Gennaio 9 2016

Finché la Polonia va l’Unione Europea la lascia andare

Polonia

La Polonia tra bavaglio ai media e pugno duro con la Corte Costituzionale preoccupa Bruxelles e gli Stati Uniti.

Un altro paese conservatore dell’Unione Europea, che parla alla gente di come la debolezza dei funzionari europei minacci i loro interessi.

Nel pensare l’argomento di questo post, mi sono soffermata un attimo a riflettere ad una domanda che mi è stata rivolta qualche settimana fa. “Perché in Italia non si parla di politica internazionale?”. Desidero allora cogliere l’occasione di rispondere e precisare perché il mio blog tratta di alcuni argomenti “impopolari”.

La politica internazionale in Italia si risolve quasi sempre attorno agli argomenti generalisti, quelli per cui i giornali riescono a vendere più copie. Quelli per cui molti politici ci fanno campagna elettorale. Molti paesi escono completamente dall’occhio delle relazioni internazionali italiane, un po’ per la superficialità del governo e del suo ministro degli esteri, ma molto perché appunto non fanno audience. La politica internazionale non deve fare gossip; le relazioni internazionali, l’equilibrio del potere tra gli Stati, il fatto che apparati sovraordinati agli stati come l’Unione Europea  barcollino è un discorso complesso che deve necessariamente abbracciare la singola politica di tutti gli stati presenti nel mondo.

Per questo motivo oggi parliamo della Polonia, perché la debolezza dell’Unione Europea è anche nella spinta centrifuga dei suoi stati membri. La Polonia, come la vicina Ungheria, si sposta verso una linea conservatrice concentrata sul mantenimento e rafforzamento del potere locale, a discapito dell’equilibrio complessivo dell’Unione.

Il nuovo governo polacco, peraltro, preoccupa anche gli Stati Uniti. Le relazioni internazionali, per l’appunto, sono collegamenti anche apparentemente invisibili da un capo all’altro del mondo.

Polonia come Ungheria?

Il governo polacco, eletto recentemente, guidato dal partito Diritto e Giustizia, conosciuto in polacco come il PiS, si dipinge come un coraggioso condottiero contro una elite discreditata che agiva contro gli interessi dei polacchi.
Il precedente partito di governo di centro – destra, guidato da “piattaforma civile” nel chiaro tentativo di mantenere l’influenza sulla Corte Costituzionale nomina cinque membri, aprendo una crisi istituzionale che si acuisce con la vittoria schiacciante del PiS nelle elezioni di ottobre 2015, portando al potere il primo governo di maggioranza in Polonia dalla caduta del comunismo. La vittoria parlamentare segue la vittoria a sorpresa del candidato del partito, il giovane avvocato di Cracovia, Andrzej Duda, alla presidenza. La presidenza polacca è un titolo più “cerimoniale” che altro, ma il presidente è in grado di porre il veto sulle leggi e proporne di nuove.
Un mese fa la Corte Costituzionale polacca stabilisce che tre dei cinque giudici nominati da “piattaforma civile” erano costituzionali, ma Duda si rifiuta di farli giurare; ne nomina cinque nuovi, facendone giurare quattro durante una cerimonia notte tempo al palazzo presidenziale. Mossa questa di dubbia costituzionalità. La corte rifiuta i nuovi membri di Duda, ma il governo si spinge oltre. Una sessione infuocata del parlamento proprio a dicembre 2015, decide che tutte le decisioni della corte devono essere prese a maggioranza dei 2/3. Questa è la strategia per far accettare alla Corte le nomine del PiS e rallentare il processo di controllo della legislazione parlamentare da parte della Corte e, non da ultimo, diminuire i suoi poteri di bloccare nuove leggi.
Il 30 dicembre 2015, il parlamento in tutta fretta approva una nuova legislazione che concentra nel governo il controllo dei media dello Stato. I funzionari dell’Unione Europea hanno condannato la legge come una minaccia alla libertà di parola; ma ora questa è la legge in Polonia.
Duda ha descritto la Polonia come una vergogna, piuttosto strano visto il miglioramento degli standard di vita dei polacchi ed il suo processo di crescita come potenza diplomatica in Europa. Tuttavia Duda ed il PiS rappresentano milioni di polacchi che sentono di essere stati lasciati fuori dal boom economico o alienati dall’elite liberale. Ci sembra bizzarro tuttavia che nel partito di Duda siano presenti ex funzionari di quella elite post comunista tanto ostracizzata dal PiS.
Oggi, le somiglianze con il governo del primo ministro di estrema destra Orban nella vicina Ungheria sono impressionanti. Orban ha limitato la libertà dei media, prevaricato le organizzazioni non governative, emendato la costituzione a suo favore, tutto in nome di liberare l’Ungheria da elementi del suo passato comunista e dalla presunta corruzione degli anni post – comunisti.
Ben prima della crisi, gli oppositori del PiS hanno argomentato che il partito voleva veramente construire una Budapest sulla Vistola.

L’Unione Europea come Ponzio Pilato

Il PiS ha vinto la sua maggioranza grazie ai voti dei centristi, ma i sondaggi oggi indicano che molti di loro già si stanno allontanando dal partito in favore di un nuovo partito liberale chiamato “modern”, guidato da un economista: Ryszard Petru.

L’Unione Europea se ne lava le mani: il PiS può continuare ad utilizzare le critiche dei commissari non eletti a Bruxelles come maggiori prove in supporto della narrativa di una debole elite europea che minaccia gli interessi polacchi.

Il dipartimento di stato americano si è preoccupato dei cambiamenti in Polonia, soprattutto della guerra intestina governo/corte costituzionale. La Polonia è un alleato importante, strategico, per gli Stati Uniti, vista la sua collocazione geografica nell’est europeo e soprattutto perché la Polonia ha le più efficienti forze armate della regione.

Gennaio 7 2016

Libia: lo scandalo ONU che nessuno racconta

Libia

Libia martoriata da un guerra civile, dallo scellerato intervento del 2011, viene mortificata ancora dallo scandalo del rappresentante ONU. Non ricercate le colpe nei libici, ma nei carrozzoni burocratici occidentali.

Certo l’ISIS che diffonde le foto dei suoi raid sulle infrastrutture petrolifere libiche non è il massimo, aver ottenuto dei successi a Sirte e aver preso il controllo di due città nell’area: Bin Jawad e Nawfaliyah, preoccupa. Preoccupa perchè il vuoto politico non si colma ed anzi si colora di ombre gettate proprio dalle Nazioni Unite. Passato del tutto inosservato dal mondo intero, perchè fa comodo pensare che la colpa sia dei terroristi.

La Libia mortificata dal funzionario corrotto delle Nazioni Unite

Il rappresentante speciale per le Nazioni Unite in Libia, Bernardino Leon, ha negoziato un lavoro per 35000 sterline al mese con gli Emirati Arabi Uniti (UAE),che supportano una delle parti in lotta nella guerra civile in Libia, come direttore generale della sua “accademia diplomatica”. Fatto poi annunciato ufficialmente da UAE.

Leon se la cava dicendo che non è affatto un conflitto di interessi perché voleva lasciare il suo ruolo il 1 settembre 2015. Le email diffuse dal The Guardian mostrano che l’incarico fu offerto a Leon a giugno 2015 e che ad agosto 2015 proprio Leon aveva già intenzione di andare con la sua famiglia ad Abu Dhabi. L’ONU lo rimuove e manda Kobler, un tedesco ed il fatto viene chiuso, archiviato, mai accaduto.

Le mail che fanno più orrore di un bombardamento

Erano passati 5 mesi da quando era stato nominato mediatore in Libia e la prima mail che Leon invia risale al 31 dicembre 2014 indirizzata al ministro degli esteri UAE, Sceicco Abdullah bin Zayed, dalla sua casella di posta privata.

Leon dice che, “siccome ci sono progressi molto lenti nei colloqui di pace, l’Europa e gli Stati Uniti chiedono un piano B, una classica conferenza di pace“. Secondo Leon è una pessima opzione perché tratterebbe le due parti come attori uguali. Continua dicendo che il suo piano è quello di rompere un’alleanza pericolosa tra i mercanti benestanti di Misurata e gli islamisti che tengono a galla  il GNC (la formazione politica con sede a Tripoli). Dice che vuole rinforzare l’HOR (l’altra formazione politica con sede a Tobruk), l’apparato supportato dall’UAE e dall’Egitto. Dichiara che non sta lavorando ad un piano che includa tutti, che ha una strategia che delegittima completamente il GNC. Ammette che tutti i suoi movimenti e le sue proposte sono state prese in consultazione e, in molti casi direttamente con l’HOR e l’ambasciatore UAE in Libia Aref Nayed e l’ex primo ministro libico che sta in UAE, Mahmud Jibril.

Prima di firmare e spedire l’email, Leon afferma che lui può aiutare e controllare il processo mentre è li. Che tuttavia non ha pianificato di starci molto. Che ha avvertito gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e l’Unione Europa di lavorare con l’UAE.

Leon insiste che le mail sono state manipolate che stava considerando di dimettersi dal suo ruolo in Libia già a gennaio 2015. L’ambasciatore libico alle Nazioni Unite accusa i servizi d’intelligence britannici di aver dato le mail al giornale britannico. Al-Dabbashi aggiunge che questo dimostra il desiderio degli americani e degli inglesi di far scivolare il paese nel caos fino a quando i loro cittadini che hanno origini libiche abbiano l’opportunità di governare la Libia oppure di dividerla in mini stati.

La Libia e i libici ne pagano le conseguenze

La risoluzione 2259 del Consiglio di Sicurezza sulla Libia viene adottata il 23 dicembre 2015 e tutti applaudono alla formazione di un nuovo governo di unità nazionale, pace e stabilità, evviva! La realtà non è affatto così. L’azione scellerata di Leon ha gettato una grande ombra di legittimità sulle Nazioni Unite. Si crede in Libia che ci sia un gruppo politico a Tripoli, uno a Tobruk ed un terzo a New York. La sensazione per alcuni, la certezza per altri, che il governo sia stato paracadutato dall’occidente non aiuta per nulla. Il fatto che si sia approvato un piano scritto da un funzionario corrotto non fa altro che inasprire la situazione.

I bombardamenti diretti allo stato islamico in Libia forse aiuteranno gli interessi occidentali ma non aiutano affatto la Libia.

Un esempio su tutti. Il movimento politico Tabu ha reiterato che il non riconoscimento della tribù Tabu da parte dell’assemblea costituente viola l’art. 30 della dichiarazione costituzionale ad interim. L’art. 30 obbliga l’assemblea a considerare i punti di vista degli Amazigh, Tabu e Tuareg circa le leggi da adottare nella bozza della costituzione. Il 5 gennaio 2016 l’HOR non si riunisce ufficialmente a causa della mancanza di quorum. I membri dovevano incontrarsi per votare l’accordo politico firmato a Skhirat e il suo Faiez Serraj Government of National Accord  (GNA).

Certo è colpa dei libici che non si mettono d’accordo, in fondo è loro il paese perché non si danno una mossa a mettersi d’accordo? Ed è la fulminante dichiarazione del capo della politica estera europea: Mogherini, che richiama all’unità. Certo è ovvio: la colpa è dei libici. Come se la transizione politica di un paese si potesse fare dall’oggi al domani.

Punti deboli dell’Accordo Politico

Secondo l’accordo il 26 gennaio tutte le posizioni come il governatore della banca centrale libica e il comandante in capo dell’esercito nazionale libico andranno per default al GNA. Sempre in questa data la comunità internazionale dovrà e potrà indirizzarsi unicamente al GNA escludendo ogni contatto con i due governi precedenti.

Come già anticipato in un precedente post l’accordo politico ha molti punti critici che non fanno presagire un buon risultato. La procedura di selezione del primo ministro del governo di unità e dei suoi due deputati è il punto più critico per l’implementazione dell’accordo. Insieme queste tre posizioni formeranno il Consiglio Presidenziale, ognuno con un uguale potere di vero su decisioni governative chiave, soprattutto per il settore sicurezza. A loro verrà anche dato il compito di proporre una linea di governo. Altro limite: l’accordo di Skhirat non prevede una procedura concordata su come queste figure chiavi verranno scelte.

Il piano delle Nazioni Unite assume che ci siano solo due parti che combattono l’un altro, ma ci sono una moltitudine di differenti milizie di cui peraltro non è chiara quale sia la reazione dopo il 26 gennaio 2016.

Resta assente di un binario parallelo che si occupi soltanto di questioni legate alla sicurezza che avrebbe potuto creare un punto comune e quindi un ponte tra i gruppi armati rivali.

Nell’accordo non si menziona affatto il sistema giudiziario. L’ultima riforma della Corte Suprema risale al 1969. Numerosi sono stati i richiami di alcune organizzazioni internazionali al rispetto dei diritti umani nelle prigioni libiche. Il sistema carcerario nessuna menzione. La tortura: nessuna menzione.

Sì, continuiamo a dare la colpa ai libici perché in questa situazione l’occidente ha fatto molto bene: nel 2011 li ha bombardati, ha rimosso il leader (l’ha ucciso così per stare più tranquilli) e poi nel 2015 ha dato in mano le sorti del paese ad un funzionario delle Nazioni Unite corrotto. Ottimo lavoro! Sicuramente la colpa è dei folletti o negli unicorni!

Gennaio 6 2016

Nord Corea inizia l’anno con i botti… nucleari!

Nord Corea

Nord Corea inizia l’anno con il quarto test nucleare. L’unico stato al mondo convinto che la sua esistenza come stato autonomo derivi dal possesso di armi nucleari.

Un regalo di compleanno posticipato è quello che si è fatto Kim Jong – un: solo due giorni dopo il suo compleanno fa fare un altro test nucleare, per dimostrare che il Nord Corea non sta costruendo un paio di bombette nei sotterranei, ma vuole avere  le più moderne, sofisticate e letali bombe nucleari che il suo programma possa raggiungere. Questo è il quarto test nucleare del Nord Corea dal 2006 ed è il terzo durante l’amministrazione Obama. Le sanzioni internazionali dopo i tre test nucleari non stanno affatto ritardando lo sviluppo del programma.  Il leader nord coreano lo scorso dicembre ha dichiarato che il suo paese deve diventare: “un potente stato di armi nucleari pronto a detonare la bomba ad idrogeno”. Potrebbe essere una dichiarazione fasulla e non ci sorprenderebbe perché siamo abituati al tintinnio di sciabole del regime. E’ possibile che il Nord Corea abbia un’arma “più potente”, una che usi una piccola quantità di fusione per sostenere il processo di fissione.

Prima di ragionare in qualsiasi modo a proposito della leadership nord coreana e delle sue mosse, chiariamoci alcuni punti fondamentali quando si parla di bomba ad idrogeno.

Cosa è una bomba ad idrogeno?

Usa la fissione nucleare per dividere atomi e produrre energia. Dopo la detonazione, questa energia viene rilasciata risultando in una grande esplosione. Hiroshima e Nagasaki ve le ricordate? Ecco lì fu utilizzata la bomba ad idrogeno.

Tuttavia le bombe ad idrogeno, possono avere una varietà di configurazioni. Conosciuta anche come bomba termonucleare, generalmente comprendono un sistema di strati dove un’esplosione ne provoca un’altra – come la fissione nucleare o la fusione nucleare. In un tipo di bomba ad idrogeno, la reazione di fissione emette raggi X che provocano la fusione di due isotopi d’idrogeno, trizio e deuterio. Questo a sua volta provoca un enorme rilascio di energia. Queste sono considerevolmente più potenti delle bombe atomiche.

Come si fa a sapere che si è detonata una bomba?

Grazie alle letture sismologiche da una varietà di sismometri nel mondo. Questi sono capaci di rilevare forme d’onda da grandi eventi sismici. In questo caso, la forma d’onda inizia all’improvviso e poi sbiadisce, coerente con un’esplosione, e non con un evento naturale come un terremoto.

Era una bomba ad idrogeno?

Le letture sismologiche, tra i 4.9 e i 5.1, sono consistenti con i loro test precedenti, che erano di bombe al plutonio. Il Nord Corea, tuttavia, dichiara che era una bomba ad idrogeno “rimpicciolita”. Gli esperti sono scettici. Potrebbe essere che Il Nord Corea menta, come dicevamo all’inizio, oppure che sono diventati più efficienti con la fissione. Potrebbe anche essere che la parte di idrogeno del test non ha funzionato molto bene ovvero la parte di fissione non ha funzionato benissimo.

Il Nord Corea è nella politica internazionale una categoria a sé stante

E’ l’unico stato che si è formalmente ritirato dal Trattato di Non Proliferazione nucleare. Le armi nucleari sono parte delle disposizioni della sua costituzione mostrando alcun interesse nel perseguire la denuclearizzazione in termini che per ogni altro paese sarebbero accettabili. E’ l’unico paese a testare armi nucleari nel 21° secolo. Gli sforzi nucleari nord coreani persistono come uno schiaffo in faccia alle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e alle sanzioni. La leadership si vanta dell’ampliamento del programma costantemente ed in questi termini “100 per cento basato sul nostro sapere, sulla nostra tecnologia e sul nostro potere, abbiamo alzato orgogliosamente il grado di stato nucleare”.

La leadership nord coreana ha perciò convinto essa stessa che la sua esistenza come stato autonomo deriva direttamente dal suo possesso di armi nucleari. Esplicitamente contrasta la sua continua sopravvivenza con il destino di Saddam Hussein in Iraq e Gheddafi in Libia, asserendo che le armi nucleari sono essenziali per assicurare la sopravvivenza del regime. Non sorprende che il Nord Corea caratterizzi presunti disegni maligni di potenze esterne per giustificare i costi prodigiosi di un tale programma e le gravi implicazioni per il benessere dei suoi cittadini.

Cosa può essere fatto? La comunità internazionale, incluso la Cina e la Russia, hanno da tempo attenuato il gioco internazionale di “la colpa è tua”, ripartendosi la responsabilità per la persistenza e l’espansione degli sforzi del Nord Corea. Per il future indefinito, l’obiettivo dovrebbe essere di sostenere una coalizione il più possibile ampia, iniziando con un riconoscimento condiviso che lo sviluppo e la diversificazione dei programmi del Nord Corea è una minaccia comune, non diretta ad un solo paese. Ma interessi collettivi devono essere tradotti in azioni di stati singoli e la volontà di coordinare le loro azioni.

Un’ultima considerazione è d’obbligo:

perché la Cina non fronteggia il Nord Corea?

Tutti gli occhi sono puntati sulla Cina per vedere se il test nucleare produrrà un cambiamento nel supporto di Beijing al regime. Mentre potrebbe causare qualche limitazione d’assistenza nel breve periodo, è improbabile che causerà l’abbandono del Nord Corea da parte della Cina. La ragione risiede nella preoccupazione dei leader più anziani cinesi che se la Cina diventasse troppo intransigente con il Nord Corea esacerberebbe le relazioni bilaterali: Pyongyang si allontanerebbe e Beijing perderebbe quella piccola influenza che ha e le provocazioni inizierebbero ad aumentare. Sebbene la Cina non sia contenta della situazione odierna, mantenere il fragile status quo è preferibile all’incertezza del cambiamento. Anche se Beijing non è stata entusiasta della successione dinastica del dicembre del 2011, l’ha accettata credendo che potesse offrire una sorta di continuità e quindi conduttiva di una stabilità.

Negli ultimi 10 anni la diplomazia cinese nei confronti del Nord Corea si è mossa in due direzioni: non ha pubblicamente condannato il Nord Corea, ha stabilito un forum multilaterale con sei partecipanti: Nord Corea, Sud Corea, Cina, Russia e Giappone e Stati Uniti, per gestire la questione del nucleare nord coreano.

Le imprese cinesi investono un totale di 98.3 milioni di dollari nel Nord Corea. E’ il secondo investitore più grande in Nord Corea.

La politica cinese in Nord Corea sembra soffrire di inerzia e paura di poter rompere il fragile status quo, sostenendo i nord coreani con ogni strumento a disposizione. I leader cinesi preferiscono gestire il “problema nord corea” diplomaticamente ed economicamente, ma non significa che Beijing esiterà ad agire militarmente se gli interessi vitali di sicurezza della Cina fossero messi in pericolo da azioni scellerate dei nord coreani.

Gennaio 5 2016

Perché l’Arabia Saudita accresce il conflitto settario?

Arabia Saudita

L’Arabia Saudita sta agendo secondo un manuale di gioco standard nel caso di sfide domestiche e regionali. Attivare il conflitto settario anti – sciita è una mossa familiare che rientra nei suoi sforzi di contenere e isolare l’Iran.

L’Arabia Saudita ingenera una disputa e la fa diventare una questione globale per focalizzare l’attenzione su un nemico familiare nel Medio Oriente: il conflitto settario.

Il conflitto settario è sempre stato una carta utile per regimi violenti ma deboli, per dividere i potenziali oppositori e generare entusiasmo tra i sostenitori.

Ci sembra utile chiarire fin da subito che immischiare l’intensificazione del conflitto settario saudita nelle prominenti politiche della regione è voler ingigantire la faccenda. La sfida dell’Iran e la mobilitazione di passioni settarie sono parte di un libro di gioco standard per Riad, in particolare quando si trova ad affrontare sfide domestiche e regionali.

L’Arabia Saudita può contare sulla (momentanea) stretta relazione con gli Emirati Arabi Uniti (UAE) e la temporanea debolezza delle potenze tradizionali come l’Egitto, la Siria e l’Iraq. I rivali principali dell’Arabia: il Qatar e la Turchia, hanno avuto molti intoppi e rimproveri da parte delle grandi potenze soprattutto per la presunta (mica tanto) copertura di gruppi estremisti come l’ISIS.

Chiaramente l’Arabia Saudita si sente debole: le guerre in Siria e Yemen, la crescita dello stato islamico e l’accordo sul nucleare dell’Iran l’hanno lasciata profondamente vulnerabile. Questa combinazione di forza e vulnerabilità ha dato vita ad una politica estera irregolare, incostante, specialmente con una leadership più aggressiva vogliosa di lasciare il proprio segno.

I fallimenti della politica estera saudita

Punto 1. Ha fallito nel bloccare l’accordo sul nucleare con l’Iran, conosciuto formalmente come il Joint Comprehensive Plan of Action.

Punto 2. La sua politica di appoggiare gli insorti in Siria non ha rimosso Assad, malgrado massicce sofferenze umane, mentre gli insorti si sono radicalizzati ed è emerso l’ISIS.

Punto 3. L’intervento in Yemen è oggi riconosciuto da tutti come un fallimento strategico che ha non ha raggiunto i propri obiettivi. La politica si è polverizzata sotto il peso di enormi perdite di vite umane.

Punto 4. La leadership sunnita. Malgrado l’unità superficiale alla conferenza di Riad per l’opposizione siriana e il supporto congiunto per nuove formazioni di ribelli, il Qatar e la Turchia continuano a competere con l’Arabia Saudita per l’influenza su questi gruppi di insorti. Al di là del Bahrain sembra improbabile che il resto del GCC seguirà la sua guida per inasprire i legami con l’Iran. Anche l’UAE ha solo accordato di diminuire le relazioni con Teheran.

Punto 5. La dominazione dei ribelli siriani da parte di fazioni settarie jihadiste ha creato gruppi potenti con le loro agende: una sfida alla politica della monarchia saudita. La nemesi di lungo tempo con al Qaeda nella penisola araba ha vinto significativamente dal caos in Yemen. La spinta per reprimere e criminalizzare i fratelli musulmani rimane estremamente impopolare.

Cambiamenti strutturali della regione hanno scatenato passioni settarie più difficili da controllare rispetto al passato.

La struttura settaria delle odierne guerre nella regione, in particolare la Siria, è stata permeata a fondo dalla politica dell’identità e dai  discorsi pubblici sul fallimento delle rivoluzioni arabe. Le rivoluzioni arabe del 2011 hanno rivelato una profonda debolezza dietro la violenta facciata degli stati della regione. I regimi autocratici possono aver rovesciato o cooptato le richieste popolari per il cambiamento, ma manca una governace efficace o la legittimità basata su un ampio consenso, quindi l’entità statuale rimane debole ed instabile. Il conflitto settario è rimasto sempre una carta utile per questi regimi violenti ma deboli per dividere i potenziali oppositori e generare entusiasmo tra i sostenitori. Poi ci sono gli stati che sono collassati dando vita a guerre civili: Siria, Yemen, Libia. Il fallimento dello stato, in quanto appunto entità, soggetto internazionale, unitamente al perdurare di guerre civili hanno creato le condizioni ideali affinché il conflitto settario avesse una presa salda su comunità spaventate, arrabbiate e polarizzate. La guerra in Siria è stata il grande incubatore del conflitto settario.

L’accordo nucleare con l’Iran.

L’acutizzarsi delle paure saudite è prima di tutto da ricercarsi nel potenziale successo dell’accordo nucleare con l’Iran. L’Arabia Saudita vede la reintegrazione dell’Iran nell’ordine internazionale e l’evoluzione della relazione con Washington come una profonda minaccia alla sua stessa posizione regionale.

Mobilitare il settarismo anti – sciita è una mossa familiare proprio nello sforzo dell’Arabia Saudita di contenere e isolare l’Iran. I sauditi si sono sempre opposti a ogni maggiore iniziativa politica americana nel Medio Oriente negli ultimi 5 anni. L’incremento del conflitto settario è molto probabilmente visto anche nell’ottica di voler minare gli obiettivi strategici primari americani nella regione come l’accordo con l’Iran appunto, e la fine negoziata alla guerra in Siria, infiammando tensioni in modi che rendono i progressi diplomatici impossibili.

L’Iran testa missili balistici in grado di portare testate nucleari

Mentre  l’Arabia Saudita si preoccupa che l’Iran venga “reintegrata” nell’ordine internazionale, l’Iran conduce due test di missili balistici uno il 10 ottobre 2015 (tre giorni prima che il parlamento iraniano approvasse l’accordo sul nucleare) e un altro il 21 novembre 2015. L’amministrazione Obama era sul punto di annunciare nuove sanzioni su individui e imprese accusate di aver aiutato l’Iran a sviluppare il suo programma missilistico balistico (approssimativamente una dozzina di imprese e individui in Iran, Hong Kong e Emirati Arabi Uniti). All’ultimo minuto, tuttavia, l’amministrazione notifica al Congresso che rimanderà l’imposizione di queste sanzioni, senza spiegazioni.

Tuttavia le sanzioni poi “congelate” da Washington erano relative alla violazione della risoluzione UNSC 1929 e non dell’accordo sul nucleare. La risoluzione approvata nel 2010, prevede al paragrafo 9 che l’Iran non debba compiere nessuna attività relativa ai missili balistici* e gli Stati devono prendere tutte le misure necessarie per prevenire il trasferimento di tecnologia o assistenza tecnologica all’Iran relativa a queste attività.

A metà dicembre 2015 un comitato di esperti delle Nazioni Unite (NU) conclude che il lancio di ottobre viola la risoluzione 1929. Ironicamente, il rapporto fu diffuso lo stesso giorno in cui l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, decide di terminare la sua indagine sulle attività nucleari dell’Iran, avendo concluso che non c’era nessuna evidenza che l’Iran avesse condotto ricerche su armi nucleari dal 2009. Sebbene il rapport NU non è pubblico il  Wall Street Journal riporta alcuni dettagli: il missile balistico era una versione migliorata di precedenti missili, con una portata di 1,300 km con un carico fino a 1,400 km ed una migliore capacità di manovra nel momento di discesa sull’obiettivo. L’Iran è presumibilmente interessata allo sviluppo della sua capacità di missili balistici come meccanismo per lanciare testate nucleari, questo spiega perché il test di questi tipi di missili violerebbe la risoluzione 1929.  Rouhani ha dichiarato che non solo lo continuerà, ma lo espanderà. Il test di novembre, reso pubblico il 7 dicembre, riguarda Ghadr – 110, missile è anche capace di portare una testata nucleare.

Navi iraniane dagli angoli dello stretto di Hormuz, porta per il Golfo Persico, hanno lanciato un missile vicino alla portaerei americana Truman, una mossa che gli americani hanno definito parecchio provocatoria. Questi due avvenimenti messi a sistema ci dicono che le relazioni Iran – Stati Uniti non appaiono migliorate di molto e anzi la loro strada è lastricata di trappole.

*Un missile balistico – ‘espressione inglese corrispondente è Ballistic Missile – è un missile che ha una traiettoria di volo balistica, di tipo suborbitale. Il suo scopo è il trasporto di una o più testate (anche nucleari) su un predeterminato obiettivo.

Gennaio 4 2016

Bambini reclutati e armati dall’ISIS

bambini

Bambini usati come scudi umani, suicide bombers, cecchini, donatori di sangue, carcerieri, boia. Il mondo tace, dei bambini non importa granché.

L’ISIS attivamente recluta i minori per mandarli nei campi d’addestramento e quindi poterli utilizzare come combattenti, incluso nelle missioni suicide. L’ISIS usa regolarmente i bambini come scudi umani, suicide bombers, cecchini, donatori di sangue, carcerieri, boia, spie. Il rappresentante speciale dell’ONU per i bambini e i conflitti armati riporta che l’ISIS ha ordinato ai ragazzini di 13 anni di portare le armi, fare la guardia a posti strategici addirittura di addestrare i civili. Centinaia di bambini maschi “non civili” sono morti nei combattimenti. L’ISIS controlla strettamente l’educazione dei minori nei suoi territori. Secondo la testimonianza di un insegnante a Raqqa, l’ISIS considera la filosofia, le scienza, la storia, l’arte e gli sport incompatibili con l’Islam. L’ISIS paga i genitori e corrompe i minori per portarli nei campi di addestramento. Le bambine ed i bambini al di sotto dei 15 anni vengono portati  al “campo Shariah” per imparare in cosa consiste il loro credo e la religione. Quelli sopra i 16 anni che hanno già ricevuto l’indottrinamento nei campi possono partecipare alle operazioni militari. La propaganda dell’ISIS mostra nei video anche bambini più piccoli addestrati per utilizzare armi. Ve ne propongo uno: quello realizzato da Channel 4 News. Nel video, in inglese, testimonianze di minori, di un reclutatore. Le immagini scioccanti di un bambino che si è visto amputare una mano ed un piede per essersi rifiutato di entrare nei ranghi dell’ISIS. Il bambino mostra sul suo telefono le foto del suo boia che chiamano “caterpillar”.

Addestrare i bambini: la nuova forma di uomo dell’ISIS

Addestrare i minori nei piani del leader Abu Bakr al – Baghdadi vuol dire assicurarsi una nuova generazione di combattenti. La così detta “decapitazione della leadership”, strategia molto in voga negli Stati Uniti come soluzione principe per la sconfitta di un’organizzazione terroristica transnazionale, sarà insignificante, del tutto inefficace, di fronte ad un’organizzazione che prepara i bambini a mettersi nelle scarpe dei propri padri. Per imparare a decapitare un altro essere umano, gli vengono date delle bambole su cui fare pratica, anche degli orsacchiotti di peluche.

Così come altre organizzazioni totalitarie, l’ISIS ha come obiettivo quello di creare una nuova forma di uomo. I bambini sono più facilmente plasmabili nella nuova visione del mondo dell’ISIS. Come ci spiega uno psichiatra, Otto Kernberg, “gli individui nati in un sistema totalitario ed educati da esso fin dall’infanzia,  hanno poche possibilità di fuga dalla totale identificazione con quel sistema”. I sistemi educativi totalitari permettono un sistematico indottrinamento di bambini e giovani nell’ideologia dominante.

I quartieri poveri di Ankara sono una fonte di reclutamento di minori: Hacibayram è diventato un punto di reclutamento ISIS. Human Right Watch  ha scoperto che i bambini soldato vengono pagati l’equivalente di 100 dollari al mese.  I bambini di minoranze come i curdi e gli yazidi sono stati rapiti e forzati ad unirsi all’ISIS; secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, in un caso, più di 600 studenti curdi sono stati rapiti mentre tornavano a casa da scuola e condotti nei campi di addestramento.

Il generale McMaster, vice comandante generale del Future of US Army Training and Doctrine Command, il cui lavoro è valutare le minacce future per l’esercito americano, ha dichiarato che l’ISIS abusa dei minori in scala industriale, brutalizzandoli e de umanizzandoli sistematicamente.

L’utilizzo dei bambini soldato non fa notizia

Non se ne parla mai dei bambini vittime di una guerra che non hanno scelto, vittime dei giochi di potere dei “grandi”. E’ senz’altro più comodo pensare che solo gli adulti possano combattere. Il tema dei bambini nei conflitti armati mi è sempre stato a cuore, la mia tesi di laurea è stata: “la protezione dell’infanzia nel diritto internazionale”. La mia prima missione come funzionario del Ministero italiano degli Affari Esteri l’ho fatta in Sierra Leone. La prima persona che ho conosciuto a Freetown nel parcheggio del Ministero dell’Energia è stato un bambino sulle stampelle, ridotto così perché si rifiutava di combattere. Ho visto il sorriso spento di quei bambini salvati da padre Berton, l’infanzia rubata che non tornerà mai più. E’ più triste e misera l’indifferenza del mondo su bambini utilizzati per combattere, addirittura per formare una nuova generazione di estremisti folli che gli occhi malinconici di quei bambini.

Utilizzare i bambini, minori di 18 anni come soldati è un crimine di guerra.

Gennaio 3 2016

Pena di morte: chi è senza pena scagli la prima pietra

pena di morte

La pena di morte è una pratica diffusa in tutto il mondo: l’Iran che oggi appare il difensore dei diritti umani, solo nel 2014 ha giustiziato 289 persone tra cui minorenni.

La pena di morte, diffusa in tutto il mondo, continua a mietere vittime. Che sia praticata con la decapitazione, la folgorazione, l’impiccagione, l’iniezione letale o addirittura da un plotone d’esecuzione che spara dietro alla nuca, non smette di togliere la vita a persone per reati anche inesistenti, come la stregoneria in Arabia Saudita.

In molti paesi incluso l’Iran, la Malesia e Singapore, la pena di morte è la sola condanna permessa per alcuni reati di droga. Nel gennaio del 2015, l’Indonesia ha compiuto la prima esecuzione dal 2013, con il nuovo presidente Widodo che ha detto che non ci sarà clemenza per coloro che verranno condannati per crimini di droga. Nel 2015, 14 persone sono state giustiziate da plotoni d’esecuzione, tutti per aver commesso crimini legati alla droga.

pena di morte

Cina

La Cina è, al mondo, il paese che conduce le più atroci esecuzioni, in segreto e per motivi politici. Il sistema di pena di morte in Cina, rimane un segreto di stato. Le autorità cinesi hanno usato la pena di morte per punire i dissidenti della regione dello Xinjang. Nella sua campagna chiamata: “strike hard”, il governo cinese ha giustiziato almeno 21 persone. Di queste, tre condannate alla pena di morte in uno stadio, a morire di fronte a migliaia di persone.

Iran

L’Iran continua a giustiziare i giovani criminali, i trafficanti di droga e gli attivisti dell’opposizione (in segreto). Il governo iraniano ha giustiziato 289 persone nel solo 2014, anche se altre fonti indicano un numero maggiore pari a 743. Nella costante violazione dei diritti umani, l’atrocità non si ferma, perchè in moltissimi casi il governo iraniano si rifiuta di restituire il corpo alla famiglia.
Almeno 14 persone giustiziate in Iran sono al di sotto dei 18 anni nel momento in cui, presumibilmente, hanno commesso il crimine, l’Iran continua ad ignorare le norme di diritto internazionale che vietano l’esecuzione di giovani criminali. Inoltre, le autorità iraniane hanno giustiziato numerosi prigionieri per reati minori, per aver insultato il profeta, ostilità a Dio o per essere membro di un gruppo non armato di opposizione. Molti processi hanno avuto come risultato la sentenza della pena di morte, senza conformarsi agli standard internazionali per un giusto processo.

Arabia Saudita

La monarchia saudita prevede costantemente e senza il minimo scrupolo la pena di morte per: magia, stregoneria, adulterio e attivismo politico. Metà delle esecuzioni nel 2014 sono state per questi crimini ai quali si è aggiunto anche la pena di morte per il rapimento. Le autorità della monarchia saudita utilizzano la pena di morte anche per coloro che protestano contro la monarchia, spesso adducendo come giustificazione la prevenzione del dissenso. Il numero di persone giustiziate per crimini legati alla droga in Arabia Saudita è tra i più alti nel mondo, aumentando dal 4% nel 2010 al 47% nel 2015. Le esecuzioni sono usualmente compiute con la spada: le persone vengono decapitate spesso in pubblico.

Stati Uniti

Negli Stati Uniti, si continua a giustiziare con le iniezioni letali, peraltro senza riguardo per le disabilità; sono numerosi i casi di esecuzioni di prigionieri affetti da disabilità mentale, in violazione del diritto internazionale. La mancanza di droghe per le iniezioni letali, peraltro, ha significato un’esecuzione “raffazzonata”. I rapporti di queste esecuzioni sono a dir poco raccapriccianti, si legge di condannati a morte, che in attesa di morire leggono un libro o che muoiono tra atroci sofferenze.

L’ipocrisia dei governanti sulla pena di morte

Ci auguriamo che la notizia riportata dal Corriere della Sera in cui si dice che la Mogherini ha chiamato il ministro degli esteri iraniano Zarif per dirgli: “non si deve risparmiare alcuno sforzo da parte di tutti per tenere la situazione sotto controllo ed evitare un’escalation delle tensioni settarie“, sia una burla. C’è da scandalizzarsi e allarmarsi per l’uso della pena di morte prima che per l’assalto all’ambasciata saudita a Tehran. Oppure la pena di morte va bene, ma appiccare il fuoco no? L’ipocrisia dei governanti sulla pena di morte è esecrabile: sarebbe stato meglio che l’alto rappresentante per la politica estera europea chiamasse il monarca saudita e gli facesse notare che la pena di morte in un numero di 289 esecuzioni in un anno viola decisamente i diritti umani. Oppure adottare la strategia di molti altri governanti che sull’argomento: “pena di morte” semplicemente tacciono facendo finta che non esista alcun problema a riguardo.

Dicembre 31 2015

I quesiti lasciati in sospeso dal 2015

2015

Il 2015 ci lascia con questioni in sospeso: i giochi delle potenze a spese delle popolazioni già dilaniate da guerre civili. Africa, Medio Oriente, Europa, auguriamoci che il 2016 porti qualche risposta efficace.

I quesiti che il 2015 lascia aperti, sono purtroppo tanti. Alcuni più pressanti.

La Russia trionferà o sarà un epic fail in Siria?

Quest’anno il presidente Putin ha deciso di intervenire in Siria e questo avrà necessariamente un effetto di lungo termine sulla risposta che le grandi potenze daranno nelle prossime crisi. Se Mosca riuscirà ad aggiudicarsi un accordo di pace congeniale ai suoi interessi, i falchi dalla Cina e dagli Stati Uniti diranno che la forza militare è ancora un efficace mezzo nell’arte di governare mettendo una grande ombra sulle lezioni che si dovrebbero apprendere dal fallimento degli Stati Uniti in Iraq.
A Washington gli analisti invece prevedono che la Russia finirà per restare intrappolata in un pantano creato da essa stessa. Se questo sarà il caso allora le maggiori potenze diventeranno riluttanti nell’intervenire nelle nuove guerre.

Le coalizioni arabe sunnite riusciranno ad assumere il ruolo di “stabilizzatori” del Medio Oriente e del Nord Africa, minando ogni intervento esterno?

Uno degli interventi militari più significativi di quest’anno è stato l’incursione guidata dall’Arabia Saudita per cacciare i ribelli Houthi dallo Yemen. Riyadh è riuscita a mettere insieme una coalizione di alleati arabi sunniti, supportati da mercenari ben pagati. Questo intervento non è proprio andato liscio come l’olio, ha finito per rafforzare il potere dell’affiliato locale di Al Qaeda e gli arabi potrebbero rivolgersi alle Nazioni Unite per mandare i peacekeepers nel 2016. Tuttavia se i sauditi e i loro alleati concludono che malgrado i costi l’operazione in Yemen sia valsa la pena, potrebbero lanciare queste “missioni di stabilizzazione” nel Medio Oriente, Nord Africa negli anni a venire, minando i tentativi di incursione esterni nella regione.

L’Unione Europea sarà finalmente pronta per la gestione delle crisi?

L’Unione Europea si è sforzata di diventare una forza militare convincente per due decadi. Un po’ meglio è andata nel 2015, con le opzioni navali per gestire il traffico di migranti nel Mediterraneo. Tuttavia la crisi dei rifugiati, gli attacchi di Parigi, il disordine in Nord Africa gradualmente hanno spaccato l’Unione in cui ogni stato membro ha fatto i propri giochi di potere. Potremmo augurarci che il 2016 sia finalmente l’anno della serietà dell’Unione Europea nelle questioni di sicurezza.

Le potenze africane riusciranno a controllare il loro continente?

L’Unione Africana sta lavorando su piani di intervento per fermare la discesa verso il caos del Burundi. Se avesse successo potrebbe essere un buon passo verso la costruzione di qualcosa di meglio che le improponibili ed inefficaci missioni di stabilizzazione in Somalia ed il dispiegamento confuso nella Repubblica Centrafricana.

Il presidente della Repubblica Democratica del Congo, Kabila, riuscirà ad umiliare le Nazioni Unite?

Kabila sta cercando con grande determinazione e tenacia di aggirare la costituzione per vincere il terzo mandato al comando del più grande paese dell’Africa sub – sahariana, che ha ospitato i peacekeeper per 15 anni. Questo potrebbe rivelarsi un’enorme crisi di reputazione per le Nazioni Unite per aver “costruito” stati funzionanti che alla fine si rivelano dei grandi danni essi stessi. Tuttavia se Kabila decidesse di farsi da parte, sarebbe un segnale di successo per i caschi blu dopo le recenti battute d’arresto in Sud Sudan e Mali.

Riusciranno le grandi potenze ad eleggere come segretario generale delle Nazioni Unite, un vero manager delle crisi?

Nel 2017 ci sarà l’elezione del nuovo segretario generale ONU, in questo anno riusciranno a trovare uno diverso da Ban Ki – moon che ha sempre preferito stare nelle conferenze diplomatiche?

Ci auguriamo che il 2016 porti risposte concrete efficaci. BUON ANNO!

Dicembre 30 2015

L’ISIS ha realmente ambizioni su Israele?

Israele

La diffusione del primo video in ebraico può far pensare che l’ISIS abbia ambizioni su Israele. Rovesciare il governo d’Israele non è una priorità dell’ISIS.

Il 23 ottobre 2015 l’ISIS diffonde il suo primo video in ebraico rivolgendosi agli “ebrei che occupano le terre musulmane”, le frasi più significative sono qui sotto riportate:

Israele

Retorica o strategia?

Nel luglio 2015 l’affiliato egiziano dell’ISIS: Wilayat Sinai, rivendica la responsabilità del lancio di 3 missili esplosi nel sud d’Israele. L’organizzazione jihadista basata a Gaza: Hadid Brigade, capeggiata dallo Sceicco Omar, che potrebbe avere dei legami con l’ISIS, lancia un attacco missilistico nella città portuale d’Israele, Ashod, nel maggio del 2015.
Tornando un po’ indietro nel tempo, nel febbraio del 2008, Abu Omar al – Baghdadi, poi leader del’Islamic State of Iraq (ISI), predecessore di Abu Bakr al – Baghdadi, annuncia la sua intenzione di sovraintendere la liberazione della moschea di Al – Aqsa asserendo: “abbiamo chiesto a Dio e speriamo che l’ISI sarà la prima pietra per il ritorno a Gerusalemme”. Recentemente l’ISIS ha diffuso una serie di video messaggi che incoraggiano i palestinesi ad impegnarsi in attacchi dei così detti “lupi solitari” contro gli ebrei: “riportate l’orrore agli ebrei con esplosioni, incendi e accoltellamenti”. Video che circolavano con l’hastag #the_slaughter_of_Jews (il massacro degli ebrei). Malgrado queste minacce, i carrarmati dell’ISIS non attraverseranno la Terra Santa nell’immediato futuro e neanche tanto presto. Rovesciare il governo israeliano non è una priorità pressante per l’alto comando dell’ISIS. L’organizzazione terroristica transnazionale è più interessata nel conquistare le terre sunnite dove l’autorità statuale è gravemente compromessa. Dabiq, la rivista in inglese dell’ISIS, sintetizza la strategia dell’organizzazione così: “indebolire i governi musulmani attraverso il terrorismo in  modo da creare un vuoto di sicurezza (letteralmente caos o tawahhush). I combattenti dell’ISIS si muoveranno in quei luoghi per stabilire strutture di un nuovo stato (idarat). Fino ad ora l’ISIS si è mantenuta stretta a questo piano: i suoi combattenti sono stati più attivi e vincenti in aeree dove c’è un vuoto di sicurezza.

Israele, che ha una delle più potenti forze militari nel Medio Oriente è sicuramente l’opposto di un “vuoto di sicurezza”.

Anche dal punto di vista teologico, la sconfitta di Israele ha bassa priorità. Pur non essendo usuale per un gruppo sunnita, l’ISIS è motivato da profezie islamiche sulla fine dei tempi. Queste profezie immaginano la conquista di Gerusalemme ed una guerra con gli ebrei come atto finale del melodramma della fine dei tempi. Tuttavia l’ISIS si trova ancora al primo atto di quel melodramma, cioè al ripristino del califfato. Inoltre, deve ancora diffonderlo nel mondo e sconfiggere gli infedeli cristiani. Per cui, malgrado i video ed i messaggi che incitano ad un combattimento aperto con Israele, le minacce dell’ISIS contro Israele sono vuote. Non vuol dire che siano vuote di contenuti o irrilevanti, ma che sono rivolte soltanto al reclutamento di musulmani irati dalle occupazioni di Israele, piuttosto che configurarsi come il segnale di un’invasione.

L’ISIS è focalizzato sul consolidamento del suo stato e la sua espansione nelle terre sunnite. Anche se lo sguardo dell’organizzazione terroristica transnazionale rimarrà fisso su Gerusalemme non cercherà di piantarci la sua bandiera nell’immediato futuro.

Dicembre 28 2015

Nel 2015 il Peacekeeping è stato il Chatkeeping

peacekeeping

Il Peacekeeping si è contraddistinto in quest’ultimo anno come un’occasione per chiacchierare piuttosto che per agire.

Si è parlato molto del dispiegamento di peacekeepers in zone di guerra, ma il risultato è stato paradossale: meno azione. Sembra che in questo 2015 i governi e le organizzazioni internazionali abbiano intrapreso un approccio più cauto nel comporre nuove missioni in ambienti ad alto rischio.

Il difficile equilibrio tra i dispiegamenti all’infinito e l’inazione

In Ucraina, l’OSCE ha mantenuto la sua missione civile di monitoraggio, lanciata nel 2014, anche se fronteggia regolarmente l’ostruzionismo dei secessionisti nell’est del paese. I funzionari dell’OSCE hanno occasionalmente proposto di aggiungere una componente militare alla missione e il governo ucraino ha dichiarato che sarebbe aperto ad una missione di larga scala di peacekeeping delle Nazioni Unite. Sembra del tutto improbabile che la Russia accetti ogni dispiegamento di forze che restringa la sua libertà d’azione nell’est dell’Ucraina nel prossimo futuro.
All’inizio del 2015, l’Unione Africana ha assunto la guida di una Multinational Joint Task force per fronteggiare la minaccia crescente di Boko Haram. Il Consiglio di Sicurezza ha dato a questa nuova formazione la sua benedizione e la Francia ha esercitato parecchia pressione per farla funzionare. Tuttavia l’Unione Africana ha sempre rimandato l’inizio delle operazioni a metà 2015 e non ha ancora raggiunto la sua piena capacità operativa. Il Ciad, un potenziale cruciale contributore, ha negato le sue truppe a seguito di tensioni sulla strategia delle forze in campo.
In Libia, il diplomatico tedesco inviato delle Nazioni Unite, è riuscito a far impegnare i leader delle varie fazioni a formare un governo di unità nazionale. Ora si discurte nel consesso delle Nazioni Unite di dispiegare una piccola forza militare di peacekeeping per proteggere questa nuova amministrazione a Tripoli, in parallelo con azioni più aggressive contro lo stato islamico in Libia. Ma non è ancora certo se questa proposta sarà politicamente fattibile, e c’è il rischio, che una volta sul terreno, le forze di peacekeeping vengano messe sotto pressione per costringere le Nazioni Unite a dispiegare una forza più ampia nella regione.
La forza di stabilizzazione in Afghanistan inizia, dopo tutto, come una piccola presenza stazionata a Kabul per proteggere le autorità post- talebani nel 2001. Alla fine è cresciuta con un personale pari a più di 100.000 unità, intrappolato in una guerra che non potrà mai vincere.
Per la maggior parte dell’anno, si sono susseguite proposte per operazioni di peacekeeping in Siria, che però rimangono interamente ipotetiche. Il Consiglio di Sicurezza ha autorizzato il così detto “tavolo di proposte” di Ban Ki – moon per un “monitoraggio di cessate il fuoco, meccanismo di verifica e rapporto” inteso come un complemento ai colloqui di pace che si terranno all’inizio del 2016. Nessuno vuole ripetere i precedenti sforzi di monitoraggio delle Nazioni Unite in Siria: una missione di caschi blu  che fallì nel fermare l’aumento delle ostilità del 2012.
le violazioni del cessate il fuoco potrebbero essere monitorare dalle parti in guerra o da organizzazioni civili e riportate alle Nazioni Unite” sembra proprio una proposta di disperazione diplomatica. Ci sembra davvero parecchio difficile vedere come il meccanismo di “auto – rapporto” godrebbe di diffusa credibilità dopo 4 anni di guerra.

L’unione Africana ha autorizzato una proposta per una operazione di 5000 soldati per fermare la deriva violenta che sta attraversando il Burundi. Il governo del Burundi ha rigettato la proposta come “forza d’invasione” .

Ognuno di questi processi è fragile e nella migliore ipotesi  stabiliscono  un lungo ed infinito sentiero di risoluzione.
Malgrado i principi post – Rwanda e post – Srebenica di prevenzione del genocidio o di atrocità di massa con o senza il permesso dello stato, le Nazioni Unite sono ancora basate sul sistema di sovranità dello stato. Il risultato è che è virtualmente impossibile per le Nazioni Unite impegnarsi massivamente senza il permesso dello stato ospitante. La Siria, fino ad ora è stata ricettiva solo di una modesta missione di osservatori delle Nazioni Unite e di aiuto umanitario. Yemen e Libia erano più aperte ad un ruolo Nazioni Unite sperando per una operazione di peacekeeping di lungo termine che potesse aiutare a guidare la ricostruzione economica come la riconciliazione politica.

L’apertura alle forze di peacekeeping non è necessariamente risolutiva del conflitto.

Ci si chiede spesso perché il peacekeeping non riesca ad ottenere risultati sperati, perché in alcuni paesi le forze di peacekeeping sono rimaste impantanate senza vedere via d’uscita. Molto semplice: le organizzazioni regionali, le grandi potenze hanno un’enorme influenza nel creare le condizioni affinchè la missione di peacekeeping sia produttiva. Se potenze regionali  sentono che in qualche modo la missione mini i loro interessi, possono facilmente boicottarla, come è il caso dello Yemen e della Libia. L’Arabia Saudita considera la stabilità dello Yemen come un interesse vitale di sicurezza nazionale. Il diretto interesse e coinvolgimento degli stati regionali complica il compito delle Nazioni Unite. Non è un segreto che gli inviati delle Nazioni Unite ricevano pressioni dalle potenze regionali che vogliono proteggere i loro clienti o un particolare risultato. La conseguenza è che potrebbero quindi arroccarsi in posizioni che influenzano l’approccio che le Nazioni Unite dovrebbero intraprendere e lo scopo della missione di peacekeeping. Possono benissimo utilizzare alcune tecniche politiche che conferiscono legittimità ai ribelli piuttosto che ricreare un governo rimosso, oppure strutturare i colloqui di pace attorno ad un’artificiale simmetria di potere tra le forze contendenti.
Le grandi potenze possono anche bloccare i progressi degli sforzi di mediazione NU. Siria è l’esempio più lampante.

Vietare l’uso dell’ipocrisia quando si parla di peacekeeping

Per il nuovo anno auguriamo al Consiglio di Sicurezza di farsi un esame di coscienza. Il 31 dicembre 2015 speriamo che buttino dalla finestra le chiacchiere infinite su le missioni di peacekeeping e si dirigano senza esitazione su due vie: la riforma del Consiglio di Sicurezza e il dispiegamento delle forze di peacekeeping con un mandato preciso e attagliato al contesto, senza ricadere nell’errore di rinnovare ogni anno la missione che era nata per uno scopo e dopo 10 anni evidentemente non è neanche più lo stesso. E’ facile dire che il peacekeeping è inutile, le Nazioni Unite sono inutili, quello che è veramente inutile ed essere sempre uguali a se stessi, se il sistema è nato dopo la seconda guerra mondiale, beh è obsoleto, non si può pensare che il mondo sia lo stesso e non si può neanche pensare di combattere il terrorismo sapendo che proprio nel Consiglio di Sicurezza sia gli Stati Uniti che la Russia si oppongono ad una definizione di terrorismo univoca che acquisti rilevanza giuridica perchè temono che poi nella definizione ricadano i gruppi che proteggono ed armano.

Dicembre 23 2015

L’Egitto di oggi è poi così cambiato?

Egitto oggi è cambiato?

L’Egitto del dicembre 2015 assomiglia molto all’Egitto degli ultimi mesi del 2010 e alla fine del dominio di Mubarak, durato tre decadi.

L’ Egitto di oggi assomiglia molto all’Egitto del tardo 2010 e ai mesi finali del dominio di Hosni Mubarak durate tre decadi. Il presidente militare non era affatto un sofisticato politico ed oggi come allora ci sono le lotte per il potere economico e politico tra i militari e gli uomini d’affari, abusi dei diritti umani, sofferenza economica,  gruppi jihadisti nel Sinai.  Significativo è il fatto che oggi queste situazioni appaiono più pronunciate.

La familiare “manipolazione esecutiva” della legislatura

I membri e la missione dell’eletta House of Representative con 598 seggi ci svela diverse somiglianze con il parlamento scelto qualche mese prima delle rivolte del gennaio 2011. La composizione del nuovo parlamento non rappresenta tutti gli egiziani, pochi dei quali si sono recati alle urne per il voto, che sia stato per scelta o per varie forme di esclusione, tutto ciò riflette lo stato della politica formale. Le forze di sicurezza e i militari sono invischiati nella politica più che mai. Sono ricomparsi sulla scena uomini d’affari molto ricchi e rampolli di vecchie famiglie.

I generali in pensione sia dell’esercito che della polizia hanno conquistato circa il 13% dei seggi in parlamento. Gli uomini d’affari hanno preso il 25% dei seggi, nel 2010  si attestavano ad un massimo del 20% , nel 2012 al 15%.
I Fratelli Musulmani, che nel 2012 hanno vinto circa la metà dei seggi in parlamento, sono stati esclusi. Il Salafi Nour Party, l’unico partito islamista che partecipava alle elezioni di quest’anno, ha vinto solo 12 seggi, il 2%, in netto calo rispetto al 2012 quando si attestava attorno al 25%. Molti dei partiti orientati verso i giovani che zampillarono nel 2011 si sono sciolti o sono stati marginalizzati; un nuovo partito, Future of the Homeland, che ha vinto sorprendentemente 50 seggi, guidato da un 24enne sostenitore del presidente Abdel Fattah al Sisi, sinistramente rievoca il Future Generation Foundation capeggiato dal rampollo dell’ex presidente Mubarak.
Il nuovo parlamento egiziano è stato chiamato a fornire il suo imprimatur alle azioni del tutto non democratiche iniziate dalla presidenza, come lo furono i parlamentari dell’era Mubarak, anche se le nuove azioni sono molto più estreme. Il primo compito dell’House of Representative è stato di approvare 260 leggi passate con decreti dal colpo di stato del 2013 che portò al potere al Sisi. La costituzione adottata nel 2014 sancisce che la validazione deve avere luogo nell’arco di 15 giorni da quando il parlamento si riunisce, non lasciando alcuno spazio per la revisione ed il riesame dei decreti. Per gli egiziani, questa sorta di “manipolazione esecutiva” della legislatura è un’altra condizione del tutto familiare.

Al di là dei trucchetti politici, l’inflazione che fa salire il prezzo dei beni di prima necessità, le proteste dei lavoratori per i salari bassi, ricordano molto la fine del 2010.

Lo sdegno pubblico per le morti causate dalla brutalità della polizia è un’altra triste somiglianza con quegli ultimi mesi del 2010. Diversamente dal 2010, tuttavia, non c’è un movimento giovanile dinamico che guida un più ampio ed articolato movimento di protesta: gli ex leader o sono in prigione o in esilio.

Invece quello che l’Egitto ha nel 2015 é una crescente ribellione, violenta e sfaccettata, composta e sopportata da islamisti e altre figure alienate dalla limitata politica formale mostrata nel nuovo parlamento, che minaccia di trascinare il paese in acque inesplorate.

Gli amici ritrovati

L’Egitto e l’Arabia Saudita verosimilmente, sono i due stati più influenti del mondo arabo e continuano ad esprimere la loro determinazione per rafforzare un’alleanza che è cresciuta sotto il presidente egiziano Abdel – Fattah al Sisi. Nel tardo luglio di quest’anno, Al Sisi, il ministro della difesa saudita e il vice erede al trono Mohamed bin Salman hanno firmato un accordo chiamato Cairo Declarationun progetto strategico per accrescere la cooperazione bilaterale in diverse aree, specialmente nell’ambito della difesa e dell’economia.

E’ dal 2013 che l’Arabia Saudita e altri stati del Golfo Arabo hanno aiutato il regime di al Sisi con miliardi in aiuti economici. L’Egitto, in cambio, è stato un partner della guerra guidata della monarchia saudita, contro i ribelli Houthi in Yemen e proprio la scorsa settimana hanno inviato 800 truppe di terra in quel paese.
L’obiettivo centrale della dichiarazione del Cairo, di creare una forza militare araba congiunta, semplicemente reitera una decisione presa durante il summit della Lega Araba in Egitto lo scorso marzo. Bizzarra una parte della Dichiarazione in cui si chiama ad una maggiore cooperazione economica facendo finta che l’Arabia Saudita non sia già la maggiore fonte di investimento arabo: 10 miliardi di dollari nel 2014. L’unico elemento nuovo di questa dichiarazione è la promessa di demarcare le frontiere marittime tra l’Egitto e l’Arabia Saudita, questo permetterebbe ai due governi di risolvere una disputa di sovranità su le isole di Tiran e Sanafir nel Mar Rosso, amministrate dall’Egitto ma rivendicate dai sauditi. Cosa che però non ha mai veramente minacciato i legami bilaterali tra i paesi.
La cooperazione tra l’Egitto e l’Arabia Saudita potrebbe permettere agli Stati Uniti di diminuire i suoi sforzi e allontanarsi da interventi nel Medio Oriente costosi, di larga scala, pericolosi e lavorare in maniera più diretta attraverso i suoi alleati.
Diplomaticamente il dialogo strategico tra gli Stati Uniti e l’Egitto, che è stato congelato dal 2009 a causa della violazione sistematica dei diritti umani e dei disordini politici in Egitto, sono ripresi quest’estate. Washington ha l’opportunità di ingaggiare l’alleanza egiziana – saudita strategicamente per massimizzare il coordinamento di alto livello politico e diplomatico tra i tre governi.
Un più grande coinvolgimento americano servirà anche per controbilanciare alcune sensibilità geopolitiche che circondano una più grande integrazione economica nella regione del Mar Rosso. Ad esempio Washington potrebbe esplorare vie per sostenere la costruzione del progetto di rete elettrica saudita – egiziana che permetterebbe ai due paesi di generare e condividere 3000 megawatt addizionali di elettricità durante le ore di punta attraverso un cavo di 12 miglia sotto il golfo di Aqaba.
Vale la pena di chiedersi se Washington possa capitalizzare l’attuale amicizia tra il Cairo e Riyadh e allineare le aperture egiziane e saudite con interessi regionali americani di lungo termine, cosa che potrebbe non essere nelle mani di Obama, ma in quelle del suo successore.