispedite nei paesi da cui provengono. Turchia, paese che da sempre ha eccelso nella protezione dei diritti umani!
Il controverso accordo 1 a 1 rimane intatto: per ogni rifugiato siriano che l’UE rimanda in Turchia, un siriano in Turchia avrà una nuova casa in Europa.

Il diavolo è nei dettagli

Il numero dei siriani che possono essere rilocati in Europa dalla Turchia è di circa 72,000 molto meno di quello che le agenzie internazionali hanno Migrantiraccomandato: 108,000. Lo schema di rilocazione sarà fermato quando 72,000 persone saranno rilocate in Europa. E dopo? NON SI SA!
L’alto commissario per i rifugiati delle Nazioni Unite ha sollevato preoccupazioni sulla legittimità nel diritto internazionale e nel diritto dell’Unione Europa, esprimendo disagio sul generalizzato ritorno di stranieri da un paese all’altro. Amnesty International ha definito la proposta “colpo mortale” per i diritti dei rifugiati. Mentre i leader europei credono che le questioni legali possano risolversi dichiarando la Turchia un “terza parte sicura”, questo concetto fa venire i capelli dritti non solo ad Amnesty, ma a tutti noi!
In principio, il diritto internazionale, “rinforzato” dall’Alto Commissario per i Rifugiati delle Nazioni Unite, fornisce un quadro per affrontare questo tipo di crisi. La Convenzione sui rifugiati del 1951 identifica sia gli individui legittimati alla protezione internazionale – coloro con delle ben fondate paure di persecuzione – e quali sono le minime responsabilità degli stati verso questi individui, in particolare il dovere di non ritorno in quei posti dove sarebbero perseguitati. Quando si è scritta la Convenzione del 1951, gli stati si sono esplicitamente impegnati in un principio chiave: avrebbero agito insieme in un “vero spirito di cooperazione” che avrebbe fornito delle soluzioni durature per la difficile situazione dei rifugiati.
Com’è stata la risposta dell’Europa nei termini di questo quadro?
In relazione all’identificazione di coloro che hanno bisogno di protezione, la risposta dell’UE è stata, nel migliore dei casi, mista. Da una parte, c’è stato un consenso, che, dati i violenti conflitti religiosi e politici che scuotono la Siria, coloro che lasciano il paese sono rifugiati secondo i termini della convenzione. Tuttavia, questa identificazione non ha incoraggiato gli stati ad aprire delle rotte legali per i siriani che viaggiano verso l’Europa, non ha prevenuto stati come la Danimarca di minacciare di sequestrare i beni dei rifugiati che arrivano come misura di deterrenza per  nuovi arrivi.
Malgrado le istituzioni comuni, gli stati dell’UE hanno agito in radicali contrastanti vie. L’entità della difficile situazione dei siriani ha teso a legittimare pratiche degli stati per cui si chiude un occhio alle rivendicazioni di protezione di persone di altre nazionalità. E’ evidente dalla chiusura della frontiera macedone: ai siriani e agli iracheni; nell’impegno della Gran Bretagna a ricollocare solamente i siriani – e solo quelli dei campi di rifugiati nella regione. Identificare coloro che hanno bisogno di protezione solo come rifugiati da specifici paesi rischia di violare le norme sui rifugiati, perché ignora i pericoli in cui particolari individui possono incorrere.
Molti stati europei, ansiosi di non vedere più nuovi arrivi, hanno argomentato che la protezione deve essere fornita in qualunque posto fuorché al loro uscio. Alcuni hanno dichiarato che coloro che cercano protezione dovrebbero stare nel paese di primo arrivo in Europa, tipicamente Grecia o Italia.

Migranti
Questo approccio europeo che ha dato vita a questo accordo è problematico moralmente e legalmente. La Turchia non è firmataria di tutta la Convenzione sui rifugiati; ha una dubbia storia di protezione dei diritti umani e prevenire i rifugiati dal lasciare il paese sembra proprio violare il diritto dei rifugiati di cercare asilo.
Finora abbiamo visto quanto poveramente l’Europa si è adoperata per lo “spirito di cooperazione” che è stato immaginato dai firmatari della Convenzione sui rifugiati. Svezia e Germania hanno mostrato livelli di apertura senza precedenti, mentre Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia e Slovacchia, hanno agito in vie che vanno dal filo spinato alla selezione delle richieste di asilo. Il principio di non refoulement, che proibisce espressamente di rimandare i rifugiati verso un un paese dove le loro vite sarebbero minacciate, sancito dalla Convenzione sui rifugiati, sostiene il diritto internazionale dei diritti umani e sembra essere stato messo da parte.

Un giorno triste per l’umanità.

Marzo 17 2016

Tunisia: preoccupati della sicurezza interna

Tunisia

La Tunisia non dovrebbe negare a sé stessa i problemi di sicurezza interna e concentrarsi sulle regioni del sud, possibile fucina di estremisti.

Ricordiamo gli scontri nella città tunisina di Ben Guerdane di qualche settimana fa quando sono stati attaccati posti militari e di polizia. Civili uccisi, 13 ufficiali di sicurezza e 46 estremisti morti. L’assalto, accaduto a circa 32 km dalla frontiera con la Libia è l’ultimo esempio di una pericolosa ricaduta del conflitto libico attraverso una frontiera porosa. L’attacco rivela che anche se lo stato islamico prende piede in Libia, la più significativa minaccia alla sicurezza tunisina risiede all’interno delle sue frontiere. Questo perché i militanti che hanno rivendicato la presa della città come “liberatori” avevano accento locale, secondo i residenti, aumentando i timori che cellule non identificante “dormienti” siano aumentate. I funzionari tunisini hanno ammesso che nessuno dei perpetuatori dell’attacco a Ben Guerdane aveva attraversato la frontiera dalla Libia, piuttosto erano tunisini che vivevano in Tunisia. 

Tunisia maggior esportatore di foreign fighters

La lodevole transizione della Tunisia verso la democrazia dopo il 2011 è stata rovinata da episodi di violenza con picchi nel 2015 con un’ondata di attacchi terroristici, incluso quelli diretti contro il settore del turismo in una già fragile economia. La Tunisia è anche diventata il maggior esportatore di foreign fighters per lo stato islamico e altri gruppi estremisti in Siria.
La Tunisia si affida al contro – terrorismo convenzionale e a tattiche di guerra, andandoci con la mano pesante in assalti su scala militare. La strategia tende ad aumentare l’ostilità e ad alimentare la narrativa anti – statale, perpetrando il problema.
La Tunisia sta facendo il classico errore di rifiutarsi di riconoscere che focalizzandosi su un incidente isolato, si negano le linee che guidano le azioni sistematiche verso la radicalizzazione.
La frustrazione di molti tunisini discende dalle prestazioni governative inefficienti nell’incrementare l’occupazione e dalla gestione dell’economia, particolarmente nelle regioni più povere che sono state il punto focale delle proteste che poi portarono alla caduta di Bel Ali. A gennaio ci sono state delle manifestazioni per la disoccupazione nella provincia di Kasserine che si sono allargate fino alla capitale, Tunisi. Le manifestazioni che durarono per settimane furono spente con la mano mortale della polizia. Sebbene sia difficile identificare gli esatti fattori chiave della radicalizzazione, i tunisini marginalizzati, frustrati da una persistente povertà e un apparente governo inefficace, vedono gruppi come lo stato islamico come una risposta alle loro lamentele.

Tunisia + problematiche sociali irrisolte = risposta aggressiva all’estremismo religioso

Invece di avere come obiettivo le problematiche sociali che aiutano a nutrire l’estremismo a casa, la Tunisia ha adottato una risposta aggressiva di contro- terrorismo in risposta a minacce domestiche – interrogando o mettendo sospetti terroristi agli arresti domiciliari e istituendo un divieto di viaggio che ha impedito a centinaia di tunisini, particolarmente i giovani, dal lasciare il paese. Misure che erano tipiche del regime di Ben Ali.

Costruire una recinzione (con i buchi) non è la panacea per tutti i problemi

Tunisia

Con il supporto statunitense ed europeo, la Tunisia ha completato la recinzione lungo la frontiera con la Libia, costruzione iniziata dopo l’attacco al resort di Sousse. (la stessa Europa che si stupisce perché i suoi stati membri costruiscono recinzioni, finanza la costruzione di recinzioni fuori dalle sue frontiere. Evidentemente è nel filo spinato che si intravedono le soluzioni europee a qualsiasi problema).

Mentre il ministro della difesa tunisino si è detto entusiasta del successo della recinzione, dicendo di aver sequestrato ingenti somme di materiale illegale tra dicembre 2015 e gennaio 2016, la recinzione non è una panacea per i problemi di sicurezza tunisini. Essa copre solo metà della frontiera ed appare più come una trincea; inoltre si parla dell’esistenza di buchi costruiti sulla recinzione per mantenere le rotte di traffici illegali così come frequenti furti delle guardie di frontiera. Molte delle città tunisine di frontiera dipendono dai traffici illegali per sopravvivere economicamente. Mentre beni illeciti (droga, armi e persone) dovrebbero essere prevenuti in entrata, la Tunisia dovrebbe trovare una via per replicare il commercio frontaliero di beni non illeciti.
Sicuramente la roccaforte dello stato islamico a Sirte è una minaccia per la Tunisia, è importante non dimenticare che gli estremisti che conducono attacchi sul territorio tunisino sono quasi esclusivamente tunisini non libici. Si è notato che i tunisini iniziano a ricoprire alte posizioni all’interno dello stato islamico in Libia e che la sua base a Sirte ha incoraggiato alcune migliaia di tunisini che hanno viaggiato verso l’Iraq e la Siria a ritornare nel Nord Africa, ponendo una maggiore, diretta, minaccia alla Tunisia.

Continuare a negare il problema interno alla Tunisia, le difficoltà economiche, particolarmente nelle regioni del sud, la disoccupazione giovanile non farà altro che alimentare la retorica di reclutamento di organizzazioni estremiste come lo stato islamico. Non è colpa della Libia se estremisti, cittadini tunisini, conducono attacchi nel loro paese!

Marzo 8 2016

8 marzo 2016 ricordo le martiri della carità

8 marzo

8 marzo 2016 

8 marzoOggi, 8 marzo, giornata internazionale della donna, voglio ricordare il sacrificio delle Suore di Madre Teresa di Calcutta in Yemen, assassinate qualche giorno fa, con le parole di Madre Teresa per tutte le donne che vedono in questa ricorrenza più di una mimosa e di un augurio retorico.

Il meglio di te

L’uomo è irragionevole, illogico, egocentrico: non importa amalo.

Se fai il bene, diranno che lo fai per egoismo e secondi fini: non importa, realizzali.

Il bene che fai forse domani verrà dimenticato: non importa, fà il bene.

L’onestà e la sincerità ti rendono vulnerabile: non importa, sii onesto e sincero.

Quello che hai costruito può essere distrutto: non importa, costruisci.

La gente che hai aiutato forse non te ne sarà grata: non importa, aiutala.

Dai il meglio di te, e ti tirano le pietre: non importa, da’ il meglio di te.

*foto: theorthodoxchurch.info

Marzo 7 2016

Il labirinto libico

labirinto libico

Il labirinto libico è fatto di divisioni politiche, fazioni estremiste, lo stato islamico e le risorse idriche che se cadessero in mano del gruppo di Abu Bakr al – Baghdadi potrebbero disegnare scenari peggiori di un semplice caos.

In questi giorni le notizie sulla Libia sono state riportate creando, se possibile, più caos di quello che c’è in Libia. Mi sono sempre chiesta: ma come fa una persona che non è del “mestiere” a capire che diavolo succede in Libia?. Cerco allora di aiutarvi a mettere in ordine le idee, se non altro per cambiare canale quando sentite le frasi “beduini del deserto che cambiano idea ogni secondo”. 

Il 17 dicembre 2015 dozzine di delegati delle due compagini governative rivali libiche, così come municipalità locali e la società civile, hanno firmato un accordo delle Nazioni Unite (NU) per formare un governo di unità nazionale. I colloqui sono andati avanti per quasi un anno. Il nascente Governo di Accordo Nazionale (GNA) deve ancora essere pienamente formato. Un consiglio presidenziale di 9 membri è stato stabilito e sta funzionando anche se lavora per la maggior parte da Tunisi. Nel complesso, il processo di divisione del potere indicato nell’accordo è indietro rispetto alla programmazione. La precedente pressione dalla comunità internazionale per restare incollati ad una sequenza temporale spesso affrettata ha dato il via ad errori fatali in Libia, come le elezioni del 2014 senza una massiccia registrazione ed un accordo tra le fazioni per rispettare il risultato. La riconciliazione richiede tempo.
Dopo tutto i due speaker dei parlamenti rivali restano opposti all’accordo. Il leader dell’House of Representatives (HoR) a Tobruk, Agila Saleh, ha ammorbidito la sua posizione dopo che importati tribù nell’est della Libia hanno appoggiato l’accordo, sebbene con la condizione che il ruolo dell’esercito nazionale libico e il suo leader, il Generale Khalifa Haftar sia preservato. A Tripoli, Nuri Abu Sahmain, lo speaker del General National Congress (GNC), ha offerto una concessione al nuovo mediatore delle NU, Martin Kobler, accordandosi per facilitare lo spostamento della Missione Speciale NU per la Libia nella capitale. Nelle ultime settimane, diverse municipalità hanno appoggiato il nuovo governo di unità nazionale con l’offerta del consiglio locale di Benghazi di una capitale temporanea per la Libia, fino a che il governo non sia riportato a Tripoli.

Labirinto libico: i problemi

Il nuovo primo ministro designato, Faize Serraj e Kobler affrontano diversi problemi. Il più stringente è l’ISIS. Il gruppo ha espanso le sue operazioni in Libia, lanciando un’offensiva contro le più grandi istallazioni di petrolio sulla costa e uccidendo dozzine di reclute della polizia. Catturando la piccola città di Ben Jawad, lo stato islamico ha mosso le sue “frontiere” dell’area che controlla lungo la costa libica di 29 km ad est.

L’offensiva dell’ISIS sui giacimenti di petrolio è particolarmente preoccupante. Gli jihadisti sembrano tesi a distruggere piuttosto che prendere il controllo e sfruttare le istallazioni di petrolio, che danneggerebbero permanentemente il budget della Libia, rendendo il lavoro del nuovo governo ancora più arduo. Se avesse successo, l’ISIS potrebbe attrarre nuovi foreign fighters dalla vicina Tunisia, dal Sudan, e dall’Algeria. Questo compenserebbe la mancanza di significativi numeri di reclute libiche che è stata la principale debolezza del gruppo.
L’offensiva dell’ISIS è stata contrastata dalla combinazione di attacchi aerei da Misurata e forze di terra delle Petroleum Facilities Guard, due forze che recentemente si sono allineate rispettivamente con il governo di Tripoli e Tobruk.
I vertici più anziani dell’ISIS sono composti da foreign fighters dall’Iraq, Arabia Saudita e Yemen arrivati la scorsa estate per coordinarsi con i jihadisti locali. Come l’ISIS in Iraq e Siria i ranghi in Libia sono variegati, con cittadini tunisini, sauditi e libici che portano a termine le loro missioni suicide. Il gruppo ha anche intercettato gli jihadisti libici che hanno combattuto con altri gruppi estremisti locali, come Ansar al- Sharia così come i libici che sono tornati dai combattimenti per lo stato islamico in Iraq e Siria.
Mentre lo stato islamico manca di una maggiore base di supporto locale in Libia, la sua presenza nel paese è cresciuta costantemente nei mesi recenti. Il gruppo beneficia della mancanza di una strategia della comunità internazionale. Inoltre, l’ISIS non deve rimanere popolare in Libia per dominare ed espandersi, tutto quello di cui ha bisogno è la perpetuazione dello status quo.
L’altro problema sono le emblematiche radici del caos in Libia. Un mese dopo l’accordo di divisione del potere, il paese ora ha 3 governi, il non ancora funzionante GNA, Tobruk e il governo di Tripoli allineato agli islamisti. Questa settarietà si trascina, malgrado il fatto che 17 paesi che hanno supportato l’accordo di pace, incluso gli Stati Uniti e l’UE, si sono impegnati ad avere a che fare solo con il GNA, una mossa che il Consiglio di Sicurezza ha sostenuto il 23 dicembre 2015.
Inoltre, le divisioni fanno sì che la capitale Tripoli resti isolata. Gheddafi aveva creato uno stato altamente centralizzato, e tutte le leve di potere sono ancora a Tripoli: i ministeri, le agenzie governative e, più importante, la Banca Centrale e la National Oil Corporation: la prima gestisce i soldi del petrolio e la seconda i contratti petroliferi. Per aiutare a riconnettere queste istituzioni chiave con il governo, le Nazioni Unite stanno guidando delle negoziazioni di sicurezza sotto la gestione del generale italiano Paolo Serra, che sta mediando tra le differenti milizie per raggiungere un accordo affinché il nuovo governo possa operare in sicurezza a Tripoli.
Il terzo problema è istituzionale. L’accordo di unità nazionale fa dell’House of Representatives a Tobruk il principale organo legislativo della Libia. Non funziona effettivamente dalla scorsa estate; nei mesi scorsi ha ripetutamente fallito nel raggiungimento di un quorum anche solo per discutere l’accordo politico. Senza la HoR il nuovo governo di unità non può operare pienamente perché manca del voto di fiducia. In più, l’accordo di divisione del potere deve essere supportato da emendamenti costituzionali che devono essere approvati dal parlamento a Tobruk. Il GNC, basato a Tripoli dovrebbe formare buona parte di una seconda camera consultiva conosciuta come State Council la quale, congiuntamente, deve nominare le più importanti istituzioni militari e finanziarie. Ma lo speaker non ha ancora dato il via libera.
Queste nomine militari sono la sfida finale che deve affrontare il nuovo governo di unità.

La grande incognita della falda acquifera Nubian Sandstone

labirinto libicoLa scorsa primavera tre delle quattro nazioni sotto cui si snodano le acque del Nubian Sandstone, il Ciad, l’Egitto ed il Sudan, si sono accordate a continuare il coordinamento per estrarre l’acqua della falda e per una divisione della gestione delle responsabilità. Tuttavia, il caos politico in Libia, la quarta nazione che condivide la falda acquifera, potrebbe far affondare gli sforzi regionali per uno sviluppo sostenibile di questa risorsa vitale.
L’ammontare stimato di acqua accessibile va dai 150 milioni di metri cubici agli 8 bilioni di metri cubici. Come le più grandi falde acquifere del mondo, questa riserva sotterranea si espande in una grande area geografica. Il territorio libico ed egiziano, hanno la quota da leone dell’acquifero e sono stati i più attivi estrattori rispetto al Ciad ed al Sudan.
Nel 2013, la falda acquifera è stata completamente mappata da un gruppo di geologi inglesi, e la Libia ha seguito le altre tre nazioni nel firmare un accordo supportato dalle Nazioni Unite per il coordinamento dell’estrazione dell’acqua e per le abilità dei paesi di monitorare i prelievi così che la falda potesse essere sviluppata sostenibilmente. Due anni dopo, quando i paesi dovevano rinnovare i loro impegni, la Libia era assente.
La connessione tra il caos politico in Libia e la sicurezza delle risorse idriche in Libia non è immediata ma c’è. Per decadi, uno dei più grandi progetti di Gheddafi era il così detto Great Man – Made River, un massiccio progetto infrastrutturale responsabile per l’estrazione e il trasporto dell’acqua della falda sotto e sopra i centri maggiori di popolazione del deserto del Sahara a nord. La rete di trasporto dell’acqua è stata un enorme orgoglio civile soprannominato “l’ottava meraviglia del mondo”. Oggi resta centrale all’identità nazionale del paese e critica per il suo sviluppo economico. Non sorprendentemente l’infrastruttura è diventata il primo obiettivo per i gruppi di insorti che cercavano di far cadere il regime.

Dal momento che i militanti affiliati all’ISIS hanno guadagnato territorio lungo la Libia, hanno visto come possibile obiettivo il controllo dell’infrastruttura lungo il Great Man- Made River. In questo si possono vedere evidenti similitudini con quanto accaduto in Iraq e Syria, (guerra dell’acqua, ISIS e dighe). La Libia è particolarmente vulnerabile a questo proposito. Il sistema di distribuzione dell’acqua si estende per distanze enormi, terreni scarsamente popolati e poco sicuri.

labirinto libico

Diverse settimane fa, i militanti affiliati all’ISIS hanno rivendicato (anche se non è stato confermato) di aver preso il controllo di installazioni lungo il Great Man – Made River, che se vero potrebbero avere enormi implicazioni per il futuro della Libia.
Nel deterioramento della situazione di sicurezza del paese, il comportamento della Libia, su tutte le questioni strategiche, incluso la negoziazione dei diritti delle risorse idriche della falda acquifera Nubian Sandstone, sarà imprevedibile. Inoltre, se gli affiliati dell’ISIS alla fine si assicureranno le infrastrutture libiche per l’estrazione ed il trasporto delle acque del Nubian Sandstone, e le lezioni dall’Iraq e la Siria ne sono un’indicazione, non si preannuncia niente di buono.
Le conseguenze del controllo dei gruppi affiliati all’ISIS della fornitura di acqua della Libia è importante perché la falda acquifera Nubian Sandstone non è una risorsa illimitata. Questo sistema d’acqua sotterranea è conosciuto come una “falda acquifera fossile”, ciò vuol dire che è geologicamente sigillato dalla superficie e non può essere ricaricato da mezzi naturali, come la pioggia che filtra dalla superficie. Mentre la falda acquifera Nubian Sandstone può essere considerata la più grande falda acquifera fossile al mondo: una volta che le acque della falda sono estratte se ne sono andate per sempre! Se i gruppi affiliati all’ISIS prendessero il controllo delle infrastrutture dell’acqua (assumendo che non l’hanno ancora fatto), rapidi e irregolari estrazioni possono facilmente risultare nello svuotamento della vasta falda acquifera più velocemente di quanto ci si aspetti.

Marzo 1 2016

Supertuesday: chi è costui?

Supertuesday

1 marzo 2016: nella corsa alla Casa Bianca oggi è il giorno del Supertuesday. Noi cerchiamo di capire cos’è.

Noi non chiameremo Supertuesday: Supermartedì, abbiamo adottato nella nostra lingua italiana termini in inglese di ogni genere e ora non ci metteremo a tradurre un giorno della settimana. E lo scriveremo tutto attaccato, perché in fondo è un martedì super!

Supertuesday per tutti

Estraggo dal mio quaderno qualche pagina che ci aiuta a capire brevemente e chiaramente cosa è questo giorno nel processo elettorale per la presidenza degli Stati Uniti.

supertuesday

In questo ciclo elettorale l’inclusione di così tanti stati del Sud nel Supertuesday ha cambiato le dinamiche delle primarie dei Repubblicani e dei Democratici. Ted Cruz che vuole vincere il sostegno dei conservatori e degli evangelici, ha chiamato le SEC primary il suo “firewall”.

Nel campo dei democratici, la Clinton potrebbe accumulare un alto numero di delegati negli stati del sud, grazie al forte supporto che viene accordato dagli afro – americani.

 

supertuesday

Come si decidono i delegati nel Supertuesday?

Questo giorno elettorale potrebbe essere cruciale per candidati come la Clinton e Trump, ciò dipende dal numero di delegati che riescono ad assicurarsi. I repubblicani nel Supertuesday hanno l’opportunità di vincere metà dei 1,237 delegati di cui si ha bisogno per rivendicare la nomination. I democratici Hillary Clinton e Sanders si batteranno su più di 800 delegati, circa 1/3 dei delegati necessari per vincere la nomination.
Il Cominato Nazionale Repubblicano decise, nel 2014, che tutti gli stati che tenevano le competizioni per la nomination prima del 15 marzo assegnavano i delegati ai candidati proporzionalmente, piuttosto che sulle basi del “il vincitore prende tutto”. Questo significa che, nella maggior parte degli stati, saranno decisi basandosi sul voto complessivo di tutto lo stato oppure su chi vince in ogni distretto congressuale. I democratici seguono un’assegnazione dei delegati proporzionale.

Quali candidati partecipano?

Repubblicani: l’uomo d’affari Donald Trump, il senatore della Florida Marco Rubio, il senatore del Texas Ted Cruz, il governatore dell’Ohio John Kasich e il neurochirurgo in pensione Ben Carson.

Democratici: Hillary Clinton, ex segretario di stato e il senatore del Vermont Bernie Sanders.

Cosa ci dicono i sondaggi sul SuperTuesday?

Trump e la Clinton sembrano essere in testa in un certo numero di stati. Per i repubblicani Trump sembra che sia in testa in Virginia, Georgia, Oklahoma e Vermont. Come per il Texas, Cruz è in testa in alcuni sondaggi mentre Trump in altri quindi sembra essere una battaglia molto agguerrita. La Clinton è in testa in molti stati che voteranno oggi: Texas, Virginia, Georgia, Arkansas e Alabama. Sanders chiaramente è in testa nel suo stato il Vermont ed è vicino oppure un pochino più avanti in Massachusetts e Oklahoma.

Cosa vuol dire per i candidati questo SuperTuesday?

Una prestazione forte in questo giorno elettorale, specialmente in Texas, è assolutamente critica per Ted Cruz che ha fondato la sua campagna elettorale sul supporto dei conservatori e degli evangelici. Se Cruz non vincesse in Texas, ci sarebbero seri dubbi sulla sua possibilità di sopravvivenza nella corsa alla nomination.

Per la parte democratica, il SuperTuesday potrebbe essere il giorno in cui la Clinton sarà in grado di cementare un grande numero di delegati rispetto a Sanders.

E dopo il SuperTuesday che si fa?

Altri stati andranno al voto. Sabato sarà la volta del Kansas e della Lousiana per entrambi i partiti: poi nel Kentucky e nel Maine si terrà il caucus repubblicano e nel Nebraska il caucus repubblicano. Il Michigan e il Mississippi terranno le primarie e le Hawaii e l’Idaho il caucus l’8 marzo. Occhi puntati su grandi primarie il 15 marzo in Florida e nell’Ohio, gli stati di Marco Rubio e John Kasich.

Ed infine:

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