Febbraio 29 2016

Israele e Russia: l’amicizia nel Medio Oriente di oggi

Russia Israele

Il Medio Oriente è nel bel mezzo di una violenta rivalutazione delle sue idee, priorità ed alleanze; la questione dei legami di Israele è parte del ri – assestamento della regione.

Qualche giorno fa il presidente dello stato d’Israele, Reuven Rivlin ha cancellato un viaggio previsto per marzo in Australia per incontrare il presidente russo Putin a Mosca.

Israele e Russia un’amicizia oscillante

La recente storia delle traiettorie delle relazioni russo – israeliane è stata oscillante. Putin è stato il primo presidente russo a visitare Israele e il primo ministro Benjamin Netanyahu ha coltivato legami con la Russia per una serie di ragioni. Israele ha una grande diaspora russa che conta per circa il 10 – 12 percento della popolazione israeliana, e il loro profondo legame con il paese di origine li spinge a coltivare dei legami più stretti con la Russia: un espediente politico per i politici israeliani. Inoltre, Israele e Russia hanno entrambi inteso trarre un vantaggio dalla percezione del ritiro americano dal Medio Oriente per forgiare legami più stretti. Israele cerca di contenere le sue scommesse con un’altra potenza che sta al di fuori dalla regione e la Russia cerca di trafiggere gli Stati Uniti guadagnando influenza con un altro dei suoi principali alleati nella regione. Questo si è manifestato nella sfera politica anche attraverso il silenzio di Israele su questioni che sono importanti per la Russia come l’annessione della Crimea.
I legami economici sono aumentati. Il commercio tra i due paesi che ammontava a 3.5 miliardi di dollari nel 2013 è aumentato negli scorsi anni visto che le importazioni russe dei prodotti israeliani hanno rimediato alle sanzioni imposte dall’Unione Europea. Qualche settimana fa funzionari di entrambe le parti hanno confermato che è imminente un accordo di libero commercio tra i due paesi. Sul lato militare, Israele ha accordato la vendita alla Russia di 10 droni israeliani “Searcher” per la raccolta di informazioni già lo scorso autunno.
L’intervento della Russia nella guerra civile siriana in favore di Assad ha introdotto tensioni tra Israele e Russia, circostanza che è stata gestita da entrambe le parti ragionevolmente bene. Per esempio, Israele e Russia si sono tenute entrambe informate sul rispettivo utilizzo dello spazio aereo siriano per evitare scontri. Israele non ha preso una posizione ufficiale sull’uscita di scena di Assad, ma ha dichiarato di aver tracciato una linea rossa contro il trasferimento di armi a Hezbollah. I bombardamenti israeliani contro questo trasferimento di armi appaiono essere stati coordinati con i militari russi, dal momento che aerei israeliani hanno volato attraverso lo spazio aereo siriano che è pattugliato dalla Russia senza alcun incidente.
Le violazioni dello spazio aereo israeliano non hanno provocato il tipo di crisi che è occorsa tra la Russia e la Turchia. Visto che gli aerei russi e israeliani volano lungo lo stesso corridoio nel sud della Siria e operano conto differenti attori ovviamente ciò ha il potenziale di dare vita ad una catastrofica esplosione, ma le buone relazioni tra Israele e Russia sono state la chiave per prevenire ogni fraintendimento. Questo non vuol dire che una crisi non potrebbe verificarsi nel futuro, particolarmente in vista della vendita di Mosca dei missili S- 300 all’Iran. Israele a tutti costi farà in modo che questo sistema d’arma non possa essere trasferito ad Hezbollah.
Israele sembra preparata a compartimentalizzare la sua relazione con la Russia e cercare di mitigare i suoi dubbi sul comportamento russo in Siria, finché le armi russe non cadano nelle mani di Hezbollah.

Altrove nella regione c’è più movimento

Israele sta aprendo un ufficio ad Abu Dhabi, ufficialmente con l’obiettivo di facilitare le sue interazioni con l’agenzia delle Nazioni Unite per l’energia rinnovabile (IRENA) che sarà basata negli Emirati Arabi Uniti. Questi ultimi ribadiscono che l’apertura dell’ufficio israeliano non ha niente a che fare con relazioni bilaterali. Quindi mentre le relazioni formali rimangono ufficialmente fuori dal tavolo, sotto il tavolo le comunicazioni continuano.
I legami con l’Egitto, il primo paese arabo a stabilire relazioni diplomatiche con Israele, hanno iniziato a diventare più “caldi”. L’Egitto ha mandato un ambasciatore in Israele a gennaio per la prima volta dal 2012.
Ci sono alcuni segni che le visioni popolari di Israele stanno forse cambiando. Il Kuwait Times, ha recentemente pubblicato un articolo intitolato “Israele non è il nostro nemico”, nel quale si affermava che mentre i palestinesi hanno ragioni per vedere Israele come un nemico, il Kuwait non ne ha. Una simile visione è stata espressa da uno storico egiziano Maged Farag che ha asserito: “il nostro nemico oggi è Gaza, non Israele”.

*immagine: www.timesofisrael.com

Febbraio 24 2016

Majlis – Iran elezioni 2016

Majlis

Il 26 febbraio gli iraniani inizieranno il processo di elezione del loro decimo parlamento: il Majlis.

Molti discutono delle elezioni iraniane per le possibili implicazioni sulla politica estera iraniana. Sebbene il processo elettorale in sé stesso resta un mistero per molti; noi ci accontentiamo di avere le basi e quindi di capire cos’è il Majlis. Iniziamo innanzitutto con un foglio di appunti del mio quaderno per vedere quali sono i passaggi temporali che portano al 26 febbraio, per l’elezione del Majlis.

Majlis

Majlis: poteri e composizione

Ufficialmente: Islamic Consultative Assembly (Majlis-e shoura-ye eslami), per dirla in termini più vicini a noi  è un parlamento eletto con voto popolare, stabilito nella scia della rivoluzione iraniana del 1979. Mentre il Majlis è istituzionalmente separato dal Consiglio dei Guardiani, un organo di 12 giuristi islamici, il Consiglio gioca un ruolo più esteso nelle elezioni parlamentari e nel suo ruolo legislativo. I 290 membri del Majlis rappresentano i 207 distretti elettorali dell’Iran. Trenta seggi sono dedicati ai rappresentanti provenienti da Teheran, il più grande distretto. Il secondo distretto più grande ha solo 6 seggi.

Successivamente al dibattito svoltosi nel Majlis la legge passa al Consiglio dei Guardiani, il quale deve confermare che la legge sia conforme alla Costituzione e all’Islam. Il potere di veto del Consiglio dei Guardiani sulla legislazione ha significato che sostanziali riforme politiche ed economiche, anche se supportate dal Majlis – sono state spesso ostruite. Siccome, quasi metà delle leggi approvate dal parlamento erano poi ricusate dal Consiglio dei Guardiani, nel 1989 fu stabilito un terzo organo legislativo: Expediency Council (Consiglio dell’opportunità in italiano n.d.a) che ha il potere di mediare tra i due organi e di annullare le loro decisioni. Se approvato dal Consiglio dei Guardiani, la legge deve essere firmata dal presidente prima di entrare in vigore. Il Majlis approva e rivede il budget annuale, può approvare e mettere in stato d’accusa ministri, emettere questioni formali al governo. Approva i trattati internazionali.

Ogni rimostranza pubblica contro organizzazioni governative è gestita dal Majlis. In ogni caso è necessario il consenso del Leader Supremo affinché il Majlis possa entrare nel merito di un’ istituzione.

I membri sono eletti ogni 4 anni dal voto popolare diretto. Sebbene siano soggetti a considerevoli restrizioni, le elezioni parlamentari si sono tenute regolarmente dal 1980. Per essere qualificati a concorrere per un seggio, i candidati sono soggetti a numerosi cicli di controlli accurati. Il Ministro dell’Interno supervisiona l’iniziale esame delle credenziali, ma il Consiglio dei Guardiani ha l’ultima parola e statuisce chi è qualificato a concorrere. Secondo l’art. 28 dell’Atto elettorale dell’Assemblea Consultativa islamica i candidati devono soddisfare i seguenti criteri al momento della registrazione:

  1. Credere e praticare obbligatoriamente l’Islam e il Sistema sacro della Repubblica Islamica dell’Iran.
  2. Essere cittadini della Repubblica Islamica dell’Iran.
  3. Espressa fedeltà alla Costituzione e al principio di assoluto custode della giurisprudenza.
  4. Un documento che provi il possesso di almeno un diploma ed equivalente.

Nel 2006, il parlamento ha approvato una legge che richiede a tutti i candidati essere in possesso di un Master. Questa valutazione della formazione educativa va in parallelo con il declino dei membri del parlamento che sono religiosi, da un picco di 131 nel primo parlamento ai 33 in quello odierno.

  1. Non avere una cattiva reputazione nel distretto elettorale.
  2. Salute fisica tale per cui almeno godano della benedizione della vista, udito e parola.
  3. Almeno 30 anni e non più di 75.

Ai candidati delle minoranze religiose non è richiesto di soddisfare il primo criterio. Anche se il candidato ha tutti i requisiti elencati, il Consiglio dei Guardiani può trovare (come già accaduto) una scusa per squalificare il candidato.

La manipolazione del Sistema elettorale iraniano si è guadagnata un significativo criticismo internazionale.

Freedom House ha dichiarato che sebbene non ci siano state accuse di frode sistematica  nelle elezioni del 2012, “molti legislatori in carica hanno accusato Islamic Revolutionary Guard Corps di manovrare le attività elettorali”.

I candidati approvati possono fare campagna elettorale ufficialmente solo per 7 giorni. La campagna elettorale è iniziata il 18 febbraio.

Un candidato è dichiarato vincitore se lui (o lei) ottiene la maggioranza dei voti in un distretto  cioè il 25% di tutti i voti raccolti. Nel sistema iraniano chiamato: Two-Round System entra in gioco se nessun candidato riesce ad ottenere la maggioranza dei voti, per cui viene indetto un altro election day dove i primi due candidati competono in quel distretto.

Un certo grado di rappresentanza è garantito alle minoranze religiose: 2 seggi agli armeni cristiani, o uno ai cristiani assiri e caldei, uno agli ebrei e uno ai credenti dello Zoroastrianesimo o Mazdeismo. La più grande minoranza iraniana, Baha’i, non è ufficialmente riconosciuta e non gli è garantito un seggio (peraltro i loro diritti sociali e politici sono severamente ristretti dal regime).

Verso la fine di gennaio solo la candidatura una donna, una delle maggiori riformiste del paese, è stata approvata dal Consiglio dei Guardiani, nel parlamento in carica ci sono 9 donne, il 3%. Molti credono che la squalifica dei candidati donna è legata al fatto che molte delle donne che si sono registrate hanno esperienza come attiviste dei diritti umani o femministe.

Correnti politiche e non partiti politici

Come spiega il sito Majlis Monitor affiliato all’Università di Toronto, i gruppi politici che si mobilitano per competere nelle elezioni iraniane possono essere descritti più accuratamente come “correnti politiche” piuttosto che come partiti politici nel senso occidentale del termine. Le “correnti politiche”, secondo Majlis Monitor, “usualmente emergono come alleanze di comodo per perseguire agende politiche – ideologiche comuni, interessi economici”.

Per saperne di più: leggi l’Assemblea degli esperti – Iran elezioni 2016.

Febbraio 23 2016

Assemblea degli esperti – Iran elezioni 2016

assemblea degli esperti

Il 26 febbraio ci saranno le elezioni in Iran. Arriviamoci preparati! Si eleggerà l’Assemblea degli Esperti ed il Majlis.

Iniziamo dall’Assemblea degli esperti

L’assemblea degli esperti (Majlis-e Khobregan) è uno degli organi più importanti nel governo iraniano. Per questa ragione, le prossime elezioni dell’Assemblea degli esperti, stanno attirando una grande attenzione(in Italia ovviamente dato il peso che si dà alla politica internazionale probabilmente se ne accorgeranno il 27 sera), perché la prossima Assemblea è il giocatore chiave nella selezione del successore del 76enne Leader Supremo Ayatollah Ali Khamenei.

Cos’ è l’Assemblea degli esperti?

Assemblea degli Esperti

L’Assemblea degli esperti è un organo di 88 membri formato da giuristi islamici, eletto direttamente dal voto popolare ogni 8 anni. Secondo la costituzione, l’Assemblea ha il mandato di nominare, monitorare e far decadere (se é il caso) il leader supremo. In pratica l’Assemblea non ha mai realmente messo in discussione il leader supremo. Quest’organo è formato da un consiglio di leadership e sei comitati, che si incontrano due volte l’anno.

L’Assemblea fu stabilita per la prima volta dopo la rivoluzione iraniana del 1979 per scrivere la nuova costituzione. Dopo aver adempiuto a quel compito, fu sciolta per poi essere ristabilita nel 1982. Basato su un ciclo elettorale di 8 anni, la quinta Assemblea doveva essere eletta nel 2015, ma nel 2009 una legge ne ha posposto l’elezione per farla coincidere con le elezioni parlamentari del 2016.

Per essere qualificati a competere, i candidati devono essere specialisti della giurisprudenza islamica, passare diversi esami scritti ed orali, e approvati dal Consiglio dei Guardiani, un organo di 12 membri nominato dal Leader Supremo e dal Parlamento. Cinque dei dodici membri del Consiglio dei Guardiani sono anche membri dell’Assemblea degli esperti.

Sebbene la costituzione assegni all’Assemblea degli Esperti il compito di monitorare il leader supremo, non ci sono meccanismi formali, costituzionalmente regolati, attraverso cui l’Assemblea può “sfidare” il Leader Supremo.

La corsa 2016 per l’Assemblea degli Esperti ha visto un record nel numero delle domande. Si sono registrati 800 candidati di cui 16 donne. E’ molto probabile che il prossimo leader supremo esca proprio dalla quinta Assemblea di Esperti. Anche se l’Assemblea ha il compito di selezionare il prossimo leader supremo, altre figure molto potenti ed istituzioni come il Corpo delle Guardie rivoluzionarie, presumibilmente influenzeranno la selezione.

Concludo con una curiosità: il Presidente Rouhani è stato due volte membro dell’Assemblea degli Esperti.

Per saperne di più sulle elezioni in Iran, clicca qui:  Majlis – elezioni Iran 2016

Febbraio 19 2016

Guerre civili: fallimento del sistema degli stati

guerre civili

Il problema principale nel Medio Oriente è il fallimento dei sistemi di stato arabi nel dopoguerra, lo scoppio delle guerre civili è diventato il secondo problema principale,  egualmente importante.

I conflitti in Libia, Siria, Iraq e Yemen, hanno preso una loro vita, diventando motori di instabilità che adesso pongono una più grande minaccia sia ai popoli della regione che al resto del mondo. Le guerre civili hanno la brutta abitudine di tracimare sui loro vicini. Vasti numeri di rifugiati attraversano le frontiere, come lo fanno, di meno, ma non meno problematici, un certo numero di terroristi e di altri combattenti armati. Così passano le frontiere anche le idee di promuovere la militanza, la rivoluzione e la secessione. In questo modo, gli stati vicini possono essi stessi soccombere all’instabilità o anche al conflitto interno. Studiosi ci indicano che il più grande predittore che uno stato farà esperienza di una guerra civile è se confina con un paese che ne è già coinvolto.

Le guerre civili hanno anche la brutta abitudine di estrarre qualcosa dai paesi vicini. Cercando di proteggere i loro interessi e per prevenire ripercussioni, gli stati, tipicamente, scelgono particolari combattenti da appoggiare. Ma questo li porta in un conflitto con altri stati vicini che sostengono a loro volta i loro favoriti. Anche se questa competizione rimane una guerra “proxy”, può assorbire energie politiche ed economiche, anche rovinose. Nel peggiore dei casi, il conflitto può dare vita ad una guerra regionale, quando uno stato è convinto che il suo proxy non sta facendo il proprio lavoro, manda le sue truppe. Per avere la prova di questa dinamica non bisogna andare tanto lontano quanto l’intervento a guida saudita nello Yemen o le operazioni militari iraniane o russe in Siria ed Iraq.

E come se il fallimento del sistema degli stati arabi del dopoguerra e lo scopguerre civilipio di 4 guerre civili non fosse stato abbastanza, gli Stati Uniti si sono allontanati dalla regione. Il Medio Oriente non è stato senza un grande potenza supervisore, di un tipo o di un altro, dalle conquiste ottomane del sedicesimo secolo.

Questo non suggerisce che l’egemonia esterna è sempre stata genuinamente buona; non lo era. Ma spesso ha giocato un ruolo costruttivo di mitigazione dei conflitti. Buono o cattivo, gli stati della regione sono cresciuti abituati ad interagire l’uno con l’altro con una terza parte dominante nella stanza, figurativamente o spesso letteralmente.

Il ritiro degli Stati Uniti ha forzato i governi ad interagire in un nuovo modo, senza la speranza che Washington avrebbe fornito una via cooperativa per i dilemmi della sicurezza seminati nella regione. Il disimpegno degli Stati Uniti ha fatto temere a molti stati che altri diventassero molto aggressivi senza gli Stati Uniti che li avrebbero frenati. Questa paura li ha fatti agire aggressivamente, che di conseguenza, ha dato via, a turno, a contro mosse, ancora con l’aspettativa che gli Stati Uniti non guarderanno né la mossa originale né la risposta. La dinamica è cresciuta in maniera più acuta tra l’Iran e l’Arabia Saudita, il cui scambio di diplomazia tit – for tat è cresciuto più vituperoso e violento. I sauditi hanno preso l’iniziativa di intervenire direttamente nella guerra civile nello Yemen conto la minoranza Houti, che loro considerano essere un proxy iraniano che li minaccia nel loro fianco a sud.

Anche se il Medio Oriente sbanda verso il fuori controllo, l’aiuto non è per via. Le politiche dell’amministrazione Obama non sono disegnate per mitigare i suoi problemi reali: la regione da quando Obama è in carica è scivolata sempre più verso il peggio e non c’è ragione di credere che andrà meglio prima che finisca il suo incarico.

La storia delle guerre civili ci dimostra che è estremamente duro contenere le ripercussioni ed il Medio Oriente di oggi non fa eccezione. L’eco della guerra in Siria ha aiutato a far tornare l’Iraq nella guerra civile. A turno, le ripercussioni delle guerre civili in Siria ed Iraq hanno generato una guerra civile di basso livello in Turchia e minaccia di fare lo stesso in Giordania ed in Libano. Le ripercussioni della  guerra in Libia stanno destabilizzando l’Egitto, il Mali e la Tunisia. Le guerre civili irachena, siriana e yemenita hanno risucchiato l’Iran e gli stati del Golfo in una feroce guerra proxy in tutti e tre i campi di battaglia. Rifugiati, terroristi e radicalizzazione traboccano da tutte queste guerre e creano nuovi dilemmi per l’Europa ed il nord America.

Guerra civile: curare le cause e non le conseguenze

E’ effettivamente impossibile eradicare i sintomi delle guerre civili senza trattare le malattie che sono alla base. Non importa quante migliaia di rifugiati l’Occidente accetti, finché le guerre civili si trascineranno, milioni ne scapperanno. E non importa quanti terroristi verranno uccisi, senza una fine alle guerre civili, molti più giovani uomini diventeranno terroristi. Negli ultimi 15 anni, la minaccia del jihadismo salafita è cresciuta in ordine e magnitudo malgrado i danni inflitti ad Al Qaeda in Afghanistan. Nei posti scossi dalle guerre civili, i rami del gruppo, incluso l’ISIS, trovano nuove reclute, nuovi santuari e nuovi terreni di jihad.

Contrariamente alla saggezza convenzionale, è possibile per una terza parte risolvere una guerra civile. Studiosi delle guerre civili hanno trovato che in circa il 20% dei casi dal 1945 e approssimativamente il 40%dei casi dal 1995, un attore esterno è stato in grado di rendere possibile un tale risultato. Farlo non è semplice, ovviamente, e non deve essere rovinosamente costoso come ad esempio l’esperienza degli Stati Uniti in Iraq.

Guerra civile: 3 passi per farla finire

Mettere fine ad una guerra civile richiede che la potenza che interviene realizzi tre obiettivi:

1) cambiare le dinamiche militari in modo che nessuna delle parti in guerra creda che possa vincere militarmente e nessuno abbia paura che i suoi combattenti siano uccisi una volta che depongano le armi;

2) deve forgiare un accordo di condivisione del potere tra i vari gruppi così che tutti abbiano una partecipazione equa nel nuovo governo;

3) deve porre in essere istituzioni che rassicurino tutte le parti che le prime due condizioni siano durature.

La storia però ci mostra che quando le potenze esterne si allontanano da questo approccio oppure gli dedicato risorse inadeguate, i loro interventi inevitabilmente falliscono e tipicamente rendono il conflitto più sanguinoso, lungo e meno contenuto.

Lguerre civili‘odierna campagna militare degli Stati Uniti contro l’ISIS in Iraq e in Siria condurrà allo stresso risultato della sua precedente contro al Qaeda in Afghanistan: possono danneggiarli molto, ma a meno che non finisca il conflitto che li sostiene, il gruppo si trasformerà e si diffonderà e alla fine avrà successo come il “figlio di ISIS”, come è successo all’ISIS che era figlio in qualche maniera di Al Qaeda.

Stabilizzare il Medio Oriente richiede un nuovo approccio, uno che attacchi le radici dei problemi della regione e sia sostenuto da risorse adeguate. La priorità dovrebbe essere far finire le odierne guerre civili. In ogni caso, sarà  necessario prima di tutto cambiare le dinamiche del campo di battaglia per convincere tutte le parti in lotta che la vittoria è impossibile. In tutte e quattro le guerre civili è necessario intraprendere maggiori sforzi politici indirizzati a forgiare accordi di equa distribuzione del potere.

Esempio siriano

In Siria, i colloqui di pace hanno fornito un punto d’inizio per una soluzione politica, ma non hanno fatto più di questo, perché le condizioni militari non favoriscono un reale compromesso politico. Né il regime di Assad né l’opposizione appoggiata dall’Occidente crede che possa permettersi di fermare i combattimenti e ognuno dei tre più forti gruppi di ribelli – Ahrar al – Sham, Jabhat al – Nusra e l’ISIS, rimane convinto che può raggiungere una vittoria totale. Così la realtà sui campi di battaglia cambia e poco può essere raggiunto ad un tavolo di negoziato. Se la situazione militare cambia, i diplomatici occidentali dovrebbero aiutare le comunità siriane a formare un accordo che distribuisce il potere politico ed economico che li benefici equamente.

E’ il fallimento dello stato – non gli attacchi esterni dell’ISIS, di Al Qaeda o dei proxy iraniani, che rappresenta la vera fonte dei conflitti che dilaniano il Medio Oriente oggi. Siria, Iraq, Yemen e Libia sono in disperato bisogno di assistenza economica e di infrastrutture. Ma prima di ogni cosa hanno bisogno di una riforma politica che eviti il fallimento dello stato. Qui, l’obiettivo non è la democratizzazione per se, ma dovrebbe essere una buona governance, nella forma della giustizia, della regola di legge, della trasparenza e dell’equa distribuzione dei servizi e dei beni pubblici.
Questi paesi sono in un disperato bisogno di aiuti economici, di incentivi finanziari, allora perché per una volta non si mette sul tavolo una proposta di aiuti economici che verranno dati SOLO quando sarà firmato un accordo di distribuzione del potere e cadenzati ad ogni risultato raggiunto per una buona governance? Se non si preme per le riforme: sociali economiche e politiche e non si mette in piedi un nuovo sistema statale, gli stessi vecchi problemi torneranno.

Febbraio 16 2016

Guerra dell’acqua, dighe e ISIS

guerra dell'acqua

Le risorse idriche sono un’arma molto potente, ci sono guerre che si conducono solo utilizzando dighe, corsi d’acqua. L’ISIS è in grado di utilizzarle? La diga di Mosul era stata presa dall’ISIS e poi riconquistata dai curdi, molto prima che l’impresa italiana vincesse l’appalto per lavori di manutenzione.

Ci tengo a fare una premessa a questo post. Ho lavorato per conto del Ministero degli affari esteri italiano in Africa ad un progetto di una diga idroelettrica, i cui lavori erano stati interrotti a causa di una guerra civile che aveva insanguinato il paese. Era la mia prima missione, che non dimenticherò mai. L’acqua è un bene primario, le dighe idroelettriche allo stesso modo sono necessarie per l’economia, la vita di qualsiasi popolazione. Troppe volte si crede che le guerre si combattano solo con le armi, con le bombe, invece ci sono armi più devastanti di quelle, come l’utilizzo delle dighe o delle risorse idriche per conquistare territori o legittimare il proprio potere nei confronti della popolazione locale.

La diga di Mosul

Il ministro delle risorse idriche ha, in un’intervista alla al – Sumaria TV, recentemente smorzato le preoccupazioni che la diga di Mosul crollerà, stimando che la probabilità di cedimento è di “uno a mille”, sostenendo inoltre che tutte le dighe del mondo hanno un certo livello di rischio. Nel frattempo, gli operai stanno rimuovendo dalle 5 alle 6 tonnellate di calcestruzzo al costo di circa 6 milioni di dollari al giorno.

guerra acquaLa diga (idroelettrica) lunga 3.6 km è locata vicino al territorio controllato dallo stato islamico nel nord del paese. I militanti dello “stato” islamico hanno preso il controllo del nord e dell’ovest dell’Iraq e agguantato la diga di Mosul nell’agosto del 2014, facendo crescere le paure che potessero farla esplodere e far sprofondare sott’acqua Mosul e Baghdad uccidendo migliaia di persone nella valle densamente popolata del fiume Tigri.
I combattenti curdi, i così detti Peshmerga, hanno ricatturato la diga due settimane dopo con l’aiuto dei bombardamenti aerei degli americani e con il supporto delle forze governative irachene. Il deterioramento della diga aveva spinto le forze americane ad abbozzare un contingency plan per il potenziale cedimento. Molta della retorica militare sulla diga di Mosul si è focalizzata sul potenziale di una deliberata distruzione della struttura, rilasciando una catastrofica onda d’acqua che raggiungerebbe 4.6 metri di altezza fino a valle, a Baghdad, che dista 350 km. Tuttavia, politicamente ed economicamente è il controllo dell’idroelettricità della diga che ne definisce la priorità. Gli ingegneri, hanno notato che la montatura del bacino idrico poco ortodossa – su carsico solubile (fatto di roccia calcarea tipica delle zone con flussi d’acqua sotterranei) possa determinare una rottura accidentale della diga, se non fosse realizzato un lavoro: tempestivo, vitale, geo-tecnico, inclusa l’iniezione di intonaco impermeabile.

Quando Saddam Hussein costruì la diga tre decadi fa, serviva come simbolo della sua leadership e della forza dell’Iraq. I generatori della diga di Mosul possono produrre 1010 megawatt di elettricità, secondo quanto riporta il sito della Commissione di Stato irachena per le dighe e i bacini idrici. La struttura contiene anche 12 miliardi di metri cubici di acqua che sono cruciali per l’irrigazione delle aeree agricole dell’ovest Iraq, nella provincia di Nivive.
E’ dal suo completamento nel 1980 che la diga ha richiesto una regolare manutenzione incluso delle iniezioni di cemento in aeree di perdita. Il governo americano ha investito più di 17.9 m dollari sul monitoraggio e le manutenzioni, lavorando assieme ai team iracheni. Già nel 2007 l’allora comandante generale delle forze americane in Iraq, David Petraeus, e l’allora ambasciatore americano in Iraq, Ryan Crocker, avevano avvertito il primo ministro di quel tempo Nouri Maliki, che la struttura era molto pericolosa perché era stata costruita su una base di terreno instabile. Nella lettera inviata al primo ministro iracheno si leggeva: “assumendo il caso dello scenario peggiore, un cedimento istantaneo della diga di Mosul che è riempita ed operativa al suo massimo livello potrebbe risultare in un’onda di 20 metri che sommergerebbe la città di Mosul”.

Poi arriva la Trevi che gareggia per l’appalto dei lavori di manutenzione, Renzi dice pubblicamente che manderà 450 soldati a protezione della diga mentre si svolgeranno i lavori et voilà la Trevi vince l’appalto. Gli altri concorrenti non avevano fatto proclamare ai quattro venti al presidente del consiglio dei ministri che avrebbero mandato un apparato di sicurezza dei soldati regolari dell’esercito dello stato. (mi chiedo che status avranno quei soldati, visto che non si tratta di una missione internazionale sotto egida ONU o NATO). Mi chiedo (anche se conosciamo già la risposta) se l’appalto l’avesse vinto una ditta, che ne so tedesca, Renzi avrebbe mandato tutti quei soldati italiani a protezione. Ritengo che proteggere una sola diga non risolva il problema, forse risolve una sciocca credenza secondo cui al “popolo” va fatto credere che si combatta il terrorismo internazionale.

Guerra dell’acqua: un fantasma che minaccia il Medio Oriente.

I combattenti dell’ISIS controllano le parti superiori dei fiumi Tigri ed Eufrate, che scorrono dalla Turchia nel nord nel Golfo a sud. Tutto l’Iraq e grandi parti della Siria contano su questi fiumi per cibo, acqua e industria. Molti analisti (compreso chi scrive) prevedono che i tentativi dello stato islamico di controllare le risorse idriche arabe porterà ad una crisi d’acqua che metterà in ombra il conflitto che si svolge sul petrolio, perché l’acqua è una questione di vita o di morte.
Sfugge a molti purtroppo che non leggono i report degli analisti, perché evidentemente preferiscono le riviste di gossip o le fantasticherie di Renzi, che il controllo dei fiumi e delle dighe è considerato dall’ISIS un’arma molto più importante del petrolio.
In questa ottica si possono leggere gli annunci del gruppo estremista transnazionale nell’estendere il controllo del territorio dal Levante all’Egitto, Etiopia e Maghreb. Questo “stato” islamico si vuole estendere alle sorgenti del Nilo. L’alleanza giurata da Boko Haram nel marzo del 2015 ha probabilmente come obiettivo quello di sostenere la cospirazione dello “stato” islamico per controllare le sorgenti del Nilo. Sebbene le popolazioni povere della regione sono le sole a pagare il prezzo per il conflitto del petrolio, le guerre d’acqua  non risparmiano nessuno.

Strategicamente, l’uso della diga per determinare i livelli di acqua e di rifornimenti a larghe parti del paese la rende il più grande prezzo in quello che gli analisti della sicurezza descrivono come “la battaglia per il controllo dell’acqua” e che molti vedono come la definizione degli obiettivi dell’ISIS in Iraq.
Questo piano appare evidente, dopo l’estensiva inondazione causata dalla deliberata chiusura della diga Nuaimiyah nell’ovest di Baghdad.
Ma questa non è la prima volta che l’acqua è stata usata come un’arma nella “fertile mezzaluna” alla convergenza dei fiumi Tigri ed Eufrate. Saddam Hussein ebbe come obiettivo le risorse idriche durante la guerra Iran – Iraq e la sua oppressione per i Maʻdān (معدان‎) – abitanti dei terreni paludosi del Tigri e dell’Eufrate nel sud e nell’est dell’Iraq e lungo la frontiera iraniana – durante gli anni ’90 centrata sul drenaggio di 6,000 km² di terreno acquitrinoso, distruggendo un’economia di sussistenza vecchia forse di 10,000 anni. Secondo l’ingegnere Azzam Alwash, premio ambientale Goldam del 2013 per il suo lavoro post – 2003 per ristabilire i terreni paludosi, era una guerra “con altri mezzi”.
L’uso tattico di rifornimenti d’acqua in guerra risale ad almeno quanto la civilizzazione stessa. Limitare ed esaurire I rifornimenti d’acqua è stato usato come un’arma d’assedio nel corso della storia.
Un esperto di politiche delle risorse idriche nel Medio Oriente, Mark Zeitoun ha sviluppato una teoria sull’ “idro – egemonia” in cui il controllo dei rifornimenti d’acqua è una componente intrinseca delle relazioni ineguali di potere. In quest’ottica, l’acqua è una parte integrante di tutti i tipi di conflitti, dall’antagonismo culturale all’aggressione militare. Ne segue che come la domanda globale di acqua cresce le aree che già fanno esperienza di stress d’acqua soffrono di più per cambiamenti imprevedibili del clima, quindi l’importanza delle tensioni sulle risorse idriche ad ogni livello crescerà proporzionalmente.

L’acqua è il cuore di molti conflitti nel mondo, sia che siano tra nazioni come l’Egitto e l’Etiopia, dove le tensioni diplomatiche sono alte, che siano tra le comunità del mondo in via di sviluppo e le imprese multinazionali come la Coca Cola in India, o tra regioni, tra paesi nell’occidente come gli Stati uniti dove vari stati sono coinvolti in battaglie legali sul rio Grande.

L’ISIS e l’arma delle risorse idriche

I militanti dell’ISIS, oltre alla diga Nuaimiyah, hanno sprangato 8 chiuse della diga di Fallujah che controllano il flusso del fiume, sommergendo d’acqua i terreni fino al fiume Eufrate e riducendo i livelli d’acqua nelle province del sud da dove passa il fiume. Molte famiglie sono state forzate ad andare via dalle loro case. I militanti dell’ISIS riaprirono 5 delle chiuse, temendo che la loro strategia potesse ritorcersi contro.
Sebbene l’ISIS non abbia dimostrato la capacità di operare da un punto di vista tecnologico nelle strutture idriche, l’organizzazione continua a perseguire il controllo delle dighe e dei sistemi idrici in Iraq e in Siria, che se acquisiti e adeguatamente mantenuti possono parzialmente legittimare il loro governo o alternativamente essere sfruttati come arma.
Istituzionalizzare la gestione delle risorse idriche e dei sistemi è un mezzo realistico per l’ISIS per espandere le sue fonti di finanziamento. Diversamente dalla produzione di petrolio dello “stato islamico”, che (illegalmente) opera nel mercato globale, l’acqua è un bene regionale che è grandemente dipendente dall’operatività di dighe idroelettriche locali. Per lo stato islamico queste dighe sono le più importanti locazioni strategiche nel paese.
L’ISIS ha iniziato a controllare le infrastrutture idriche nel 2013 con l’occupazione della Diga Tabqa, la più grande diga idroelettrica siriana che fornisce elettricità anche alla città di Aleppo. Durante l’invasione di Fallujah, l’ISIS effettivamente ha impiegato le vicine dighe,canali e bacini come armi, negando l’acqua ad aeree al di fuori del suo territorio. L’ISIS ha utilizzato la forza distruttrice dell’inondazione anche quando ha chiuso la diga di Thathar vicino Fallujah. L’ISIS riaprì almeno una delle chiuse della diga per inondare le aree limitrofe un attacco che uccise 127 soldati iracheni. Nella città dell’est della Siria, Raqqa, lo stato islamico ha esaurito le riserve d’acqua e distrutto le reti di distribuzione, forzando i residenti a contare su risorse idriche non trattate e dando vita alla diffusione di malattie trasmesse attraverso l’acqua, come l’epatite A e la febbre tifoidea.

Il comportamento dell’organizzazione in Fallujah, Raqqa e Mosul ci indica che lo stato islamico non possiede le risorse che servono per impiegare il soft power della governance attraverso la gestione delle infrastrutture tecnologiche della regione. Diversamente dalle comuni forme di finanziamento dell’ISIS, la ricchezza acquisita dal controllo e comando delle risorse come il petrolio o l’acqua ha bisogno di una pianificazione contingente sulle infrastrutture e di una forza lavoro molto qualificata. La supervisione delle dighe richiede un set di alta specializzazione di cui non c’è indicazione che l’ISIS le possieda.
Sfortunatamente, l’insicurezza delle risorse idriche si diffonde al di là dell’Iraq e della Siria, verso la Giordania. I rifugiati siriani ed iracheni si stanno radunando in una delle zone più stressate a livello di risorse idriche nel Medio Oriente, la regione ora perde acqua al secondo tasso più veloce del mondo. La Giordania che ha visto l’influsso di 750,000 rifugiati siriani e 60,000 rifugiati iracheni, sta esaurendo i suoi rifornimenti d’acqua di tre volte il tasso di ricarica, affrontando estreme siccità sistemando 3,000 nuovi rifugiati al giorno. Se l’ISIS diventa vincente nel governo delle infrastrutture, i rifugiati possono essere costretti a tornare a casa dove ci sono fonti idriche su cui possono contare e simpatizzare per l’ISIS, similmente alla crescente simpatia per lo “stato” islamico nella popolazione di Yarmouk in Siria, che ha sofferto delle tattiche estreme di Assad che erano il risultato di carenze di cibo ed acqua.

Febbraio 14 2016

Guerra ibrida: cos’è e perché ci interessa

Cos’ è la guerra ibrida. Quali componenti la caratterizzano come fattore che complica, non come sostituto della guerra convenzionale o della “guerra vecchio stile”.

Il mondo è pieno di conflitti, si chiamano così, poco importa di che natura siano. Troppo spesso si sorvola sulla natura della guerra, su quali tattiche vengono impiegate da attori diversi. Allora per oggi torniamo tra i banchi di scuola e vi propongo delle pagine di appunti del mio quaderno, dove cercherò di spiegare gli elementi essenziali di questo termine, che non è un concetto scientifico nuovo, ma semplicemente un fattore in più che complica le pianificazioni di difesa. Il segretario generale della NATO  Jens Stoltenberg ha dichiarato: “non c’è niente di  nuovo sulla guerra ibrida“. Viene da chiedersi se sa cosa è questo fattore “ibrido” o se lo usa anche lui come un asso piglia tutto quando non si riesce a prevedere la mossa del nemico.

Prima di arrivare al “fattore ibrido”, vale la pena soffermarsi su concetti scientifici che hanno caratterizzato all’incirca gli ultimi 25 anni.

Compound war

Quando, in un conflitto si verifica un significativo grado di coordinazione strategica tra forze separate, regolari o irregolari si può parlare di “compound war“. Un grafico ci aiuta a visualizzare meglio cosa vuol dire.

guerra ibrida

Un caso classico della “compound war” è il Vietnam: contrapposizione di tattiche irregolari dei Viet Cong con le capacità più convenzionali dell’esercito del Nord Vietnam.

Unrestricted warfare

Due colonnelli cinesi: Qiao e Wang,  sono noti per il loro concetto di: “unrestricted warfare” o “guerra al di là dei limiti“. Molto avanti per il loro tempo, riconobbero le potenziali implicazioni della globalizzazione. Pensarono quindi di espandere la definizione e la comprensione della guerra al di là del settore militare tradizionale. Scrivevano: “i futuri grandi capitani devono essere padroni nell’abilità di “combinare” tutte le risorse di guerra a loro disposizione e usarle come mezzi per proseguire la guerra. Queste risorse devono includere: guerra d’informazione, guerra finanziaria, guerra di commercio e altre forme di guerra interamente nuove“. Questo ha generato una lista di nuovi principi che riassumo in questa pagina di appunti:

guerra ibrida

Guerra ibrida

Il termine “ibrido” invece cattura sia l’organizzazione che i mezzi e in un altra pagina di appunti, vediamone i punti essenziali:guerra ibridaQuindi le guerre ibride incorporano una varia gamma di modelli di guerra, incluso le capacità convenzionali, tattiche e formazioni irregolari, atti terroristici incluso la violenza indiscriminata, la coercizione ed il disordine criminale. Nella prossima pagina di appunti si evidenza una componente fondamentale quella distruttiva:

guerra ibrida

E’ importante sottolineare che la crescita della guerra ibrida non rappresenta la sconfitta o la sostituzione della “guerra vecchio stile”o la guerra convenzionale. Rappresenta invece un fattore che complica i piani di difesa.

La combinazione della guerra nei vari settori non è nuova. Il concetto di “ibrido” è ben conosciuto ed utilizzato nei discorsi militari occidentali moderni. Il problema è che spesso è citato sotto il concetto di “guerra non convenzionale” o “guerra politica”. Nel corso del tempo guerra ibrida è diventato l’asso piglia tutto per gli elementi di potenza nazionale che la Russia sta utilizzando direttamente in Ucraina. La Russia nella “Dottrina militare di guerra moderna“, nel 2010, descrive “l’uso integrato di forze militari e forze e risorse che non hanno un carattere militare“. Ed ancora: “l’implementazione come priorità di misure di guerra d’informazione per raggiungere obiettivi politici senza l’utilizzo della forza militare“. In un commento del 2014 alla Dottrina, si sostiene la partecipazione di forze armate irregolari, elementi di compagnie militari private in operazioni militari. Mosca ha da tanto tempo riconosciuto la prevalenza di una proiezione di forza combinata in conflitti sia alle sue periferie che globalmente.

Il termine utilizzato solo per descrivere l’intervento russo in Ucraina ci sembra un utilizzo povero. Sembra come se ci fosse una reazione esagerata da parte dell’occidente per l’attenzione inadeguata che precedentemente si era concessa alla Russia. Il risultato è un tentativo sbagliato di raggruppare tutto quello che Mosca fa in una sola rubrica. L’intervento russo in Ucraina dovrebbe essere guardato in un termini più flessibili e basici: un tentativo di impiegare strumenti diplomatici, economici, militari e d’informazione in uno stato vicino dove essa percepisce che i suoi interessi vitali sono in pericolo. Concludendo, perché ci interessa comprendere in cosa si articola la guerra ibrida, non solo perché è un fattore che se non tenuto in significativa considerazione nelle pianificazioni di difesa, soprattutto quando il nemico è un’organizzazione transnazionale di natura terroristica, si rischia di lasciare molte più mosse in mano al nemico di quelle che ci si potrebbe immaginare.

Febbraio 10 2016

Algeria: the North Africa giant

algeria

Algeria: blocked in a status of enduring transition due to the preponderance of military, it plays a key role for the stability of North Africa and Sahel.

After 5 years from the uprising wave which have literally shocked the Middle East and the North Africa Region, the Algerian regime has been able to preserve itself and to ensure a relative stability to its territory. After a remarkable period of isolation because of the Black Decade (1991 – 2000), the country seems back on track to play a key role for the stability of North Africa and Sahel Region. Algeria has undeniable assets that can make it a regional power in North Africa, however its deep political socio – economical griefs are a real boundary for its ambitions as regional power.

Algeria and its potential

There are 4 factors which clearly outline the Algeria’s potential: geographic qualities, demographic composition, oil wealth and its security sector: modern with great experience.

With its 1,200km of coastline it has a strategic continental location: pivot of the Maghreb. Due to its geographical proximity and its colonial heritage, Algeria is a preferential partner of France and more broadly of the European Union. It is also a demographic power with a total population of 39,542,166, of which 67% under 30 years and roughly 30% between 15 and 29 years. The level of registration to primary education is 95%, for the secondary schools more than 60%. The population in working age is 68% of the total population. These numbers show the great potential that young have to increase the GDP, raise the annual production and the consumption. Key provider of oil and gas to the west, third conventional oil reserves (12,2 billion barrels) in Africa and tenth for gas reserves (4,5 trillion of cubic meters) in the world. The profits from the export of hydrocarbon are used to sustain a stable economic increase. Algeria has a military apparatus modern and strong. The People National Army has an active front of force of 512,000 and an active reserve force of 400,000. Algeria has become the first buyer of arms in Africa with a military expenditure that exceed 10 billion dollars, which represents an increase of 176% from 2004. Algeria is among the 10 world purchasers, shifting from the 24th place in 2010 to the 6th in 2013. The country is also developing its military industry through joint ventures with many firms in different countries: in January 2015 it has revealed to have assembled locally, for the first time, military truck 6 wheels Mercedes – Benz Ztros. This modernization has gone together with the improvement of the military forces training. The algerian armed forces have a sofisticated training and a huge experience in counter- terrorism tactics achieved during the revolution in the nineties.

What is it under the surface?

Disaffection cook over a low heat under the surface. Spontaneous uprising occur on a regular basis in the country: only in the first half of 2015, the Algerian police has registered 6,200 local protests. The demonstrations often rotate around injustice for house distribution, public employment, funding or price increase. The large majority of the population is poor, with 10 milion people living under the level of poverty. Infrastructures, particularly health and education, cannot meet the needs of the population in steady increase (birth rate is: 25,14%). These problems combined with a widespread corruption and the lack of transparency, have pushed many young in the city and in the rural areas to consider the request for a visa to go to France, UK, Canada in search of a better job, better salaries and better living conditions. From 2004, thousand of young people have risked their lives to migrate illegally in Europe through the Mediterranean, a phenomenon known as haraga (literally: those who burn the boundaries). The growing instability in Libya has lead to an increase in the arms and drug traffick at the border. As a matter of fact, violent groups have strenghten their network looking for regional allies, as it is showed in the coalition compesed by Mokhatar Bel Mokthar and the Movement for Unity and Jihad in West Africa. The last has conducted attacks at the barracks of the Algerian police in Tamenrasset and Ouergla in 2012. These regional alliances are highlithed by the attack in 2013 at the gas facility in Amanas conducted by Mokhatar Bel Mokthar. This attack in the south of Algeria where 70 people died has stressed the links and inter – relation between the various terrorist groups in Algeria, Tunisia, Mali and Libya, where the attack was launched.

Algeria: political framework

From a political point of view, the country is blocked in a permanent transition status due to the preponderance of the military. A prominent academic in the algerian politic, Mohamed Harbi, once said: “every state as its own army. The Algerian army, however, has its state”. Officially, Algeria is a Republic with a strong presidency, in practice every presidential initiative must be approved by the military. 53 years after the independence, the military apparatus is still predominant in the State. In 15 years, President Bouteflika has never implemented real structural reforms. The recent changes that he has done mainly in the security sector are more a cosmetic work, nothing that would threaten military and their security apparatus. Some weeks ago, President Bouteflika has dissolved the intelligence and security department, replacing it with a new entity under his executive control. This new creation likely won’t overthrow the shadow political structure that control Algeria, at least it could just shift the centre of gravity. Military has supported the fourth mandate of Bouteflika, likely to take time to find an “ideal candidate” for the succession.

Algeria: regional policy

The Algerian regional policy is complicated by its tense relation with Morocco. Algiers maintain its opposition to the Rabat claim on West Sahara and the border between the two countries remain closed. Some weeks ago Algeria detained more than 200 Moroccan linked to organizations in Libya and has arrested, some days ago, 9 Morocco nationals that the Algerian authorities have identified as “illegal migrants”, adding more tensions. Algeria has also diplomatic means that undeniably can make it a regional power. It has been a key player in the intra – Libyan dialogue, the peace agreement without Algeria would have been almost impossible. However, the only way Algeria can be stable economically and politically in the long term, is to press on real reform not aesthetic.

ISIS threat in Algeria

In countries as Algeria where there is a strong state and there a ruthless security mechanism, the Islamic state won’t survice. The proof is the fact that the algerian ISIS branch, called: “jund El Khilafa” that kidnapped the French Hervé Gourdel in the mountains of Kabilya, was erased three months after the killing of the French man. The group which has replaced it was destroyed in few days. In Algeria, the Islamic state cannot play on the rail of the polarization sunni/shiite because 99% of the population is sunni. 23 years after the Black Decade, the bloody civil war, which was precipitated by the military cancellation of the elections won by Islamic Salvation Front, the Salafist ideology and the activism are, again, emerging as a field of political dispute. Many factors explain the hike of the salafists in Algeria. Echos from the Middle East and in Nord Africa, Algerian have to face an economic stagnation, a political paralysis and a generational change. The increase of the personification of (non violent) salafism as a moral rebellion against the crisis of the state institutions, with is rigid moral code, the promises to comfort the illness in the society, provide the youth dissatisfied with an alternative from the moribund state religious institutions and from the increasing irrelevance of predominant islamist movements which tend to co-opt them. Paradoxically, the state as played a non-negligible role in the Salafist wave using the movement as an ideological counterweight to the political Islam and revolutionary groups.

Algeria

Algerian salafism, located at the extreme conservative of the political and theological panorama, is far away to be homogenous. The most prominent Salafist, the so called “quietist” which abstain from formal politic, reject violence, encourage the spread and implementation of the theological strictly conservative orientation in the society. The most important figures of this line are El Ferkous and Abdelmalek Ramadani, active in charities and in civil society groups as in the street markets. Given their political quietism and their neutrality toward the regime, Salafists can have private schools, build business networks, wear their peculiar dress, long beard and white tunic. The easiness to access the salafist network is particularly seductive for the young in the country and for those disillusioned from what they perceive as an extreme oldness in the Algerian society. From its part, the Algerian regime benefit from the raise of non-political movement that can help to dissuade the youth at risk from the politics and the violent extremism. Conversely from Tunisa and Morocco where the main Islamist parties have evolved in a political and intellectual forces, the Algerian Islamists have drowned in an intellectual lethargy and have largely disconnected themselves from the electoral base.  Their inability in adjusting themselves to the great social transformations have eroded their political positions in the society. With their moral discourse and their egalitarian attitudes, Salafists are emerging as counterweight to the stagnation of political Islam. However is worth point out that not all Salafism lack of a political orientation. As in the neighbour countries, a minority Salafist trend has become politicized. An example is the creation of the Islamic Sahwa Front in 2013 and the Algerian Front for Reconciliation and Salvation in 2014. Both movements are led by  provocative and controversial Salafist figures whose goal is to create an Islamic state. So far, none movement have obtained the recognition as political party or have been able to sell the idea of a political engagement to the whole Salafist community. Some observers believe that the regime eventually would follow the Moroccan model of political integration for the Salafists who have publically rejected the violence and the order form of subversion. The Algerian regime in the struggle of preventing Salafist conservative trend to find a fertile ground, has strengthen the institutional framework of mosque supervision and religious discourse. In 2015 the government has announced the creation of a National Scientific Council, tasked with the issuing of official fatwa. Its members are assisted by the Egyptian institution Al – Azhar, regarded has an high authority in the Islamic jurisprudence. The Council has already issued a series of religious decrees, from the permissibility of acceptance of financial loans to the acquisition of new houses, organ transplant and prohibition of sperm and anonymous ovule donation.

Febbraio 10 2016

Algeria: il gigante del Nord Africa

algeria

Algeria: bloccata in uno stato di transizione permanente a causa della predominanza dei militari, gioca un ruolo chiave nella stabilità del Nord Africa e del Sahel.

Dopo 5 anni dall’ondata di insurrezioni che hanno letteralmente scioccato il Medio Oriente e la regione del Nord Africa, il regime algerino è stato in grado di mantenere se stesso e di assicurare una relativa stabilità al suo territorio. Dopo un grande periodo di isolamento a causa della “black decade” (1991 – 2000), il paese sembra essere tornato in pista e giocare un ruolo chiave nella stabilità del Nord Africa e della regione del Sahel. L’Algeria ha innegabili assetti che possono renderla una potenza regionale del Nord Africa, ma le sue profonde sofferenze politiche e socio – economiche sono un  limite reale alle sue ambizioni di potenza regionale.

L’Algeria e il suo potenziale

Sono 4 i fattori che chiaramente delineano il potenziale dell’Algeria: le qualità geografiche, la sua composizione demografica, la ricchezza di petrolio ed il suo settore della sicurezza: moderno e di grande esperienza. Con i suoi 1,200 km di coste ha un locazione continentale strategica nel fulcro del Maghreb. A causa della sua prossimità geografica e la sua eredità coloniale, l’Algeria è un partner privilegiato della Francia, e per estensione, dell’Unione Europea. E’ anche una potenza demografica con una popolazione totale di 39,542,166 di cui il 67% al di sotto dei 30 anni e approssimativamente il 30% tra i 15 e i 29 anni. Il tasso di iscrizione all’educazione primaria è del 95% e per la scuola secondaria è oltre il 60%. La popolazione in età lavorativa costituisce circa il 68% della popolazione totale. Questi numeri indicano  il grande potenziale che hanno i  giovani di incrementare il prodotto interno lordo e aumentare sia la produzione nazionale che i consumi.
Fornitore chiave di petrolio e gas all’occidente, con le terze riserve di petrolio convenzionali più grandi (12,2 miliardi di barili) in Africa e il decimo nelle riserve di gas (4,5 bilioni di metri cubici) nel mondo. I guadagni dall’esportazione di idrocarburo sono stati utilizzati per sostenere una crescita economica stabile.
L’Algeria ha un apparato militare moderno e forte. Il People National Army ha un fronte attivo di forza di 512,000 unità e una forza di riserva attiva di 400,000. L’Algeria è diventata il primo compratore di armi in Africa con una spesa militare che eccede i 10 miliardi di dollari, che rappresenta un incremento del 176% dal 2004. L’Algeria è tra i primi 10 compratori al mondo, muovendosi dal 24° posto nel 2o10 al 6° nel 2013. Il paese sta sviluppando anche la sua industria militare attraverso delle joint ventures con molte imprese in diversi paesi: nel gennaio del 2015 ha rivelato di aver per la prima volta assemblato localmente camion militari a sei ruote Mercedes – Benz Ztros. Questo ammodernamento è andato di pari passo con il miglioramento dell’addestramento delle forze armate. Le forze militari algerine hanno un sofisticato addestramento ed una grande esperienza nelle tattiche di anti – terrorismo ottenute durante la rivoluzione degli anni ’90.

Cosa c’è sotto la superficie

La disaffezione cuoce a fuoco lento sotto la superficie. Proteste spontanee si verificano su base regolare nel paese: solo nella prima metà del 2015, la polizia algerina ha registrato 6,200 proteste locali. Le proteste spesso ruotano attorno all’ingiustizia nell’attribuzione delle case, lavori statali, finanziamenti o l’aumento dei prezzi.
La vasta maggioranza della popolazione è povera, con 10 milioni di persone che vivono al di sotto del livello di povertà. Le infrastrutture, specialmente nella sanità e nell’educazione non possono incontrare i bisogni di una popolazione in costante crescita (il tasso di nascita è del 25,14%). Questi problemi, aggiunti ad una diffusa corruzione e ad una mancanza di trasparenza, hanno spinto molti giovani sia delle città che delle zone rurali a considerare la richiesta di visto per la Francia, l’Inghilterra o il Canda per un lavoro migliore, migliori salari e migliori condizioni di vita. E’ dal 2004, che centinaia di giovani hanno messo le loro vite in pericolo per migrare illegalmente in Europa attraversando il Mediterraneo, un fenomeno conosciuto come haraga (letteralmente: coloro che bruciano le frontiere).
La crescente instabilità in Libia ha dato vita ad un aumento nel traffico di armi e di droga alle frontiere. Infatti, i gruppi violenti hanno rafforzato le loro reti cercando alleati regionali, come mostra la coalizione formata tra Mokhtar Bel Mokthar e il Movement for Unity and Jihad in West Africa. Quest’ultimo ha condotto attacchi alle caserme della polizia a Tamenrasset e Ouergla nel 2012. Queste alleanze regionali sono state evidenziate dall’attacco del 2013 all’infrastruttura di gas ad Amenas da Mokhtar Bel Mokthar. Questo attacco nel sud dell’Algeria in cui morirono 70 persone ha messo in evidenza i legami e le inter – relazioni tra i vari gruppi terroristici in Algeria, Tunisia, Mali e Libia, da cui l’attacco è stato lanciato.

Algeria: quadro politico

Dal punto di vista politico, il paese è rimasto bloccato in uno stato di transizione permanente a causa della predominanza dei militari. Un prominente studioso della politica algerina, Mohamed Harbi, una volta ha detto: “ogni stato ha il suo esercito. L’esercito algerino, tuttavia, ha il suo stato”. Ufficialmente l’Algeria è una repubblica con una forte presidenza, ma in pratica ogni iniziativa presidenziale deve essere approvata dai militari. 53 anni dopo l’indipendenza, l’apparato militare è ancora prevalente sullo stato. In 15 anni, il Presidente Bouteflika non ha mai realizzato vere riforme strutturali. I recenti cambiamenti da lui compiuti principalmente sulla sicurezza sono più un lavoro di cosmetica, niente che minacci i militari ed il loro apparato di sicurezza. Qualche settimana fa, il presidente Bouteflika ha dissolto il dipartimento di intelligence e sicurezza, sostituendolo con un una nuova entità sotto il suo controllo esecutivo. Questa nuova creazione di certo non abbatterà le strutture di potere ombra che controllano l’Algeria, potrebbe solo muovere il loro centro di gravità. I militari hanno appoggiato il quarto mandato di Bouteflika, molto probabilmente per prendere tempo per trovare il “candidato ideale” per la sua successione.

Algeria: politica regionale

La politica regionale algerina è complicata dal suo rapporto teso con il Marocco. Algeri mantiene la sua opposizione alle rivendicazione di Rabat sul Sahara occidentale e le frontiere tra i due paesi restano chiuse. Poche settimane fa l’Algeria deteneva più di 200 marocchini legati ad organizzazioni in Libia e ha arrestato pochi giorni fa 9 cittadini del Marocco che le autorità algerine hanno identificato come “immigrati illegali”, aggiungendo così altre tensioni. L’Algeria ha degli assetti che innegabilmente la possono rendere la potenza regionale. E’ stato già un giocatore chiave nel dialogo inter – libico, l’accordo di pace senza l’Algeria sarebbe stato praticamente impossibile. Tuttavia, l’unico modo per l’Algeria di essere stabile sia economicamente che politicamente nel lungo periodo è quello di premere l’acceleratore per riforme reali e non estetiche, sia economiche che politiche.

La minaccia dell’ISIS in Algeria

In paesi come l’Algeria dove lo stato è forte e c’è un meccanismo impietoso di sicurezza lo stato islamico non può sopravvivere. Lo prova il fatto che il ramo algerino dell’ISIS, chiamato: “jund El Khilafa” che ha rapito il francese Hervé Gourdel nelle montagne di Kabilya, fu eliminato meno di tre mesi dopo l’uccisione del francese. Il gruppo che lo ha rimpazziato fu distrutto in pochi giorni. In Algeria lo stato islamico non può giocare sul binario della polarizzazione sunniti/sciiti perché il 99% della popolazione è sunnita.
23 anni dopo la Black Decade, la sanguinosa guerra civile, che fu precipitata dalla cancellazione, da parte dei militari, delle elezioni vinte dall’Islamic Salvation Front e che ha ucciso approssimativamente 200,000 algerini, l’ideologia salafista e l’attivismo stanno, ancora una volta, emergendo come terreno di dispute politiche.
Molti fattori spiegano l’impennata dei salafisti in Algeria. Nell’eco del panorama nel Medio Oriente e nella regione del Nord Africa, gli algerini affrontano una stagnazione economica, una paralisi politica ed il cambio generazionale. La crescita delle incarnazioni del salafismo (non violento) come ribellione morale contro la crisi delle istituzioni dello stato, con i suoi codici morali rigidi e le promesse di confortare dalle malattie della società, forniscono ai giovani scontenti un’alternativa alle istituzioni religiose statali moribonde e alla crescente irrilevanza dei movimenti islamisti predominanti che li cooptano. Paradossalmente, lo stato ha giocato un ruolo non trascurabile nell’ondata di salafismo utilizzando il movimento come un contrappeso ideologico all’islam politico e ai gruppi rivoluzionari.

algeria

Il salafismo algerino, situato all’estremo conservatore dello spettro teologico e politico, è lontano dall’essere omogeneo. I più prominenti sono i salafisti così detti “quietist” che si astengono dalla politica formale, ripudiano la violenza, ed esortano alla diffusione e l’applicazione di orientamenti teologici rigidamente conservatori nella società. I più importanti rappresentanti di questa linea sono El Ferkous e Abdelmalek Ramadani, attivi nelle associazioni caritatevoli e nei gruppi della società civile, così come nelle attività di vendita per strada. Dato il loro quietismo politico e la neutralità nei confronti del regime algerino, ai salafisti è permesso di avere le loro scuole private, costruire reti di affari indossare i loro peculiari abiti, le lunghe barbe e le tonache bianche. La facilità di accedere alle reti salafisti è particolarmente seducente per i giovani del paese e per i disillusi con quello che loro percepiscono essere l’estrema vecchiaia accumulata dalla società algerina. Dalla sua parte, il regime algerino beneficia della crescita di un movimento apolitico che può aiutare a dissuadere “giovani a rischio” sia dalla politica che dall’estremismo violento. Diversamente dalla Tunisia e dal Marocco dove i principali partiti islamisti sono maturati in importanti forze politiche ed intellettuali, gli islamisti algerini sono affogati nella letargia intellettuale e si sono grandemente disconnessi con le loro basi elettorali. La loro inabilità di adattarsi alle grandi trasformazioni sociali recenti ha eroso le loro posizioni politiche e sociali nella società. Con il loro discorso moralizzatore e con le loro attitudini egalitarie, i salafisti stanno perciò emergendo come contrappeso alla stagnazione dell’islam politico. Tuttavia è bene precisare che non tutto il salafismo manca di un orientamento politico. Come nei paesi vicini, una corrente minoritaria salafista è diventata politicizzata. Un esempio è la creazione dell’Islamic Sahwa Front nel 2013 e del Algerian Front for Reconciliation and Salvation nel 2014. Entrambi i movimenti sono guidati da figure salafiste controverse e provocatorie, il cui obiettivo è quello di creare uno stato islamico. Fin qui, tuttavia nessun movimento ha ottenuto il riconoscimento di partito politico o ha saputo vendere l’idea di un impegno politico della più ampia comunità salafista. Alcuni osservatori credono che il regime alla fine seguirà il modello marocchino di integrazione politica dei salafisti che hanno pubblicamente ripudiato la violenza e la sovversione.
Il regime algerino nello sforzo di impedire che le correnti salafiste più conservatrici possono trovare terreno fertile, ha rinforzato il quadro istituzionale di supervisione delle moschee e dei discorsi religiosi. Nel 2015 il governo ha annunciato la creazione del Consiglio Scientifico Nazionale, incaricato di emettere le fatwa “ufficiali”. I suoi membri sono assistiti dall’istituzione egiziana Al – Azhar, considerata un’alta autorità nella giurisprudenza islamica. Il Consiglio ha già emanato una serie di decreti religiosi, dalla permissibilità dell’accettazione di prestiti bancari all’acquisizione di appartamenti sovvenzionati ai limiti imposti sul trapianto di organi e al divieto di donazione di sperma ed ovuli anonimi.

Febbraio 3 2016

Compagnia aerea che parte, compagnia aerea che viene

compagnia aerea

Si era detto di non fare affari con gli stati che finanziano i terroristi. Si era detto che il turismo può aiutare la nostra Italia. Si fa tutto il contrario di quello che si dice, ovviamente!

Ad ottobre Ryanair chiuderà le sue basi di Alghero e Pescara, taglierà alcune rotte e  chiuderà tutti i voli a Crotone. Il motivo è la decisione del nostro formidabile governo di aumentare ancora le tasse, danneggiando il turismo italiano, il traffico e i posti di lavoro. La compagnia irlandese contesta al governo italiano di aver aumentato le tasse di circa il 40% (da 6,50 a 9 euro) per ciascun passeggero in partenza dall’Italia dal 1°gennaio di quest’anno per sussidiare il fondo per la cassa integrazione degli ex piloti Alitalia.
Ryanair ha dunque deciso di spostare aeromobili e posti di lavoro Ryanair fuori dall’Italia verso altre basi Ryanair in Spagna, Grecia e Portogallo (dove non vengono addebitate tali tasse per passeggero).
Ryanair ha messo in guardia dal danno che l’aumento di questa tassa avrà negli aeroporti regionali italiani, che perderanno non solo rotte e traffico, ma anche i visitatori verso queste regioni, oltre ai posti di lavoro creati e sostenuti dal turismo. A nulla sono valse le sollecitazioni di Ryanair al buon Renzi, affinché elimini questa tassazione dannosa, così come hanno fatto i governi di Belgio, Irlanda e Paesi Bassi con tasse simili. Volete vedere cosa succede ai tre aeroporti regionali di Alghero, Pescara e Crotone? Eccovi una tabella in cui potete vedere l’astuzia del governo Renzi:compagnia aerea

Ci facciamo prendere anche in giro dal campo dell’ufficio commerciale di Ryanair, David O’Brien, che dichiara: “Dopo un anno da record per il turismo in Europa e un altro anno importante davanti, il Governo italiano ha deciso di darsi la zappa sui piedi aumentando le tasse sui passeggeri di circa il 40%, per gonfiare il fondo per la cassa integrazione degli ex piloti Alitalia. Quale compagnia aerea più grande in Italia, volando su 26 aeroporti e trasportando 27 milioni di clienti all’anno da e per l’Italia, a Ryanair non è stata lasciata altra scelta se non quella di chiudere due delle sue 15 basi italiane (Alghero e Pescara) e spostare i suoi aeromobili, piloti ed equipaggi verso paesi con costi più bassi per il turismo. Interromperemo anche tutti i nostri voli all’aeroporto di Crotone e saremo costretti a effettuare ulteriori tagli alle rotte sui nostri aeroporti italiani”.
Si era detto che in Italia era necessario puntare sul turismo, ebbene quella tassa danneggerà seriamente il turismo italiano, particolarmente presso gli aeroporti regionali dove Ryanair porta milioni di visitatori ogni anno, contribuendo all’economia locale per milioni di euro attraverso turisti, supportando migliaia di posti di lavoro. Chiaramente in un momento in cui la disoccupazione giovanile supera il 40%, il turismo, ci sembra logico, che  debba essere danneggiato. Uno dei pochi settori che può stimolare la rapida creazione di posti di lavoro per i giovani delle regioni d’Italia. Se questo non basta, l’Italia si è resa poco competitiva e meno attrattiva per le compagnie aeree e i turisti e poiché sempre più clienti evitano quest’anno il Medio Oriente e il Nord Africa per prenotare vacanze nel Mediterraneo, l’Italia consegnerà un’opportunità d’oro per la crescita alle destinazioni in Spagna, Portogallo e Grecia che hanno costi minori per il turismo.

Per una compagnia aerea che va, ce n’è una che viene

Peccato che sia la Qatar Airways. L’accordo tra Matteo Renzi, il ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi, quello dei Trasporti, Graziano Delrio, e Akbar Al Baker, numero uno del gruppo arabo – l’ultimo pochi giorni fa a Roma – sarebbe ormai pronto e quindi la Qatar Airways entrerà In Italia  prendendo in mano il 49% della linea aerea sarda, Meridiana. Una quota (la stessa che ha permesso ad Etihad di entrare in Alitalia) che consentirebbe al Qatar di avere accesso a tutti i diritti di volo italiani e internazionali attualmente in possesso di Meridiana.

Per quanto ci possa stare a cuore la sorte dei  tanti lavoratori di Meridiana la cui cassa integrazione scadrà a giugno, fare affari con il Qatar ci sembra una totale contraddizione con la lotta globale al terrorismo internazionale: non fare affari con gli stati che finanziano il terrorismo.

Il Qatar è inescusabilmente negligente nel contrastare i finanziamenti privati al terrorismo internazionale

La lista delle mancanze del Qatar nella lotta al finanziamento dei gruppi violenti estremisti è parecchio lunga. Ci limitiamo a fare un esempio che speriamo possa utile per la comprensione di come il Qatar sia inesorabilmente negligente. Il dipartimento del tesoro americano ha imposto sanzioni su due cittadini del Qatar accusati di fornire fondi ad Al Qaeda in Pakistan, così come ad Al Nusrah Front in Siria e agli estremisti nel Sudan. Il Dipartimento del tesoro ha descritto i due uomini come i maggiori facilitatori e i finanziatori responsabili per il supporto al terrorismo internazionale nel Medio Oriente. Una più attenta disamina di come il Qatar ha affrontato il caso di questi due uomini: Sa’d bin Sa’d al-Ka’bi,e altri individui Abd al-Latif bin ‘Abdallah al-Kawari, ci fornisce ulteriori conferme che Doha è stata inescusabilmente negligente quando si tratta di interrompere ogni possibilità di finanziamento per i terroristi. Il Qatar non ha arrestato i due uomini.
Ka’bi anche conosciuto come Umar al – Afghani ha fornito supporto al braccio siriano di Al Qaeda e ad Al Nusrah Front dal 2012 e ha messo su una campagna di donazioni, in Qatar, per tutto il 2014 in risposta ad una richiesta di finanziamenti dall’affiliato di Al Qaeda per armi e cibo. Inoltre è stato coinvolto nella facilitazione di pagamenti per riscatti per gli ostaggi detenuti da Nusrah. Il Qatar ha giocato un ruolo prominente nel rilascio degli ostaggi di Al Nusrah Front e pare che abbia pagato molti di questi riscatti. Gli Stati Uniti hanno inoltre dichiarato che Ka’Bi lavorava a stretto contatto con Hamid bin Hamad al ‘Ali un religioso del Kuwait che è stato messo nella lista degli individui sanzionati dalle Nazioni Unite e dagli Stati uniti per il legami con i gruppi estremisti, egli stesso si è dichiarato come facente parte del “commando Al Qaeda”.
L’altro individuo, Kawari è accusato dal governo americano di aver prestato servizio come ufficiale di sicurezza e di raccoglitore del supporto finanziario per il gruppo. Quest’ultima attività, secondo gli Stati Uniti, risale a più di una decade fa, indicando che ha lavorato per finanziare al Qaeda in Pakistan in partneriato con un cittadino del Qatar e con un saudita il cui soprannome è Hassan Gul. Nel marzo del 2013 è stato scoperto che la campagna di finanziamento lavora sotto l’ombrello del Qatar Centre for voluntary work, un entità identificata anche su facebook come un’organizzazione governativa fondata nel 2001 con un decreto di stato. Il suo board è nominato dal ministro del Qatar della gioventù e dello sport ed il centro è supervisionato dal ministro della cultura del governo del Qatar. Un articolo sul sito del ministero della cultura del Qatar descrive assistenza umanitaria in – kind trasportata in Siria dal Volunteer Centre.
Kawari è fisicamente in Qatar, secondo informazioni rilasciate dal Dipartimento del Tesoro americano. Anche se sia lui che Ka’bi devono essere detenuti in Qatar, il paese ha un record nel rilascio di individui designati dagli Stati Uniti e dalle Nazioni Unite come finanziatori del terrorismo internazionale. La mancanza di efficaci e visibili pene attraverso il sistema giudiziario del Qatar ci indica che altri potenziali finanziatori del terrorismo internazionale girano indisturbati e possono commettere crimini nel presente e nel futuro. Non c’è un singolo caso in cui il Qatar ha detenuto, o indicato le accuse o incriminato un cittadino del Qatar in relazione a reati di finanziamento del terrorismo internazionale dopo che diversi cittadini del Qatar sono stati iscritti nelle liste speciali degli Stati Uniti e delle Nazioni Unite per la lotta al finanziamento del terrorismo internazionale. Le leggi il Qatar le ha varate, solo dopo la pressione internazionale, ma non le applica.
Non c’è una ragione che ci persuade a credere che il Qatar abbia cambiato registro su quello che è sempre stato un ambiente permissivo del finanziamento al terrorismo internazionale. Piuttosto, il Qatar sembra aver del tutto violato e dimenticato le promesse fatte in occasione dell’ultimo anniversario dell’11 settembre quando si diceva impegnato a combattere il finanziamento dello stato islamico e di tutti i gruppi violenti estremisti e mettere fine all’impunità e portare i colpevoli davanti alla giustizia come prezzo per essersi unita alla coalizione anti ISIS.

Quindi ricapitolando,

il turismo regionale, chisenefrega; i posti di lavoro persi, chisenefrega, evviva i soldi del Qatar che con una mano li da all’Italia e con l’altra li da ad Al Qaeda e ad altri gruppi violenti estremisti.

Febbraio 2 2016

Caucus Iowa: la politica americana al voto

caucus Iowa

Dopo lo Iowa, il partito democratico e la Clinton affrontano una feroce sfida ideologica, mentre la vecchia guardia dei repubblicani si confronta con gli assalti tradizionali di Cruz e gli attacchi non convenzionali di Trump.

Leggendo i giornali italiani questa mattina, mi rendo conto che non è chiaro il processo elettorale americano, meno chiaro evidentemente è il sistema di scelta dei candidati alla presidenza degli Stati Uniti. Ho cercato di spiegare in un articolo: “6 semplici passi per capire come funziona il caucus” cosa è il sistema caucus. Qui mi voglio spingere oltre, in una tabella, vi spiego la differenza tra caucus e primarie negli Stati Uniti. Tanto per essere precisi e non incorrere nei titoloni dei nostri giornali: Primarie Usa: Clinton vince a fatica

 

caucus Iowa

Detto questo, cerchiamo invece di capire a che punto si trovano i partiti americani nella corsa per le elezioni presidenziali in autunno.

Caucus Iowa: cosa ci dice

Ieri, alla fine della serata l’establishment democratico e Hillary Clinton hanno apparentemente tenuto botta, come si dice a Roma, con l’ex segretario di stato che sembra sconfiggere il senatore Bernie Sanders, un sedicente socialista democratico che canalizza le ire populiste. Sul fronte repubblicano, il senatore Ted Cruz, una nemesi dell’establishment repubblicano, prevale nel caucus Iowa nel modo tradizionale: raccogliendo i voti degli evangelici e dei social conservatori e Donald Trump, il magnate della televisione verità, si è piazzato al secondo posto (28 – 24%) che vuol dire che metà dei votanti repubblicani si sono ribellati alle ridicolaggini.
Questo è l’anno degli “esterni”. Trump è entrato nella gara repubblicana chiamando tutti idioti e ha fatto diventare il partito repubblicano l’ultima estensione dell’”impero Trump”. Cruz una volta un avvocato aziendale (che è sposato con una dirigente di Goldman Sachs) ha fatto campagna elettorale finora come un pio tiratore di bombe entusiasta di prendere lo status del “non facciamo niente noi politici di Washington”. Bernie Sanders, un senatore 74enne del Vermont che un anno fa, neanche democratico, si scontra con l’incoronazione di Hillary Clinton, con la sua chiamata per una “rivoluzione politica” che farebbe finire in mille pezzi le grandi banche, farebbe svanire la classe dei multi miliardari, per poi dire una piccola unica preghiera per il sistema sanitario e per il college gratis per tutti gli americani.

Vediamo più da vicino chi sono questi candidati

Sanders, con il suo richiamo a fare fuori l’establishment dai grandi uomini d’affari, che  asserisce, fortemente, che la Clinton è parte di un sistema corrotto. Lui è stato capace di avvantaggiarsi di un pre esistente e anche irrequieto blocco ideologico all’interno dell’elettorato democratico: i progressisti. Secondo un sondaggio dell’anno scorso, il 44% dei democratici si fa chiamare liberali, quindi ogni candidato democratico che sinceramente sfida la Clinton, con un entusiasta appeal progressista, avrà l’opportunità di vedere la sfida. I fieri sostenitori di Sanders, il cui essere di sinistra non è stato mai messo in dubbio, lo hanno seguito e dove la Clinton, il cui progressismo è stato spesso dibattuto, sembrava incespicare e fallire nell’inspirare i più giovani e i più liberali, Sanders ha avutolo spazio necessario per presentarsi come il modello di vero progressista di quest’anno.

Dimentichiamo per un attimo il caucus Iowa, che non è certo un evento rappresentativo, e guardiamo alle stime delle votazioni nazionali per i democratici. La Clinton è in testa su Sanders del 52% contro il 37%. Anche se Sanders è maledettamente vicino a quel 40% che è stato a lungo associato all’ala progressista, e l’ha sorpassato nello Iowa, non è così probabile che lo faccia nello New Hampshire dove i tre recenti sondaggi hanno messo in testa la Clinton tra il 20 ed il 31%. Nel lungo termine resterà al di sopra del 40%, particolarmente in quegli stati dove ci sono elettorati diversi, cioè più persone di colore e più votanti latini. Sarà in questi contesti che si vedrà se Sanders ha riformato il partito.

Cruz: ha fatto qualcosa di simile a Sanders. Si è appellato al blocco ideologico che anela ad un campione. Con il collasso di Ben Carson, Cruz è stato in grado di consolidare attorno a sé molto del voto conservatore.

Trump non sta dichiarando una guerra ideologica. Come esiste una base progressiva nel partito democratico, c’è un fondamento conservatore nei repubblicani, di quegli eroi dell’ala destra che hanno vinto i contesti repubblicani presidenziali (rispettivamente nel 1964 e nel 1980) radunando le radici conservatrici dei repubblicani.  Il gioco di Trump non è diventare il leader dell’ala conservatrice del partito, lui sta dichiarando una guerra culturale, non una ribellione ideologica e tutti quelli che non sono d’accordo con lui sono stupidi. Con la sua campagna elettorale, la politica è personale. Le sue ricette politiche, se così si possono chiamare, non si attagliano ad una chiara linea ideologica. Richiama al Muro, vuole meno tasse, si oppone agli accordi commerciali sponsorizzati dal Big Business, condanna la corruzione di Washington, deride l’invasione americana in Iraq, ma promette di distruggere l’ISIS  con una massiccia (“non ci crederete quanto grande” ) forza militare. Di tutto un po’! La base del suo supporto è in quelle persone che hanno passato gli ultimi 8 anni a detestare Obama. Questo odio per Obama è stato incoraggiato e sfruttato dai repubblicani che hanno ottenuto potere a Washington con il tea party. I votanti repubblicani che hanno “comprato” la propaganda repubblicana per cui Obama ha distrutto gli Stati Uniti, non sono elettori che vogliono una crociata che citi la Costituzione e che presenti argomenti intellettualmente sensati per meno tasse e più piccoli governi. Cercano un “capo dello sfogo” che è furioso tanto quando loro e che promette che lui e la nazione vinceranno, vinceranno, vinceranno.

La conquista del partito repubblicano stava andando bene finché non è arrivato Cruz, che ha anche lui cercato di capitalizzare il risentimento dell’ala di destra, migliore di Trump nel caucus Iowa. Adesso Trump deve provarci maggiormente e sarà interessante vedere come gli elettori risponderanno ad un “diminuito” Trump. E’ ancora posizionato bene nello New Hampshire e dopo questo, perché non vincere in Sud Carolina, Nevada e poi negli stati del sud?Per ora nessuno sa dirci quando la bolla Trump esploderà o se può tornare al vertice con quello che probabilmente sarà uno sforzo enorme per infiammare le passioni di elettori arrabbiati.