Aprile 20 2023

Sudan, quo vadis?

Sudan

Come siamo arrivati ad oggi?

2019: Transizione. Che vuol dire? Ricostruire un intero sistema politico e sradicare l’eredità di al-Bashir.

Con la dissoluzione del Partito del Congresso nazionale la necessità era quella di creare un nuovo partito e di elaborare un nuovo sistema elettorale.

Il conflitto si è intensificato dopo mesi di tensione tra il Consiglio al potere, dominato dall’influenza dell’esercito sudanese del Generale Abdel Fattah al-Burhan ed il generale Mohammad Hamdan Dagalo (aka Hemedti) il vice comandante del Consiglio e comandante del Rapid Support Forces (RSF), una organizzazione paramilitare composta principalmente dalle milizie Janjaweed che hanno combattuto in vece di Khartoum durante la guerra in Darfur.

Né la leadership militare né l’opposizione hanno una chiaro programma per affrontare la grave crisi economica, pur tuttavia ritornare ad un governo civile potrebbe attrarre nuovi ingenti aiuti.

Ibril Ibrahim, ex leader ribelle ed odierno ministro delle finanze, ha pianificato di compensare il deficit finanziario attraverso la tassazioni e i profitti derivanti dall’oro. La Banca Centrale del Sudan indica dei progressi in relazione all’aumento delle esportazioni d’oro, ma è troppo presto per capire se ciò bilancerà la perdita di introiti dei donatori internazionali. Dopo il coup del 2021, gli Stati Uniti, la Banca Mondiale, la Germania e altri alleati americani hanno congelato i pacchetti di aiuto a Khartoum. Il rilascio di fondi é condizionato al ripristino del governo civile. Realizzare l’accordo quadro sbloccherebbe molti aiuti necessari per far fronte al rapido aumento dei prezzi del cibo, alla caduta della moneta sudaneseed anche alla scarsità di elettricità.

L’esercito sudanese guidato da al-Burhan che ha condotto il coup militare nel 2021 ha fermato la transizione democratica.


Anche se Dagalo e le RSF prevalessero nel conflitto, è probabile che si apra un lungo periodo di instabilità che posticiperà la transizione pianificata.

Tale accadimento avrà presumibilmente la conseguenza di proteste di massa tra la popolazione a cui è stata promessa la democrazia dalla caduta di Bashir nel 2019.
I leader militari che hanno deposto Bashir nel 2019 dapprima hanno condiviso il potere con i leader civili, poi sia al-Burhan che Dagalo al tempo uniti, riprendono il potere attraverso un altro coup militare nell’ottobre del 2021 e cancellano il trasferimento di potere promesso. Le proteste pubbliche hanno come risultato una negoziazione verso un accordo che prevede che i militari si ritirino dalla politica e banditi da affari non – militari. L’accordo quadro firmato nel dicembre del 2022, include una revisione dell’apparato di sicurezza che alla fine conduca ad un esercito nazionale professionale unito e la nomina di un Primo Ministro che formerebbe un governo per condurre il Paese alle elezioni in un termine di due anni. L’11 aprile 2023 era la data prevista per l’avvio del piano di transizione democratica, quarto anniversario della caduta di Bashir. Al-Burhan ha esitato nella realizzazione del piano, tensioni, e minacce tra lui e Dagalo si sono intensificate fino allo scoppio della violenza del 15 aprile.

La situazione del Sudan inserita nel quadro Regionale ed Internazionale

La violenta lotta di potere è manovrata dai vicini del Sudan, dall’Occidente e dalla Russia.

Il principale vicino del Sudan, l’Egitto vede al-Burhan come una forza stabile ed il Cairo lo sostiene militarmente. La Libia attraverso Haftar – che sappiamo essere sostenuto dagli Emirati Arabi Uniti e dalla Russia – ha già inviato munizioni al Gen. Dagalo.
Mosca si pone come obiettiv: l’accesso ai porti del mar rosso dal Sudan per le sue navi da guerra e le miniere d’oro. Il Wagner è a capo delle attività russe in Sudan offrendo addestramento ed armi al RSF. Dalgado e il suo RSF controllano la maggior parte delle miniere d’oro.
Gli Emirati Arabi Uniti hanno dichiarato un valore pari a 1.77 miliardi di dollari di importazioni di oro dal Sudan nel 2020 e tanto quanto il 90% dell’oro del Sudan è trafficato illegalmente fuori dal Paese e spesso convogliato attraverso gli Emirati.
Il leader del Wagner Evgeny Progozhin è proprietario di un’entità (oggetto di sanzioni degli Stati Uniti) M Invest e la sua società sussidiara Meroe Gold opera in Sudan.
Abu Dhabi ha mantenuto delle strette relazioni con Dagalo il quale può contare anche su legami con elementi al di fuori del Paese, incluse le unità del Wagner presenti nella Repubblica Democratica del Congo, dove la PMC russa cerca accesso alle risorse naturali.
Fin dallo scorso anno sono stati compiuti tentativi di mediazione di un nuovo accordo tra i militari e le Forces of Freedom and change – FFC – , il gruppo di opposizione civile creato durante le proteste del 2018-2019.
L’iniziativa principale guidata dalla missione UN a Khartoum, UNITMAS di dialogo indiretto tra FFC e i militari sudanesi ha avuto scarso successo. Prima del coup del dicembre del 2021, si verifica inoltre, una divisione interna al FFC, disaccordo che si amplia quando i gruppi ribelli sostengono la presa al potere da parte dei militari.

Sicurezza transfrontaliera

I conflitti transfrontalieri hanno ripreso il loro ciclo di violenza con scontri tra le milizie etiopi Amhara e le forze sudanesi lungo la frontiere ad est del Paese, che è diventata più sicurizzata dalla guerra nel Tigray.

Quindi?

I leader politici che arrivano al potere attraverso coup militare con maggiore probabilità usciranno di scena attraverso coup. Fondere le RSF con l’esercito sudanese ridurrebbe questo tipo di rischio da coup.

Non vi sono vincitori. Né al-Burhan nè Degalo posso sopravvivere politicamente da sé stessi.

Aprile 17 2023

Le guerre proxy: il Wagner

Wagner

I private military security contractors (PMCs) russi sono giocatori cruciali nelle attuali guerre proxy nel Medio Oriente, nella sua periferia e nel continente africano. Forniscono informazioni precise su obiettivi, addestramento, sostegno logistico, protezione di infrastrutture e una rete di protezione per le milizie proxy ed i gruppi paramilitari in Ucraina, Siria, Libia, Sahel, Mozambico, Repubblica Centrafricana.

Le loro operazioni segrete – reali o immaginate – sono anche cruciali nel plasmare la strategia russa di gestione dell’intensificazione, così come le relazioni con avversari ed alleati.

Mosca nega qualsiasi collegamento al Wagner Group e resta aperta la domanda sul grado di controllo che il Cremlino esercita su di esso. Sono semplicemente dei volontari patrioti, come rivendica il Cremlino? Sono mercenari, guerrieri aziendali, soldati in prima linea?

Le relazioni del Wagner con i proxies locali sono una forza moltiplicatrice che permette al Cremlino di estendere la sua influenza al di là del territorio russo.

Molti confondono le operazioni dei PMCs russi con una nuova formula di guerra ibrida, ma nei fatti loro rappresentano più continuità che novità con gli sforzi dell’era sovietica di nascondere l’assistenza militare a insorti paramilitari che operano ben oltre le linee avversarie.

Le PMCs sono, in teoria, un modo attrattivo di abbassare i costi di intervento, mentre si estende la portata russa.

La Russia accorda alta qualità al controllo della narrativa. La narrativa del Wagner Group di “guerrieri fantasma” su vasti campi di battaglia, oscura gli obiettivi operativi, le tattiche, la diversità degli agenti a lavoro.

Separare il mito dalla realtà sui PMCs russi è cruciale per comprendere le strategie proxy russe.

PUNTI CHIAVE

  1. I PMCs russi sono ideati, progettati per l’inganno strategico (strategic deception).

Scappatoie legali permettono ai PMC russi di adottare espedienti per evitare i divieti nazionali ed internazionali contro l’attività mercenaria:

Ai cittadini individuali è vietato dalle leggi russe l’attività mercenaria, ma leggi promulgate dall’amministrazione Putin facilitano le imprese statali a formare degli eserciti privati con un ampio spazio operativo di manovra .

Diversi PMC russi operano come team congiunti con l’esercito russo secondo accordi contrattuali speciali tra ministeri del governo e imprese statali strategiche.

Le norme internazionali ed i protocolli sulla condotta dei PMSC (Private Military Security Companies) hanno fallito di affrontare i vuoti giuridici che permettono alla Russia una eccessiva ed ampia interpretazione dei principi di difesa collettiva.

2. Le PMC russe sono prodotti della privatizzazione post sovietica del compromesso militare – industriale russo e del riconsolidamento dello stato di sicurezza nell’era Putin. Le loro strutture riflettono la cultura e la gerarchia dei servizi di sicurezza russi, ma sono stati anche plasmati dalle fasi disgiunte della modernizzazione militare.

Le imprese statali hanno reclutato primariamente i loro eserciti privati da un surplus di presenza di veterani delle forze speciali resi ridondanti dalla riduzione dell’esercito post-sovietico.

Molti gruppi PMC sono unità ricostruite formate dai servizi di sicurezza come FSB (Federal Security Service), GRU (Main Intelligene Directorate), VDV – airborne troops, forze di intervento molto equipaggiate addestrate con operazioni speciali che conducono operazione militari full-scale.

Essi hanno importato in toto le strutture organizzative e la cultura operativa di queste istituzioni.

Le imprese statati strategiche costituiscono una parte sostanziale della clientela dei PMC russi, rendendole integranti ed essenziali alle reti informali che plasmano le politiche domestiche e la politica estera di Putin.

3. La Russia utilizza le PMSC per perseguire fini strategici che dimostrano la continuità con le azioni strategiche del Cremlino. I cardini della Dottrina Primakov di multipolarità e proiezione di potenza nel fianco sud della Russia restano un quadro chiave della strategia russa. La guerra proxy è un mezzo per questi fini.

Molte delle stesse imprese che sono servite come principale strumento del Cremlino per influenzare i proxies, gli alleati, nell’era sovietica, servono ancora oggi come la base delle operazioni delle PMSC russe.

Le PMSC rafforzano gli interessi di sicurezza nazionali russi in aree del mondo dove non può permettersi che l’instabilità politica abbia degli effetti negativi sull’energia, sull’esportazione di armi.

IL PUZZLE DELLA STRATEGIA RUSSA DI GUERRA PROXY

Nei conflitti contemporanei, i conflitti proxy devono essere compresi in termini di relazioni incastonate all’interno di complesse reti di potere ed influenza.

Il VEGA , un altro distaccamento con legami con Wagner, è attivo in Siria dal 2013 nella protezione di progetti energetici, industria estrattiva e addestramento di forze locali.

Il Cremlino ha creato un regime di licenza quasi legale che permette alle PMSC con contratto di assicurare un passaggio sicuro per le maggiori imprese statali come Rosoboronexport.

Libia – Arab Spring 2011, le PMSC russe si riversano nella Regione per mettere al sicuro gli assetti russi, fornire protezione ai personaggi di spicco ed assicurare il trasferimento di armi. L’instabilità nella Regione presenta anche un’opportunità per le industrie russe, in particolare la Rosoboronexport, il braccio di esportazione della Rostec. Quando gli Stati Uniti congelano fuori dai mercati globali la Siria e la Libia e temporaneamente chiudono il rubinetto degli aiuti militari all’Egitto, creano uno spazio per l’aumento dell’influenza russa. La pressione per domare l’instabilità in tutti e tre i Paesi conduce ad un’alta richiesta di armi e li spinge più vicini alla sfera di influenza del Cremlino.

L’intersecazione del collegamento tra individui affiliati con vari contingenti delle varie PMSC russe, milizie separatiste, associazioni militari russe, organizzazioni di veterani, comunità online e offline di auto-proclamati mercenari rafforzano la nozione che il Cremlino segretamente attiva, sostiene ed incoraggia la loro attività. È necessaria una sostanziale quantità di prove da fonti primarie, testimoni per formulare il caso che il Cremlino mantiene il controllo effettivo su questi PMSC nel classico top down sense ed è proprio questo il punto della strategia.

Dal momento che l’obiettivo fondamentale della guerra proxy è di accrescere l’abilità di proiettare potere espandendo influenza, mentre riduce il rischio di rappresaglia, la strategia dipende dalla sua tattica di aumentare l’ambiguità attorno alla natura della relazione sponsor-proxy.

Un’accresciuta ambiguità può garantire agli sponsor proxy, anche se alle volte di breve durata, vantaggi che permettono alla tattica “salami slicing” di non essere notata dai rivali (coniata dal leader ungherese Rakosi come modo per descrivere di dividere e isolare i partiti di opposizione negli anni 1940) “nascondendo il reale” e “mostrando il falso”.

Nel caso del Wagner, il Cremlino ottiene tre distinti, ma importanti, vantaggi tattici.

  1. La distrazione attorno agli schemi strategici di dispiegamento di migliaia di russi operativi manifesta la sorpresa di forza moltiplicatrice;
  2. La mobilitazione a sorpresa dei PMSC in Crimea ha guadagnato tempo per dispiegamenti segreti nel Donbass ed in Siria, accelerando il controllo territoriale e aumentando i vantaggi militari russi;
  3. Almeno inizialmente, la sorpresa e la velocità sia in Ucraina che in Siria ha alimentato la narrativa che la Russia era preparata a cambiare i fatti sul terreno, concedendogli più spazio di manovra a livello diplomatico nelle prime fasi di entrambi i conflitti;

Il controllo dell’informazione è una caratteristica intrinseca della gestione dell’intensificazione e seminare confusione è parte del lotto delle strategie proxy. Le narrative che gli sponsor promuovono sui loro proxies sono importanti nella proiezione di potenza tanto quanto lo sono per la gestione dell’intensificazione.

Il Wagner e l’Africa

Il Wagner nel mondo

Le forze del Wagner soffrono di significative perdite nei combattimenti in Ucraina, Prigozhin, il capo del Wagner ha dunque abbassato gli standard di reclutamento a tal punto che accoglie nei suoi ranghi personaggi che provengono direttamente dalle prigioni russe.

Le relazioni transnazionali del gruppo con i governi del Sahel delegittimano ulteriormente questi regimi agli occhi della popolazione. Nel corso degli scorsi anni in cui vi sono stati coup militari in Mali, Burkina Faso e Chad, i governi legittimi mantengono il monopolio dell’uso della violenza, applicano e fanno rispettare le regole di legge, forniscono servizi di base ai loro cittadini. I Paesi dove il Wagner Group opera non mostrano nessuna di queste caratteristiche; tale situazione incoraggia gli estremisti religiosi violenti – i gruppi jihadisti, a cercare di soppiantare il governo e ad operare in parallelo. L’assistenza del Wagner arriva senza alcuna condizione, cosi i dittatori africani non hanno bisogno di preoccuparsi di lezioni magistrali sui diritti umani, delle iniziative di anti-corruzione e della good governance.

I diplomatici russi hanno interferito e si sono immischiati nelle politiche dei Paesi dove il Wagner è impiegato. Nella Repubblica Centrafricana, i funzionari governativi russi hanno insistito che il Presidente Faustin – Archange Touadéra abolisse le restrizioni costituzionali sul limite del termine presidenziale. Le campagne di disinformazione sostenute dal Wagner e le operazioni di influenza nell’Africa sub-sahariana alimentano un sentimento anti-occidentale tra le popolazioni locali, distorcendo ulteriormente dinamiche politiche già complesse. Gli operativi del Wagner hanno consigliato i dittatori su come gestire ed utilizzare le campagne sui social media per polverizzare i movimenti democratici.

Dal momento che i mercenari del Wagner forniscono solo cooperazione di sicurezza lungo linee cinetiche, respingendo le buone pratiche dell’addestramento di counter – insurgency, come il rafforzamento delle regole di legge, la promozione della good governance e la creazione di un potere giudiziario indipendente – ogni guadagno di sicurezza percepito sarà effimero.

La presenza del Wagner Group ha dato nuova energia ai gruppi jihadisti che hanno preso il controllo di significative porzioni di territorio in tutta la Regione. Ciò ha concesso agli affiliati di Al Qaeda e dello Stato Islamico un più grande spazio di manovra.

La situazione è stata esacerbata dalla rotazione occidentale dal contro terrorismo alla competizione di grandi potenze così come la diminuzione e la ricollocazione delle truppe americane e francesi nella Regione, lasciando un vuoto di potere che il Wagner è entusiasta di riempire.

Il risultato di più attività del Wagner è la tracimazione della violenza in Paesi che non ne erano colpiti incluso il Togo, Benin, Senegal, la Costa d’Avorio. I livelli di violenza accelereranno il movimento di persone tra Paesi che alimenterà discordie nella Regione: insieme di gruppi etnici e religiosi differenti.

Quindi?

I grandi mercenari del diciasettesimo secolo restavano fedeli all’ordine sociale stabilito in cui erano nati, anche se utilizzavano il loro potere militare per estrarne immensi profitti.

Malgrado la loro reputazione di corsari, i mercenari sono profondamente investiti nella sopravvivenza dello status quo della società che fornisce loro un flusso di guadagno sicuro.

L’eccessiva dipendenza dai mercenari può causare una severa distruzione della gerarchia di potere all’interno di uno Stato, anche quando gli imprenditori militari sono profondamente impegnati nella difesa dell’ordine sociale che li mina. Più uno Stato lotta per trovare reclute ed equipaggiamento adeguato per le sue istituzioni formali di sicurezza, più esso dipende dai mercenari per assicurare i suoi interessi, ciò ingigantisce l’influenza degli imprenditori militari all’interno dell’elite al potere a spese dei funzionari ufficiali. Frequentemente tali dinamiche possono anche contrassegnare uno spostamento dell’influenza da una parte dell’esercito regolare all’altra, dal momento che le reti di ufficiali con stretti legami con i PMC intrecciano la loro ascesa al punto più alto del sistema con la volontà dei mercenari di fornire sostegno sul campo di battaglia.

Tale spostamento dell’equilibrio del potere all’interno di una élite militare al potere ha spesso condotto all’instabilità e persino alla violenza tra fazioni rivali.

Diventare troppo dipendenti da un leader mercenario con il suo proprio, semi-autonomo, flusso di guadagno può condurre ad una perdita di controllo sugli eventi sul terreno.

Ferdinando II l’ha scoperto nella modo più aspro dopo aver promosso Albrecht von Wallenstein (uno dei più aspri rivali di Tilly) nel 1623. Nel punto più alto del suo potere, Wallenstein esercitava un controllo più diretto sulle strutture militari che difendevano l’Impero rispetto al suo imperatore. Tre secoli più tardi, i funzionari del governo francese compiono lo stesso errore negli anni 1970, quando arruolano mercenari come Bob Denard per organizzare i loro interventi in Africa. Denard persegue le sue proprie ambizioni nelle Comore e in altri luoghi così implacabilmente che alla fine causa più guai di quello che valeva per i suoi sostenitori a Parigi.

Le leadership statali hanno eliminato o comprato gli imprenditori militari le cui ambizioni minacciavano di destabilizzare l’élite al potere. Wallenstein termina la sua scalata al potere con il suo assassinio da parte degli agenti di Ferdinando II nel 1964; Denard trascinato fuori dalle Comore e gettato in prigione a Parigi nel 1995 dagli stessi servizi di sicurezza francesi che lo avevano finanziato per tanto tempo. Nondimeno, tali sforzi implicano dei costi sostanziali al sistema statale o in termini di violenza necessaria per schiacciare una minaccia potente o vaste somme di denaro per pagare attori armati ad abbandonare la scena.

Nello scenario più probabile in cui lo Stato russo alla fine controlli il Wagner, lo sforzo di assoggettare gli imprenditori militari sarà una sfida spaventosa per le istituzioni statali russe che già affrontano enormi problemi economici e politici.

Un fallimento in Ucraina potrebbe anche discreditare seriamente l’apparato militare russo e indebolire la capacità di Putin o dei suoi successori di contenere i mercenari che ha pagato ed equipaggiato – e se ciò accadesse, l’odierna, parziale, privatizzazione delle operazioni militari potrebbe finire per essere uno dei diversi fattori di disfacimento della coesione dello Stato russo stesso.

Qualche che sia lo scenario, è alta la probabilità che i mercenari del Wagner, sia che sognino che il loro status sia innalzato in onore del loro sfruttamento, sia che vengano assassinati dal loro proprio governante come è stato per Wallenstein o come Tilly, restino isolati in qualche campo di battaglia, lontano da casa, ad un passo dai loro avversari.

Gennaio 2 2023

Iran, potere e Medio Oriente

Groviglio Iran Arabia Saudita Medio oriente


Le tensioni in Medio Oriente sono all’improvviso aumentate quando Riyadh si è allineata con Mosca per mantenere alto il prezzo globale del petrolio, malgrado la pressione da parte di Washington di aumentare la produzione.
Con il recente fallimento del cessate-il-fuoco, la guerra civile in Yemen continua ad alimentare una delle peggiori crisi umanitarie del mondo. La guerra civile che si protrae da 11 anni in Siria è entrata in una fase finale senza fine, che sebbene sia meno sanguinosa, rimane volatile.
La Libia ha visto una pausa nella sua guerra civile da quando è stato reso esecutivo il cessate-il-fuoco nell’ottobre del 2020 ed è stato nominato un governo transitorio nel marzo del 2021, ma la transizione politica verso le elezioni è in un impasse sempre più teso.
Soprattutto, l’assenza del combattimento in questi Paesi non garantisce che ci sia una pace duratura.
Nel frattempo, il più recente ciclo di combattimenti tra Israele ed Hamas nel maggio del 2021 è servito come promemoria che il conflitto tra Israele e Palestina non può semplicemente sparire per magia con l’aiuto delle potenze regionali e degli Stati Uniti.

Politica interna ed estera del Medio Oriente


La situazione politica nel Medio Oriente è in mutazione continua. Le proteste di massa nel 2019 hanno deposto un governante di lungo termine in Algeria e innervosito i governi del Libano e dell’Iraq, facendo balenare speculazioni su una nuova Primavera Araba, prima che la pandemia di COVID ponesse un arresto a questi movimenti popolari. La pandemia ha inizialmente condotto anche al declino dei prezzi energetici globali che ha minato ulteriormente la sostenibilità di molti modelli di guadagni basati sul petrolio di Stati del Golfo, sebbene la guerra in Ucraina ha causato l’innalzamento dei prezzi. Le potenze regionali stanno traendo vantaggio dalla competizione delle grandi potenze per diversificare il loro portfolio di alleanze internazionali.

Iran: La resistenza del regime al cambiamento

Il primo anno di presidenza Raisi ha visto importanti proteste da parte degli agricoltori, insegnanti. Per anni hanno chiesto al governo di affrontare i loro problemi legati alla distribuzione ineguale dell’acqua, salari bassi o non retribuzione. Le autorità hanno resistito fino a quando le proteste non hanno assunto la forma di manifestazioni di piazza. Solo dopo il governo ha parzialmente soddisfatto le loro richieste mentre disperdeva violentemente i dimostranti.
Questo approccio è la risposta automatica della classe dirigente iraniana al potere alle pressioni sia locali che estere. Essa deriva dalla mentalità per cui allentare la pressione è considerato come un segno di debolezza. Per ciò che riguarda la politica estera, i funzionari iraniani considerano le politiche americane come un rafforzamento di questa visione del mondo.
Teheran desidera rientrare nell’accordo sul nucleare in una posizione più forte, con Khamenei che asserisce che affrettarsi nell’accordo avrebbe un costo alto per il Paese. La sua principale preoccupazione non è solo legata ad un possibile abbandono degli Stati Uniti, ma di una richiesta di più concessioni su altre questioni se percepissero disperazione e debolezza da parte dell’Iran.
Quindi il modus operandi di Khamenei è di rispondere alla pressione estera diventando inflessibile e attraverso la rappresaglia. Sulla questione nucleare, l’Iran ha risposto alla pressione delle sanzioni americane per conto proprio: ampliando continuamente il suo programma nucleare, diminuendo il disarmo nucleare, ed accrescendo le sue operazioni militari segrete in tutta la Regione.
Dal punto di vista interno, la mentalità della leadership iraniana è quella che concedere alle richieste pubbliche è un’inclinazione dannosa. Il loro timore è che ciò condurrebbe a richieste maggiori e fondamentalmente alla loro caduta. Come tale quindi, la Repubblica islamica ha resistito ad importanti riforme e ha compiuto solo parziali concessioni su richieste specifiche quando le proteste li hanno forzati a farlo. Su questioni come l’obbligatorietà della legge hijab, che è al cuore dell’identità della Repubblica islamica e il suo marchio dell’islamismo, sarà difficile per il regime raggiungere un compromesso, anche di fronte alle odierne proteste.
In ogni caso, potrebbe essere troppo tardi per placare il livello di rabbia pubblica in tutto il Paese. Le proteste che coinvolgono il Paese oggi mostrano che lo stile di governance intransigente e paranoide della Repubblica islamica diventa una profezia autoavverante, dal momento che la rabbia pubblica accresce nel corso del tempo ed esplode nel malcontento. Sembra che la classe dirigente clericale dell’Iran, non abbia imparato le lezioni della caduta dello Shah.

Israele

Il primo ministro Benjamin Netanyahu ritorna al potere. Un governo che include il partito ultra nazionalista – Religious Zionism – guidato da Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, entrambi ampiamente considerati essere degli estremisti di destra.
In ragione dei suoi 14 seggi, il partito Religious Zionism è la terza delegazione più grande nel parlamento israeliano. Ben-Gvir è noto per la sua retorica anti-araba, arrestato nel 2007 per incitamento al razzismo e per sostegno a organizzazioni terroriste. Smotrich è noto anche per le sue visioni anti-arabe, avendo espresso rammarico verso il primo ministro israeliano David Ben Gurion, per “non aver finito il lavoro” di espellere tutti gli arabi dal territorio che è diventato Israele.


Il nuovo governo di Netanyahu che include Ben-Gvir e Smotrich potrebbe causare problemi per le relazioni bilaterali tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti.


Legami diplomatici formali tra i due Paesi sono stati creati due anni fa dagli Accordi di Abramo.
Gli Emirati Arabi uniti non sono il solo partner di Israele che ha reagito all’alleanza di Netanyahu con Religious Zionism. Alcuni democratici a Washington hanno espresso preoccupazioni a proposito di Smotrich e Ben-Gvir, incluso il senatore Menendez che è noto per la sua posizione pro-Israele. Menendez aveva avvisato Netanyahu a settembre sull’inclusione di estremisti di destra nel suo governo, asserendo che ciò avrebbe messo in pericolo le relazioni bilaterali tra Stati Uniti e Israele.
È improbabile che la presenza di elementi estremisti come Ben-Gvir e Smotrich nel nuovo governo israeliano disintegri gli accordi di Abramo. Ma i Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa, come gli Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan, Marocco, con cui Israele ha firmato gli accordi di normalizzazione non guardano con favore la prospettiva di lavorare a stretto contatto con un governo che comprende funzionari anti-arabi. I funzionari arabi potrebbero sentirsi obbligati a minimizzare la misura del loro impegno pubblico con la controparte israeliana, cosa che potrebbe complicare i piani di Israele di normalizzare le relazioni con i Paesi Arabi.
Fondamentalmente, Israele e I Paesi arabi del Golfo hanno una preoccupazione di sicurezza condivisa: l’ Iran. Il disfacimento degli Accordi di Abramo giocherebbe bene nelle mani di Teheran, in un momento in cui l’Iran continua a perseguire il suo avventurismo militare nel Medio Oriente, minacciando gli interessi di sicurezza di Israele e degli Stati del Golfo. Israele e l’Arabia Saudita entrambi disapprovano l’accordo sul nucleare del 2015 così come gli sforzi dell’amministrazione Biden per resuscitarlo, e nessuno dei due Paesi vuole mettere a repentaglio la propria alleanza informale contro Teheran.
Per Netanyahu, trovare un equilibrio tra le sue priorità interne e i nuovi partner regionali di Israele è stato sempre difficile. Lo sarà ancora di più per il suo governo che comprende estremisti le cui visioni alienano i suoi partner più vicini.

Conflitti in corso

Le speranze di accordi negoziati nelle guerre in Siria e Yemen sono ripetutamente svanite. Un cessate-il-fuoco in Libia è diventato più efficace nel far tacere armi – per ora, ma la transizione politica è distratta e una pace durevole per ora è lontana dall’essere garantita.

I droni iraniani e la Russia

La notizia che la Russia ha impiegato equipaggiamento militare iraniano, particolarmente i droni, nella guerra contro l’Ucraina ha condotto alcuni osservatori ad inquadrare il conflitto come un terreno di prova per la tecnologia militare iraniana. Mentre l’impatto di questi armamenti sulla traiettoria Russia – Ucraina sarà oggetto di un intenso dibattito, le implicazioni per le dinamiche militari nel Medio Oriente sono lontane dall’essere chiare, visto che la Russia, fin qui, ha impiegato i suoi droni iraniani in una maniera in cui l’Iran stesso potrebbe non utilizzarli.


Per comprendere le implicazioni di questi sviluppi per la postura militare iraniana vis-à-vis con gli Stati Uniti, Israele, gli Stati del Golfo Arabo, è importante riconoscere il contesto in cui l’Iran ha sviluppato i suoi droni e come l’Iran e i suoi alleati non statali hanno impiegato finora questi sistemi.


L’Iran ha speso più di una decade nel diversificare le sue capacità di colpire. Mente i missili balistici offrono una velocità ineguagliabile, il volume della forza missilistica balistica dell’Iran, particolarmente i suoi sistemi di lungo raggio, sono stati a lungo limitati in accuratezza. Dalla passata decade ad oggi, l’Iran ha sviluppato e prodotto una vasta gamma crescente e diversificata di missili balistici sempre più accurati. Tali miglioramenti nell’accuratezza hanno reso la forza balistica iraniana più efficace, come mostrano gli attacchi del gennaio del 2020 contro la base irachena che ospitava i soldati americani in rappresaglia per l’assassinio da parte degli Stati Uniti del comandante militare iraniano Gen. Qasem Soleimani.
Sin dal loro sviluppo e utilizzo di aereomobili senza pilota nel contesto della guerra Iran-Iraq negli anni 1980, l’Iran ha in maniera consistente sperimentato l’uso della tecnologia dei droni in vari ruoli. Negli anni 1990, l’Iran ha iniziato a sviluppare attacchi con i droni che si schiantano contro un obiettivo. Il primo impiego rilevante dei droni iraniani risale al 2006 quando Hezbollah li utilizza in piccoli numeri contro Israele. Più recentemente gli Houti – l’alleato non-statale dell’Iran in Yemen, li ha ripetutamente utilizzati contro l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti dal 2015. I droni iraniani sono stati impiegati insieme ai missili da crociera negli attacchi alle infrastrutture petrolifere saudite nel settembre del 2019.
I droni Shahed-131 e Shahed 136 forniti alla Russia, apparentemente progettati dall’esercito russo come Geran 1 e Geran 2, sono perciò l’ultimo esempio di una tendenza di lungo corso.
Shahed-136 e altri droni d’attacco della loro classe sono tipicamente montati su camion lanciatori; Shahed-131 è più piccolo e dal design più luminoso con la stessa configurazione. Diversamente da droni più piccoli e più leggeri che possono essere lanciati a mano e tendono ad essere alimentati a batteria, Shahed 131 e Shahed 136 sono equipaggiati con un piccolo motore a pistone che può sostenere una velocità di circa 150 km all’ora. In ragione della carica esplosiva più piccola e della velocità minore rispetto MQ-1 Predator americano o allo Shaded-129 iraniano, i primi sono più convenienti e molto più semplici da costruire per cui possono essere prodotti ed esportati in numeri maggiori.
Diversamente dagli Houti in Yemen che hanno impiegato le capacità di colpire fornite dall’Iran su piccola scala e in un modo piuttosto sporadico, le limitate prove disponibili del reale impiego nel mondo dell’Iran dei droni d’attacco suggerisce che Teheran apprezza il ruolo che l’integrazione congiunta di armamenti può giocare in obiettivi complessi, così come il ruolo nella difesa e nell’infliggere alti livelli di danno. Gli esempi degli attacchi iraniani contro le infrastrutture petrolifere saudite nel 2019 e contro le forze americane in Iraq nel 2020 ci suggeriscono che l’apparato militare iraniano riconosce la forza e la debolezza della gamma dei suoi diversi sistemi di attacco ed è capace di integrarli con abilità in operazioni complesse.
Le capacità di attacco iraniane sono costruite per essere complementari l’una all’altra, con droni utilizzati per degradare la difesa così che i missili balistici e da crociera possono essere utilizzati per danneggiare severamente se non distruggere obiettivi più resilienti. In questo modo l’Iran è meglio posizionato per danneggiare – se non distruggere – le infrastrutture critiche in un conflitto, e la spesa di droni relativamente a basso costo serve uno scopo più rilevante rispetto al danno inflitto finora dagli attacchi dei droni russi in Ucraina. Mentre questi hanno inflitto severi costi umanitari contro la popolazione civile, essi restano primariamente un disturbo in termini di efficacia militare.
L’Ucraina potrebbe non essere il terreno di prova per la tecnologia dei droni iraniana, anche se molti osservatori ritengono il contrario. La Russia sembra che stia utilizzando i droni iraniani in un modo molto simile agli Houti in Yemen, sebbene in una scala più ampia, rispetto a come sembra che l’Iran intenda utilizzarli.

La diplomazia regionale

L’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, recentemente, si sono impegnati in colloqui con l’Iran volti ad allentare le tensioni. Similmente la Turchia ha iniziato un riavvicinamento con l’Egitto che potrebbe condurre ad una normalizzazione delle relazioni, mentre la Turchia disgela le relazioni con gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita. Gli Stati del Golfo alleati con i sauditi hanno messo fine al blocco del Qatar. Le ostilità tra Israele e l’Iran hanno iniziato a esternare questa tendenza con le due parti che si impegnano in attacchi tit-for-tat che corrono il rischio di intensificarsi fino ad un conflitto aperto.
L’Egitto ed il Qatar continuano a disgelare i legami, ma con differenti ragioni.
Malgrado il ripristino dei voli diretti tra il Cairo e Doha, la firma degli accordi di investimento bilaterali e la visita dell’emiro del Qatar Tamim bin Hamad Al Thani al Cairo, le relazioni tra i due Paesi restano tiepide. Se la motivazione del Qatar di un riavvicinamento all’Egitto è politica, la ripresa economica è ciò che conduce l’Egitto, visto che la sua economia continua ad essere stagnante a causa della combinazione di sfide domestiche e fattori internazionali.
Gli effetti globali dell’invasione russa dell’Ucraina hanno posto uno stress all’economia egiziana. Sebbene l’Egitto resti una destinazione popolare per i turisti russi, che sempre più si allontanano dalle mete di viaggio occidentali, il numero di turisti russi che visitano l’Egitto è diminuito, provocando un taglio ai guadagni del turismo del Cairo. La guerra ha anche contribuito ad un’impennata dei tassi di interesse così come dei prezzi del cibo e dell’energia, facendo salire i costi di importazione dell’Egitto. Queste pressioni socioeconomiche create dalla guerra in Ucraina esistono unitamente ad altre sfide domestiche, molte delle quali nascono dalla pandemia e dal coinvolgimento dei militari in diversi settori economici – dalla costruzione all’intrattenimento – che nel corso del tempo hanno scoraggiato l’investimento straniero e soffocato il settore privato.
La sfida più significativa che deve affrontare l’economia egiziana è il suo alto debito. Una svalutazione della sterlina egiziana del 15% nel marzo del 2022 seguita da una graduale perdita di un altro 4% del suo valore. Il Cairo sta negoziando un pacchetto di prestiti con il Fondo Monetario Internazionale, che ci si aspetta che includa piani per svalutare ulteriormente la sterlina. Mentre i politici egiziani valutano i pro e contro delle condizioni poste dall’IMF per il via libera al prestito, il Cairo sta anticipando nuovi guadagni dalla vendita di gas naturale liquefatto ai Paesi europei che disinvestono dalle importazioni energetiche russe.
Le recenti aperture dell’Egitto al Qatar devono essere comprese in questo contesto.
Il Cairo sta simultaneamente cercando di rinforzare le sue relazioni economiche con l’Arabia Saudita, una storica fonte di sostegno finanziario in momenti di difficoltà. Il Fondo di investimento pubblico saudita ha annunciato un impegno di quasi 10 miliardi di dollari in nuovi investimenti in Egitto .
Gli investimenti degli Stati del Golfo aiuteranno a sostenere gli sforzi di stabilizzazione della sua economia, ma non condurranno, da soli, ad una completa ripresa economica, non da ultimo per la morsa dei militari sul settore privato, anche se le proiezioni sulla popolazione egiziana la vedono in rapida crescita. Perciò per i Paesi del Golfo, investire nell’economia egiziana è più una questione di politica e di stabilità piuttosto che una ricerca di un ritorno sull’investimento.
Come il resto del Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo, il Qatar anche vede il sostegno all’economia dell’Egitto come una tutela contro l’instabilità politica, che essi temono possa diffondersi nella loro direzione (come è accaduto nel 2011).

Agosto 4 2022

Chi assicura la pace quando finisce la guerra?

Pace chi la assicura

Mettiamo il caso che le parti in conflitto trovino un accordo per far tacere le armi? E poi? Chi assicura che la pace duri nel tempo? Ci avete mai pensato?

Firmare accordi per portare la guerra ad una fine è un passo necessario, ma insufficiente verso una pace che duri nel tempo.
Il peacebuilding è concepito, oggi, come un processo composto da molti stadi indirizzati a rafforzare l’accordo di pace e ad avviare la riconciliazione delle comunità attraverso approcci che vanno dal capacity-building governativo allo sviluppo economico e alle riforme del settore della sicurezza e legale.
Ogni iniziativa è intesa come un passo in avanti verso il miglioramento della sicurezza umana. Tale processo spesso include un meccanismo di giustizia di transizione utile a favorire la ripresa della vita sociale delle comunità e la riconciliazione.
Il peacebuilding è un processo laborioso e costoso.

Sebbene il peacebuilding si sia evoluto, non vi è ancora consenso su chi debba guidare questi sforzi. Subito dopo l’11 settembre del 2001, le Nazioni Unite hanno introdotto una Commissione di Peacebuilding, intesa ad apporre maggiore pressione per l’adozione di interventi post-conflitto, quindi di aiuto, e tracciare la loro realizzazione in pratica. Tuttavia, a causa della mancanza della capacità di imporne l’attuazione, gli Stati membri possono bloccare le iniziative della Commissione. Organismi regionali, incluso l’Unione Europea ed in particolare l’Unione Africana, hanno mostrato interesse nel rendere prioritario il peacebuilding post-conflitto, ma si tratta di storie complicate e avvolte da una sorta di nebbia.
Le iniziative di giustizia di transizione sono similmente difficili da attuare. Disegnate per aiutare una società a documentare e valutare, all’interno del sistema giuridico, gli abusi di diritti umani, esse possono assumere diverse forme, incluso processi penali, commissioni di giustizia o programmi di indennizzo. Laddove le prime iniziative come quella dei processi post Seconda Guerra mondiali ai criminali di guerra tedeschi e giapponesi, enfatizzano la giustizia penale, sforzi più recenti si sono ampliati per concentrarsi sulla riconciliazione, sulla “guarigione” e trasformazione della società.
Tuttavia includere discussioni su meccanismi di giustizia di transizione nelle negoziazioni di pace può anche essere un rischio , particolarmente quando persone che da tali procedimenti potrebbero essere ritenute responsabili di aver commesso crimini, devono essere parte nel costruirli. Vi è anche il problema più ampio nel sostenere tali sforzi di fronte alla tentazione di lasciare le esperienze dolorose al passato.

Sia per le iniziative di peacebuilding che quelle di giustizia di transizione, il finanziamento rimane una sfida chiave ed una scusa frequente per bloccare gli sforzi.


La questione di chi dovrebbe finanziare la ricostruzione è un altro ostacolo al peacebuilding. In alcuni casi il consenso sulla necessità di stabilità guida i meccanismi di finanziamento internazionale per promettere aiuto. In altri casi come la Siria, il finanziamento per la ricostruzione diventa un’altra arena per competere sull’influenza ed il potere.


Porre fine al combattimento

Il primo passo verso la costruzione della pace è porre fine alla guerra. Sebbene sia più che evidente, è più facile a dirsi che a farsi. La sfiducia ed il risentimento che hanno condotto al conflitto sono spesso esacerbati durante il corso dai combattimenti, rendendo entrambe le parti sempre meno desiderose di deporre le armi. Spesso potenze esterne cercano di portare avanti i loro propri interessi, minando gli sforzi per arrivare ad un negoziato. Anche quando sono dispiegate forze di peacekeeping nella zona di conflitto, spesso sono inefficaci.

Tuttavia, malgrado tutti questi ostacoli, gli sforzi per porre termine al conflitto sono preferibili al non fare niente.

Ora venite con me facciamo un giretto per il mondo ed osserviamo cosa accade sul campo agli sforzi di peacebuilding, di riconciliazione e di giustizia di transizione.


Libia

Fonte: World Atlas


Nell’ottobre del 2020, è stato firmato un cessate-il-fuoco dopo che le azioni militari di Haftar a Tripoli hanno fallito a causa dell’intervento militare turco per sostenere il governo riconosciuto internazionalmente. L’accordo ha permesso l’avvio di un processo di dialogo che ha prodotto poi il Governo di Unità Nazionale – GNU nel suo acronimo inglese- Il governo di transizione aveva il compito di preparare il Paese per le elezioni sia parlamentari che – per la prima volta nella storia della Libia – presidenziali, fissate per il 24 dicembre 2021.
Più di 2,8 milioni di persone parte di una popolazione di poco al di sotto dei 7 milioni, si sono registrate al voto, segno inequivocabile che i libici volevano cambiare pagina, avere un programma politico dopo anni di guerra, fin dal 2014. Disaccordi sulle leggi elettorali – incluso se la Libia post -Gheddafi fosse pronta per un sistema presidenziale – e la lista dei candidati elegibili hanno condotto la commissione elettorale a posporre il voto di dicembre, portando così il processo politico a guida Nazioni Unite verso una paralisi.
Da dicembre il leader del GNU, il primo ministro Abdulhamid Dabaiba, ha insistito che secondo i termini dell’accordo politico che aveva costituito il GNU, egli debba trasferire il potere solo al governo eletto attraverso un voto nazionale. Nel frattempo il capo dell’autorità parallela, Fathi Bashaga, rivendica che il mandato del governo di unità nazionale è terminato il giorno che si sarebbero dovute tenere le elezioni poi annullate. Il suo governo che si fa chiamare Governo di Stabilità nazionale, GNS – nel suo acronimo inglese – ha il sostegno sia di Haftar che di Aquila Saleh, lo speaker della Camera dei Rappresentanti, un apparato altamente disfunzionale che è stato eletto nel 2014.
I termini del piano d’azione sono contestati ed un elemento chiave dell’accordo di cessate-il-fuoco appare a rischio. Agli inizi di aprile di quest’anno i rappresentati di Haftar nella commissione cosidetta 5+5, la Joint Military Commission, dichiarano di sospendere la loro partecipazione nella commissione e rivendicano la chiusura dei terminali petroliferi e dei voli tra la Libia occidentale e la parte est del Paese. Sebbene la comissione si sia riunita recentemente in una conferenza in Spagna, le spaccature restano. Il JMC è un prodotto del cessate-il-fuoco del 2020, il cui compito è quello di unificare le forze armate del Paese e supervisionare il ritiro dei mercenari stranieri. La Commissione era stata precedentemente lodata dai diplomatici come un raro successo.
Le tensioni aumentano tra il GNU ed il GNS, le Nazioni Unite stanno cercando di raggruppare sufficiente consenso per permettere che si svolgano le elezioni quest’anno.
La situazione non è agevolata dal fatto che la missione di supporto delle Nazioni Unite in Libia, UNSMIL, è stata minata dalle divisioni all’interno del Consiglio di Sicurezza. La Russia ha sostenuto Haftar, così come gli Emirati Arabi Uniti.

Il rinnovo di lungo termine della missione è stato bloccato per disaccordi tra i membri del Consiglio sulla lunghezza del mandato, sulla ristrutturazione e la nomina della sua leadership. Tutte le parti coinvolte nelle lotte di potere in Libia vedono opportunità in questo indebolimento della missione di supporto.

Nel frattempo, le conseguenze – negative – dell’invasione russa dell’Ucraina hanno creato un’arena aggiuntiva di competizione per le fazioni rivali in Libia.

Ad aprile, Dabaiba, il cui GNU rappresenta ancora il Paese alle Nazioni Unite, ha reso la Libia il solo Paese del Medio Oriente e del Nord Africa a votare in favore della sospensione di Mosca dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite. Bashaga ha cercato di ottenere sostegno internazionale per il suo governo rivale dichiarando ai diplomatici occidentali che può ridurre l’impronta russa in Libia. Affermazione che lascia tutti un po’ scettici, visto che il suo alleato Haftar resta dipendente dalla forze russe incluso i mercenari del Wagner che sono incorporati in diverse delle sue basi.

Vi è anche il timore che al trascinarsi della guerra in Ucraina, Mosca possa utilizzare il Wagner per accrescere problemi in Libia, creando più sfide per la NATO ed il suo fianco a sud.

Riportare la Libia in un percorso transitorio stabile non sarà facile. Dovrebbe iniziare con un nuovo governo ed una road map che ponga la priorità alle elezioni legislative, lasciando la contestata questione se il Paese debba o meno adottare un sistema presidenziale per un altro momento. Per arrivare a ciò dovrebbe essere nominato un inviato speciale che trascenda le divisioni sia al Consiglio di Sicurezza che all’interno dello scenario politico libico.

Repubblica Centrafricana

Fonte: Encyclopedia Britannica


Perchè dopo otto anni dalla missione di peacekeeping NU e sei anni dopo gli iniziali accordi di pace, la pace non è ancora arrivata nella Repubblica Centrafricana?


Considerato un tempo un Paese marginale negli affari regionali, la Repubblica Centrafricana (RCA) è diventata un frequente argomento di discussione nei circoli africani di sicurezza. RCA è spesso citata come il trampolino di lancio nel Continente per il Wagner Group ed un punto di riferimento per il coinvolgimento del gruppo negli altri Paesi africani. Le attività del gruppo si sono ora espanse al Mali, al Sudan ed alla Libia e la fissazione sul suo appariscente ingresso nelle zone di conflitto della Regione ha deviato l’attenzione internazionale da un più allarmante sviluppo a Bangui: il futuro sempre più precario del Paese.
Per un breve momento nel 2016, RCA sembra sulla strada della ripresa dalla sua rapida discesa nel conflitto nel 2012 e nel 2013, quando la coalizione ribelle Seleka rimuove l’ex presidente Francois Bozize, ma non riesce a porre fine alla violenza. Le Nazioni Unite dispiegano una missione nel 2014, conosciuta con il suo acronimo MINUSCA, per stabilizzare la sicurezza all’interno del Paese, l’Unione Europea e la Francia inviano missioni di addestramento per contribuire a ricostruire le forze armate note con l’acronimo francese FACA.
Le elezioni presidenziali e parlamentari nel 2015 e nel 2016 generano un’ondata di ottimismo. Malgrado ritardi e alcune irregolarità, la violenza elettorale tanto temuta non si manifesta ed il Presidente Faustin Touadera diventa il primo presidente del RCA democraticamente eletto.
Tuttavia, in assenza di un accordo per disarmare i gruppi ribelli o rivendicare il controllo del Paese, Touadera è lasciato con pochissime opzioni per governare su i suoi oppositori. Né MINUSCA né le truppe francesi nel Paese vogliono ingaggiare combattimenti con i gruppi armati: la violenza intercomunitaria si diffonde a Bangui e i gruppi armati governano, in modo autonomo, aree lontano dalla capitale.
Pur riconoscendo che sciogliere, smobilitare le loro forze significa abbandonare la loro influenza, i leader dei ribelli firmano una serie di accordi di pace dal 2016, solo per poi ignorare i loro obblighi quando si tratta di disarmo e smobilitazione.
Nel tardo 2017, dopo che la Russia si assicura una deroga dall’embargo delle armi imposto dalle Nazioni Unite per spedire armi di piccolo calibro alla RCA, i mercenari del Wagner Group iniziano ad arrivare assieme alle armi. Wagner promette di ottenere risultati che le Nazioni Unite, l’Unione Europea e la Francia non possono o non vogliono raggiungere: un addestramento focalizzato al combattimento per il FACA e una vittoria contro i gruppi armati sul campo di battaglia. Ovviamente, parallelamente a ciò il Wagner persegue i suoi propri interessi. Inizialmente, la presenza del gruppo nel Paese è considerata come novità, l’attenzione internazionale continua a concentrarsi sulla capacità di Touadera di consolidare il controllo territoriale del governo e sugli sforzi multilaterali di raggiungere un accordo di pace.
Una flessione accade nel dicembre del 2020 quando un’offensiva lanciata da una coalizione di ribelli cerca di rimuovere Touadera prima dell’elezione presidenziale che poi vince. I ribelli non riescono ad arrivare nella capitale, ma la loro avanzata convince i sostenitori di Touadera a Bangui che senza un governo che può imporre il suo volere militarmente o alleati che possano facilitare tale sforzo, la pace nella RCA è irraggiungibile. Il Wagner è centrale alla successiva contro-offensiva del governo, guidando le unità FACA che il gruppo ha addestrato a spingere, con successo, i ribelli nel nord del Paese.
Ora Touadera sta pagando il prezzo diplomatico e di reputazione della azioni del gruppo Wagner. Sebbene i combattenti di tutte le parti nel conflitto siano state responsabili di violazioni dei diritti umani, un rapporto delle Nazioni Unite rivela che le forze FACA guidate dal Wagner sono state responsabili per quasi la metà di tutti gli incidenti confermati. Come risultato l’Unione Europea ha sanzionato il Wagner.
Il Wagner è stato anche accusato di pratiche di sfruttamento dall’estrazione predatoria delle risorse al rapire uomini d’affari in cambio di cash.
Sia il FACA che il Wagner hanno anche, ripetutamente, attraversato la frontiera a nord entrando in Ciad e scontrandosi con le forze del Ciad.
MINUSCA aggiunge problemi. A novembre è stata lanciata un’investigazione su alcuni peacekeeper portoghesi per traffico illecito di diamanti. Nel frattempo le Nazioni Unite hanno rimosso il contingente del Gabon dalla missione per presunti abusi. Assieme a questo, ci sono voci e speculazioni per cui alcuni soldati di MINUSCA vendono le armi ai gruppi ribelli. Diventa dunque piuttosto difficile per la missione dipingersi come una parte neutrale per i centrafricani.

Sebbene Touadera, con il sostegno russo, potrebbe avere la meglio, militarmente, contro i gruppi ribelli nel breve periodo, le dislocazioni massicce e i legami con le comunità di frontiera nel nord del Paese possono alimentare risentimento e possono essere facilmente mobilitate da attori in Ciad ed in Sudan.

Fondamentalmente, l’apatia internazione e i loschi affari di Touadera possono trasformare la democrazia in una sorta di governo disfunzionale e repressivo che i centrafricani avevano rovesciato una decade fa.

Riconciliazione e giustizia di transizione

Solo perchè due parti in guerra si sono accordate a far tacere le armi non significa che perseguiranno in maniera significativa sforzi per valutare le atrocità che hanno commesso e considerare come – o se – rendere i perpetratori responsabili.

Iraq


Il fallimento di reintegrare gli ex combattenti dello Stato islamico e i suoi simpatizzanti nella società irachena continua ad danneggiare gli sforzi di riconciliazione in Iraq.
Lo Stato islamico, come anche Al Qaeda, reclutano sì molti credenti alla loro ideologia estremista, ma sono sostenuti anche da iracheni e siriani che sono disillusi dagli sforzi del governo che ha fallito nel fornire stabilità e sicurezza. Entrambi i gruppi hanno guadagnato il sostegno da colonne portanti della società irachena, compreso ex ufficiali militari, mercanti prominenti, leader di comunità locali e religiose. Tutti assieme tali fattori hanno permesso all’estremismo jihadista di fiorire nelle rivolte.
Questa questione del sostegno popolare allo Stato islamico (IS) è stata completamente ignorata dopo la caduta di Baghouz nel marzo del 2019, che ha segnato la sconfitta del progetto territoriale del califfato.

L’attenzione internazionale è evaporata e le risorse necessarie per la ricostruzione post-conflitto e la ricollocazione non si sono mai materializzate.


Alcune importanti domande non hanno mai ricevuto una risposta:

  • cosa facciamo con le decine di migliatia di combattenti del’IS catturati e delle loro famiglie?
  • cosa facciamo con le migliaia di stranieri – molti con passaporti occidentali – che hanno viaggiato in Iraq e Siria per unirsi allo Stato islamico?
  • cosa facciamo con i centinaia di migliaia di iracheni e siriani che hanno collaborato con lo Stato islamico e condividono ancora molto della natura estremista del gruppo, ma che non erano direttamente connessi con i crimini e per questo non devono essere sottoposti a procedimenti penali?

La domanda più difficile:

  • cosa facciamo con una stima di 500,000 iracheni che erano noti dai loro vicini per essere simpatizzanti dello Stato islamico e si sono susseguentemente trovati ostracizzati dai loro stessi vicini, non più in grado di tornare a casa?

A tutte queste domande, la risposta dalla comunità internazionale è stata uno spregiudicato disinteresse.

I governi occidentali si sono rifiutati di rimpatriare i loro cittadini che hanno combattuto per l’IS. Hanno fallito nel costruire infrastrutture detentive in Iraq e Siria o di inviare i loro funzionari di sicurezza addestrati dai loro Paesi per sorvegliare i detenuti lì.
Le città, i villaggi bombardati con armi occidentali costose durante la campagna militare contro lo Stato islamico non sono state ricostruite. I problemi spinosi di reintegrazione e responsabilità sono stati lasciati alle autorità locali.
Molti centri di detenzione in Siria, come quello a Hasakeh, sono locati in comunità che pare includano molti presumibili simpatizzanti dell’IS.
Il governo di Baghdad e il governo regionale curdo hanno cercato di controllare i combattenti dell’IS noti.

Si sono svolti procedimenti penali, ma tutto il sistema è da valutare come imperfetto: colpevoli in grado di eludere la giustizia attraverso scappatoie legali o pagando delle mazzette.


Le autorità locali non hanno reso possibile il ritorno delle persone dislocate internamente, mentre hanno sperimentato meccanismi per rendere in grado gli iracheni noti per avere connessioni con l’IS o simpatie con il gruppo di firmare delle denunce contro l’organizzazione estremista violenta e ritornare alla società.
Un numero indefinito di persone vive in detenzione senza né essere accusata né dichiarata colpevole da un tribunale. Centinaia di migliaia di ex membri dell’IS e sostenitori sono abbandonati in un limbo in condizioni degradanti. Se non saranno sottoposte ad un equo processo o rilasciate e reintegrate nella società, la “generazione perduta” può potenzialmente guidare un’altra ondata di ribellione quando verranno alla fine rilasciati, che sia per procedimenti legali che attraverso attacchi dell’IS come quello a Hasakeh.

Febbraio 28 2022

Ucraina: la guerra ibrida

guerra ibrida

La visione del mondo europea-atlantica, particolarmente riguardo alla legittimità popolare e alla sovranità nazionale, è incompatibile con il “putinismo”. E dato il revanscismo che Putin abbraccia, è chiaro che è una strada senza uscita quella di stabilire una “linea di controllo” all’interno dell’Europa tra l’occidente e quello esso vede come la sfera di interesse della Russia.

È anche possibile che Putin continuerà ad apporre pressioni e a saggiare ulteriormente dove questa linea finirà con l’essere disegnata, e possibili luoghi per farlo non mancano: Bosnia, Moldavia, i più ovvi.

Da dove possiamo partire per tentare di comprendere le tensioni tra Russia e Ucraina?

Deterrenza e diplomazia coercitiva, sono concetti necessari per capire le tensioni tra Russia, Ucraina, Stati Uniti e NATO. Deter è un termine inglese, utilizzato anche in italiano, la cui traduzione più corretta è dissuadere –

La deterrenza è passiva nel suo orientamento. Essa è intesa a prevenire un’azione non ancora intrapresa ed iniziata, sia mostrando che quell’azione è destinata a fallire o che i costi che ne risultano sono significativamente più grandi di ogni beneficio che può essere ottenuto. L’obbligatorietà è più complicata. Essa implica l’ottenere dall’altra parte di fare qualcosa – o iniziare un’azione che altrimenti non sarebbe stata scelta o cambiare il corso di un’azione che è stata già iniziata. Ciò può essere compiuto attraverso minacce, incentivi o una mescolanza di entrambi.

In breve, ogni Paese nel mondo, a prescindere dal suo sistema politico o dai suoi valori, cerca di distogliere altri Paesi dall’intraprendere azioni che esso vede nocive per i suoi interessi nazionali, mentre si adopera ad ottenere influenza che obbligherà altri Paesi ad essere ricettivi delle sue richieste. Allo stesso tempo, per proteggere la sua propria indipendenza e la libertà di azione, cercherà di minimizzare le capacità degli altri di utilizzare la deterrenza e la obbligatorietà contro di esso. Alcuni Paesi possono generare un sufficiente potere di deterrenza e obbligatorietà per le loro proprie risorse, mentre altri potrebbero aver bisogno di mettere assieme una coalizione o cercare un’alleanza protettiva con un alleato più forte.

Deterrenza nella definizione classica di Thomas Schelling, risiede nella capacità che uno Stato deve avere per dissuadere (deter) un altro stato, deve comunicare l’esistenza di queste capacità e deve dimostrare l’impegno ad utilizzare queste capacità nell’eventualità che “linee rosse” precedentemente comunicate siano state oltrepassate.

Obbligatorietà richiede avere sufficienti risorse necessarie per la persuasione – una forza militare capace di imporre costi oppure le risorse economiche per comperare consenso. In entrambi i casi, i leader politici devono calcolare quanto sono desiderosi di spendere e di rischiare in linea con gli obiettivi che ritengono siano i più importanti e vitali per gli interessi del loro Paese, o alle volte, per la sopravvivenza. Applicazioni di successo della deterrenza e della obbligatorietà possono accadere quando, i fini strategici sono bilanciati con i mezzii che saranno utilizzati per raggiungerli. (questa l’ha detta Walter Lippman)

La crisi Russia – Ucraina è parte di un processo più grande di negoziazione, il risultato del quale lo vedremo all’aumentare del potere della deterrenza e della obbligatorietà da una parte e la diminuzione dall’altra.

In superficie questa crisi sembra quasi assurda. Da una parte la Russia che non vuole vedere l’Ucraina ammessa nella NATO. Dall’altra, malgrado la consapevolezza nei mesi passati che l’appartenenza alla NATO per l’Ucraina non è una possibilità realistica nel breve termine, i leader della NATO hanno rifiutato di chiudere formalmente la porta allo stato di membro dell’Ucraina, per evitare di ammettere il principio che ogni Paese europeo abbia il diritto di scegliere i suoi propri accordi di sicurezza.

Esaminando più attentamente la crisi, essa si trova in una complessa configurazione di obiettivi di sicurezza nazionale.

La visione della Russia è che il collasso dell’Unione Sovietica ha condotto ad un collasso analogo del potere di deterrenza e obbligatorietà di Mosca, particolarmente nella sfera militare.

Nel 2008 ed ancora nel 2014, la Russia ha segnalato che non avrebbe più accettato passivamente espansioni, utilizzando impegni militari limitati contro la Georgia e l’Ucraina, per alzare i costi di essere pienamente integrati nella comunità euro-atlantica al di là di un livello accettabile. Oggi la Russia è ancora impegnata nella diplomazia coercitiva per obbligare Kyiv e i suoi alleati occidentali ad accettare un compromesso in cui l’Ucraina resta al di fuori della comunità occidentale.

Per sua parte, l’Ucraina, nelle successive amministrazioni di Poroshenko e Zelensky, ha visto un più stretto allineamento con l’Occidente per controbilanciare gli avanzamenti militari russi. In parallelo, come ulteriore deterrenza contro una potenziale aggressione russa, Kyiv ha cercato di preservare la sua importanza come Paese transito chiave per il gas naturale per raggiungere i mercati europei.

La vendita di energia russa ai clienti europei resta un importante fonte di guadagno per lo Stato russo e nella misura in cui Mosca spera di preservare questo guadagno, potrebbe evitare di danneggiare l’infrastruttura di gas con l’invasione militare. Gli interventi militari in Ucraina nel 2014-2015 nella regione del Donbass hanno avuto luogo lontano dall’infrastruttura per il transito energetico che connette la Russia all’Europa.

Per rafforzare questo deterrente energetico contro la Russia, l’Ucraina vuole che i suoi partner europei chiudano i progetti di transito energetico che aggirano il territorio ucraino e Kyiv ha sollecitato Washington a sostenere questo obiettivo. Per parte loro la Germania, l’Ungheria e la Turchia, tra gli altri, hanno cercato di disconnettere la loro propria sicurezza energetica dalla crisi ucraina.

L’approccio russo combina le minacce militari all’Ucraina con la politica energetica disegnata per disconnettere l’Europa dalle forniture energetiche dal territorio di sicurezza ucraino.

A sua volta l’Ucraina sta cercando la protezione militare dall’occidente, mentre cerca di tenere le forniture energetiche connesse al suo territorio di sicurezza.

Spesso pensiamo che la deterrenza sia ragionevolmente stabile e che duri per decadi, come lo stallo tra Stati Uniti e Unione Sovietica nella Guerra Fredda. Ma nell’odierna crisi in Europa, la deterrenza è tutto fuorché stabile. Essa è cambiata nel corso del tempo e continuerà a farlo; questo a sua volta sta plasmando le scelte strategiche di tutte le parti coinvolte.

Se la Russia non è stata dissuasa dall’attaccare oggi, e se l’Occidente non accetta un accordo imposto sull’Ucraina da Mosca, Kyiv potrebbe essere in una posizione, per la fine della decade di esercitare un più alto grado di obbligatorietà contro la Russia. Questo potrebbe dire, ad esempio, riprendere il territorio perso nel Donbass senza accettare alcun accordo di federalizzazione come immaginato negli accordi Minsk-2, così come procedere con la sua traiettoria verso l’appartenenza alla NATO e all’UE. In altre parole, dissuadere Mosca nel breve termine potrebbe creare le condizioni per l’erosione delle capacità di obbligatorietà russe nel lungo termine.

Gli Stati Uniti sono concentrati di più sulla competizione strategica con la Cina e sul centro di gravità economico e strategico mondiale che sta continuamente muovendosi verso la regione indo-pacifica quindi l’amministrazione Biden o i suoi successori potrebbero nel corso del tempo essere più propensi ad un compromesso sull’Ucraina: accettare una cintura di Stati neutrali tra i mondi euroatlantici ed euroasiatici. Perciò una strategia russa di obbligatorietà, attraverso una via militare coercitiva e la diplomazia economica, potrebbe creare la condizione dove la Russia si sente meno dissuasa dall’Occidente.

Sfortunatamente, mentre si concorda sulla semplicità di questi concetti fondamentali di sicurezza nazionale in teoria, trovare un modo affinché guidino complesse interazioni sul terreno è molto molto più difficile.

Sembra ovvio che una nuova e innovativa iterazione di una dinamica di Guerra Fredda sia inevitabile, quale forma assumerà è molto difficile da immaginare, date le complesse interdipendenze economiche e politiche che legano le due parti.

Questa nuova Guerra Fredda ovviamente era in divenire molto prima della crisi ucraina, e non puramente sull’asse Russia – NATO. La rivalità Stati Uniti – Cina aveva già inspirato la retorica della Guerra Fredda, e sarà presumibilmente la dinamica più significativa che plasmerà il sistema internazionale e la costruzione di sfere di influenza in competizione nelle prossime decadi.

Cosa ci dicono queste prime schermaglie è che questa nuova Guerra Fredda sarà ibrida, con un focus molto sulle armi non cinetiche e tattiche così come sulla forza militare tout court.

Il numero delle crisi protratte che si sono generate nelle passate due decadi, molte delle quali non possono essere risolte in assenza della cooperazione multilaterale, rendono tutte molto imperativo che la nuova Guerra Fredda non si intensifichi nel tipo di contesti proxy e congelino il peacemaking.

Cosa ci suggeriscono gli strumenti e le armi che sono prominenti nell’odierno stallo geopolitico sulla forma del conflitto in divenire?

La minaccia posta dalle armi nucleari non è assente, ovviamente. Gli Stati Uniti, la Russia, la Cina hanno ancora arsenali nucleari in ottimo stato e sistemi in grado di utilizzarle anche più avanzati di quelli della fine della Guerra Fredda. Ma per ora, le armi nucleari non sono state uno strumento di definizione della competizione.

I principali poteri ovvero le armi per gli Stati Uniti e la Cina sono la loro dominazione dei nodi chiave nel sistema globale politico ed economico, che concede loro la determinazione dell’agenda ed il potere che detengono sul controllo, così come la capacità di armare l’interdipendenza globale. Oggi, questo posizionamento è più significativo dei loro arsenali nucleari in termini di permettergli di demarcare le sfere d’influenza e plasmare le dinamiche di potenze globali.

La Russia a questo riguardo ha meno potere da brandire. Tuttavia, la maniera in cui ha fatto leva sul suo veto alle Nazioni Unite, la sua abilità di proiettare una forza di spedizione e la legittimità dell’industria militare sovietica gli permettono di competere su scala globale per l’influenza e le risorse, e di bloccare altri dal farlo.

La Russia non ha un monopolio sulle tattiche militari a cui si affida – dal dispiego dei piccoli “uomini verdi” all’utilizzo della cattiva informazione, gli attacchi cyber, gli alleati proxy nelle zone di interesse occidentali. Pur tuttavia Mosca può dispiegarli in molte arene simultaneamente in modi in cui pochi altri possono.

Solo nello scorso anno, la Russia ha utilizzato queste tattiche per guadagnare influenza e irritare gli interessi occidentali in Sahel, Libia, Siria, Sudan, Balcani e, ovviamente, in Ucraina.

Considerato nel complesso, il tipo di armi e tattiche che gli Stati Uniti, la Cina, la Russia stanno impiegando rappresentano un’aggregazione di potere politico, di capitale economico e militare con cui poche altre nazioni possono competere. Ciò potrebbe rendere più difficile raggiungere la deterrenza e la distensione.

Il segnale che è necessario affinché la deterrenza sia credibile ed efficace è più difficile nel contesto della guerra proxy, cyber e ibrida, dove gli attori, le tempistiche ed anche gli attacchi stessi sono più difficili da leggere.

Ciò rende più difficile contenere le minacce, diminuirle, e la natura ibrida del conflitto – con il suo concentrarsi sulla competizione economica, politica e sociale e sulla forza militare – rende più probabile che i civili e gli altri attori neutrali siano travolti in (e da) esso.

Dal momento che queste nuove leve ibride di potere sono inconfutabili, relativamente comuni e possedute da attori al di là degli Stati in questione, ci potrebbero essere più vie di distruzione. Diversamente dal 1945, viviamo in un mondo dove le imprese private, gruppi violenti erranti, giocatori regionali minori, movimenti popolari di protesta e anche pirati informatici hanno la capacità di frustare le ambizioni delle super Potenze globali.

Un attore di cui non si parla spesso: la Turchia

La Turchia si trova tra l’incudine ed il martello. Non vuole essere l’antagonista della Russia, con la quale condivide interessi strategici vitali, ma ha necessità di mostrare il suo sostegno all’Ucraina e ai suoi alleati NATO. Ciò ha spinto la Turchia a camminare su un diplomatico e calibrato filo sottile di seta.

Erdogan ha visitato Kyiv il 3 febbraio 2022 proclamando il suo sostegno alla sovranità ucraina, reiterando la sua opposizione all’annessione della Crimea e firmando un accordo di libero scambio per segnalare l’impegno turco nella relazione di lungo termine con l’Ucraina. Tutto ciò, ovviamente è stato bilanciato da un’offerta per disinnescare la situazione convocando un incontro trilaterale con Putin, il presidente ucraino Zelensky ad Ankara o Istanbul. Erdogan continua a proporre questa via a Putin.

Le aperture diplomatiche di Erdogan, l’urgenza e l’importanza, sono comprensibili dal momento che Ankara ha affondato la sua mano economica in Ucraina e che tutto quello che sta avvenendo potrebbe regalarle il ruolo di uno dei principali perdenti economici. Nel 2021, la Turchia è diventata il più grande investitore in Ucraina, con investimenti in eccesso di 4 miliari di dollari. Vi sono al momento più di 700 imprese turche che operano sul terreno. Nei passati 5 anni, le esportazioni turche in Ucraina sono quasi raddoppiate a 2.6 miliardi di dollari, mentre le importazioni sono salite da 2.8 miliardi di dollari e 4,4 miliari di dollari.

La cooperazione bilaterale si sta muovendo particolarmente rapidamente nei settori della difesa e dell’aerospazio. Dal 2019 Kyiv ha acquisito una stima di una dozzina di droni Bayraktar. La marina ucraina ha anche ordinato due corvette MILGEM Ava-class, che saranno prodotte congiuntamente sul territorio turco e sul territorio ucraino. Le due parti hanno già firmato un accordo per costruire infrastrutture di addestramento e manutenzione per i droni turchi in Ucraina, a ciò è seguita la firma di un accordo per la produzione congiunta della prossima generazione di droni che farà leva sulla tecnologia avionica turca e sui motori a reazione ucraini.

La Turchia comprende molto bene che un cambio di regime in Ucraina metterebbe questi investimenti e le relazioni commerciali strategiche a rischio. Tuttavia, lo spazio di manovra della Turchia è in qualche modo limitato e la sua influenza diplomatica nel risolvere questa crisi è modesta.

Potrebbe esserci la possibilità che Erdogan e Putin possano far funzionare le cose malgrado gli ostacoli. Loro, dopo tutto, si sono perfezionati nell’arte della “geopolitica di vendita” – l’abilità di fare dei micro-accordi anche quando sono in disaccordo sul quadro più grande. Questo modo di fare affari è andato relativamente bene in vari teatri dalla Siria, alla Libia, al Caucaso. Questo potenzialmente spiega perché la Turchia permette alle sue compagnie di commerciare con la Crimea e l’Abcasia, malgrado la sua posizione ufficiale in sostegno dell’integrità territoriale dell’Ucraina e della Georgia. Vi sono poche ragioni per aspettarsi che l’Ucraina cambi il nome del gioco tra Ankara e Mosca.

Dicembre 3 2021

La globalizzazione dello Stato islamico

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Sempre più chiara è la circostanza per cui la mancanza di lenti coerenti e consistenti attraverso cui comprendere l’impresa transnazionale dello Stato Islamico compromette sia l’interpretazione degli studiosi, che il lavoro dei professionisti riguardo al significato dell’agenda globale del gruppo.

Questo articolo è un tentativo di portare sul tavolo qualche sfumatura, aiutando a comprendere come lo Stato islamico concettualizza – e poi rende operativo – il suo sforzo internazionale.

Il califfato oggi si comprende come un adhocrazia internazionale – una raccolta di gruppi militanti irregolarmente gestita; gruppi diversi, geograficamente dispersi che competono per governare aree – il carattere del quale riflette la compulsione ideologica, i principi strategici e i tratti organizzativi che sostengono le ambizioni di un progetto politico più ampio.

Nel realizzare ciò le iniziative all’estero coincidono con la spinta di forze sia dall’alto verso il basso, che dal basso verso l’altro che danno vita a sincronismo e tensioni sia globalmente che a livello di affiliati.

Mentre l’inclinazione dell’organizzazione dello Stato islamico per un’espansione globale è relativamente nuova nella sua storia lunga decadi, è stato sempre dimostrato il desiderio del gruppo di influenzare le opportunità transnazionali e le reti. Prima del 2006 attraeva foreign fighters e dirigeva attacchi in Giordania, Israele e Turchia.

Per gestire la sua espansione ed assicurare, allo stesso tempo, che i potenziali affiliati fossero ideologicamente allineati e strategicamente utili alla sua causa, ha creato una serie di criteri che i gruppi locali devono soddisfare per essere accetati come provincia (wilayat) formale. Questi creteri, almeno nominalmente, includono giuramenti pubblici di fedeltà al califfo, approvazione della leadership del gruppo locale da parte dello Stato islamico, consolidamento delle fazioni locali sotto un’unica bandiera, comunicazioni corrette tra la leadership locale e il fulcro centrale dello Stato islamico e l’applicazione della metodologia e credo dello Stato islamico. Malgrado la sua retorica assolutista, lo Stato islamico ha, in modo discordante, applicato tali criteri, un fatto che ha alimentato tensioni interne quando alcune province (ad esempio quella ora defunta di Wilayat al-Bahrayn) furono accettate come affiliati. Il dissenso si è diffuso sia al fulcro centrale che a livello di affiliati.

Chiaramente, bilanciare la compulsione ideologica per espandersi con la necessità di assicurare che gli affiliati locali realmente accrescessero le loro capacità piuttosto che detrarle, è stata una sfida per l’organizzazione. Alla luce di ciò, e indipendentemente dall’effettiva estensione di un dato affiliato verso le ambizioni dichiarate dello Stato islamico, al momento presente vi è un solo standard per cui un gruppo è ritenuto un affiliato provinciale, vale a dire se ne ha ufficialmente dichiarato uno.

Ad un estremo dello spettro, vi sono le province principalmente simboliche e ampiamente inattive come quelle in Algeria e in Arabia Saudita, all’altro vi sono le province come quelle della Siria, Iraq e West Africa che hanno raggiunto il consolidamento di uno Stato territoriale. Nel mezzo vi sono quelle che sono emerse come beneficiarie di uno sforzo globale di ristrutturazione messo in pratica nel 2018: Wilayat Sharq Asiyya (Est Asia) e Wilayat al-Sumal (Somalia), entrambe mostrano evidenze minimali di un intervento diretto del nucleo centrale dello Stato Islamico, sebbene restino operativamente attive e sono regolarmente rappresentate nei prodotti media ufficiali.

Per comprendere come la sua diffusione globale accade, è utile valutare gli affiliati dello Stato islamico caso per caso sulla base di queste considerazioni:

a. l’estensione del controllo centralizzato e dell’influenza esercitata dalla leadership centrale su tale affiliato;

b. i tipi specifici di attività che sono condotte da tale affiliato in nome del nucleo centrale;

c. la frequenza con cui tale affiliato e le sue attività sono utilizzate come leva dal nucleo centrale per scopi strategici e di propaganda.

Variazioni ovvero spudorata inconsistenza tra questi piani –situazioni che in altri contesti avrebbero causato potenzialmente sfide all’esistenza stessa del gruppo – sono ammesse proprio dalla natura adhocratica dello Stato islamico. È la stessa natura che gli permette di transitare da movimento estremista violento clandestino a proto-stato burocratico e indietro verso l’estremismo violento e così via, negli anni recenti senza interruzioni .

Le adhocrazie sono organizzazioni strutturalmente fluide in cui gruppi di progetto che interagiscono tra di loro lavorano verso uno scopo condiviso o un’identità. La fluidità che caratterizza un adhocrazia risulta nel suo essere flessibile a condizioni strategiche – alle volte può essere più gerarchica e burocratica mentre altre più informale e come una rete – con un gruppo
di specialisti nel fulcro centrale che guida la direzione complessiva e la collaborazione dell’organizzazione, attraverso una serie di meccanismi decisionali decentralizzati. È proprio il modello di queste caratteristiche essenziali dell’adhocrazia la chiave della sopravvivenza dello Stato islamico negli anni recenti. Questi tratti gli hanno permesso di proiettare un’immagine di un movimento molto più coerente e monolitico di quanto fosse in realtà. Questo carattere blando adhocratico ha significato che lo Stato islamico è stato in grado di essere altamente adattabile e innovativo in come ha risposto al cambiamento costante delle condizioni strategiche, negli anni recenti.

Dal momento che le organizzazioni adhocratiche resilienti sono anche inclini alla debolezza, generalmente esse si affidano alle tecnologie communicative e allo sviluppo di personale specializzato per sincronizzare gli sforzi e le agende. Per questa ragione, interruzioni nella comunicazione possono avere serie ripercussioni nella coerenza strategico-operativa così come nella compattezza del gruppo.

Inoltre, le adhocrazie contengono un alto rischio nella scelta del momento opportuno per la transizione organizzativa verso strutture più formali o informali, e ciò può agire da catalizzatore di un logoramento della rete. Questa dinamica è presumibilmente evidenziata nella fretta dello Stato islamico nel dichiarare un califfato e creare un “sistema di controllo” burocratico di pieno spettro in Siria e Iraq nel 2014, per vederlo poi decimato pochi anni dopo.

C’è stato un punto in cui lo Stato islamico ha indietreggiato dall’idea di avere un proto-stato nell’arco delle frontiere dell’Iraq e della Siria (almeno per il momento presente). Non vuole dire che esso sia entrato in un mondo “post-califfato”, piuttosto ci suggerisce semplicemente che ha riconosciuto internamente che esso non aveva né la capacità né la necessità di cucire il suo marchio nel Medio Oriente nello stesso modo in cui lo aveva fatto fino al 2018.

È stato un cambiamento che ha avuto l’effetto di inquadrare le branche dello Stato islamico dell’Iraq e della Siria come tali – rami. Essenzialmente, esse erano dequalificate: il loro status complessivo nel progetto di califfato globale alterato in un modo tale per cui esse erano “solo” parte della rete globale.

Visto attraverso gli occhi del fulcro centrale dello Stato islamico, l’espansionismo deve essere sempre compreso, almeno in parte, come un esperimento in una guerra guidata dalla narrativa. Dichiarando wilayat nel mondo, stava fissando una rivendicazione a nuovi territori mostrando di esserci non solo dopo le sue perdite in Siria ed Iraq, ma di essere in continua espansione.

La globalizzazione dello Stato islamico: i meccanismi

La globalizzazione dello Stato islamico aiuta il gruppo a costruire una profondità strategica e a gestire il rischio attraverso i suoi affiliati. Spingendo simultaneamente su molteplici fronti con un “inasprimento” asimmetrico e attacchi complessi più convenzionali, ha testato le capacità della coalizione globale e dei suoi affiliati locali in West Africa ed Est Asia. Allo stesso tempo, il fulcro centrale dello Stato islamico è pronto a capitalizzare il calo della pressione militare in Iraq e Siria.

Le attività in corso e sincrone degli affiliati aumentano la probabilità che ad un dato momento le risorse del controterrorismo occidentale terminino. Le operazioni degli affiliati e le comunicazioni connesse dal fulcro centrale attorno a questi successi operativi sono perciò un moltiplicatore di forze.

foto: CNN

Una prima tipologia di attività espansionista si è palesata nelle Filippine. Il gruppo Maute – Hapilon (una sub-fazione del gruppo Abu Sayyaf), che ha giurato alleanza allo Stato islamico nel 2014, ha ricevuto direttive strategiche e tattiche prima e durante l’assedio di Marawi e Mindanao nel 2017, incluso le “migliori pratiche” per la difesa urbana così come un esteso supporto remoto per la produzione di media e l’editing. Tuttavia, sebbene i jihadisti dai vicini Stati asiatici erano contati nei rangi Maute-Hapilon, nessuno effettivamente ha viaggiato dall’Iraq o la Siria.

In contrasto, in Nigeria, gli interventi dello Stato islamico erano inizialmente limitati, ma destinati a diventare più sofisticati agli inizi del 2015.

I quadri dello Stato islamico hanno iniziato a fornire assistenza al gruppo esternamente noto come Boko Haram (Jamaat Ahlussunnah lid-Dawa wal Jihad), che giurò fedeltà a Baghdadi e divenne Wilayat Gharb Ifriqiyya nella primavera di quell’anno, attraverso un Consiglio – in remoto – utilizzando tecnologie di comunicazioni internet criptate. Questo Consiglio era fondamentalmente relativo a questioni di giurisprudenza religiosa, che i militanti di Boko Haram entusiasticamente richiedevano a causa della carenza di iman addestrati nell’affiliato. Poi lo Stato islamico ha progredito il sostegno attraverso l’invio di un piccolo gruppo di consulenti per accrescere le competenze materiali dei nuovi sostenitori. Questo addestramento era centralizzato in un luogo sicuro nella foresta Sambisa nel Borno, sebbene alcuni disertori hanno fatto notare che i consulenti li accompagnavano anche nei combattimenti per valutare le loro tattiche, che erano descritte così improduttive da essere “come suicidi”. Questi stessi disertori rivelarono che furono allora ri-addestrati in piccole unità di manovra, con competenze anti-aeree e di manovra di veicoli corazzati. I consulenti li aiutarono a migliorare le qualità di operatori di media locali e nelle pratiche di sicurezza operativa dei leader chiave, facilitando anche i trasferimenti finanziari bimestrali attraverso i corrieri.

Un altro meccanismo di espansione è l’integrazione di jihadisti di esperienza nei ranghi locali, più raro degli altri. Tra il 2012 ed il 2014 lo Stato islamico ha proattivamente inviato foreign fighters dall’Asia centrale e del sud che aveva addestrato e indottrinato in Iraq e Siria verso i loro Paesi di origine per unirsi con frammenti di gruppi jihadisti locali, formando dei nuclei di quadri iniziali di Wilayat. Probabilmente la più chiara dimostrazione di questo è Abu Nabil al-Anbari come “leader delegato” delle province libiche nel 2014. Prima di questa nomina, Anbari era un comandante militare in Iraq. L’episodio in Libia nondimeno parla della sperimentazione della flessibilità e innovazione dello Stato islamico nel suo espansionismo globale.

Tensioni interne

Le dinamiche a trazione e pressione tra l’organizzazione centrale e i suoi affiliati producono frizioni, alcune delle quali possono provarsi fatali per la relazione. Lo Stato islamico perde un franchise a causa di differenze strategiche e metodologiche. Durante il suo primo tentativo di franchising nel 2012, l’allora leader Abu Bakr al-Baghdadi invia il suo vice Abu Ali al- Anbari in Siria per monitorare la sua startup siriana, Jabhat al-Nusra. Il pungente resoconto al suo capo mette in moto la spaccatura tra lo Stato islamico e Jabhat al-Nusra e il più consequenziale scisma tra lo Stato islamico e Al Qaeda. Da queste esperienze, la leadership dello Stato islamico ha identificato la necessità di una relazione più direttiva tra il punto centrale e la periferia della sua organizzazione.

Le frizioni tra il nucleo centrale e gli affiliati si sviluppano in tre aeree sensibili: la selezione e la guida dei leader, la correzione degli errori metodologici e la direzione strategica.

La gestione della leadership è importante per ogni organizzazione e la storia propria dello Stato islamico di gestione e transizione dei leader a tutti i livelli è stata una forza generale per il gruppo. Vi sono delle eccezioni rilevanti. Il reclutamento da parte dello Stato islamico di Boko Haram per diventare la provincia del West Africa e la seguente degradazione del suo leader carismatico, Abubakar Shekau, è alla radice della frattura del gruppo in due distinte fazioni, entrambe hanno giurato alleanza allo Stato Islamico. In Yemen, Afghanistan, Mindanao, lo Stato islamico ha fallito nel dispensare la sua dottrina di gestione della leadership. Ciò ha avuto l’effetto di minare la legittimità e la stabilità di quei franchise che lottavano per un rapido cambio dei leader a causa della scarsa selezione e delle inadeguate procedure di sicurezza.

Mentre la provincia Khurasan in generale appare imitare il punto centrale nei suoi attacchi contro la minoranza sciita hazara e con campagne di assassini urbane – più recentemente con obiettivo le donne che lavorano per i  mezzi di comunicazione – altri sono stati riluttanti nell’adottare le regole dello Stato islamico.

La provincia West Africa oltre a rifiutare la gestione della leadership da lontano, ha ignorato gli editti religiosi sull’abolizione dei bambini soldato e degli attentatori suicidi donne come combattenti regolari. Il gruppo ha anche fallito nello stabilire un esercito opposto all’utilizzo di milizie in maniera casuale, contrari ai consigli degli addestratori dello Stato islamico.

Da un punto di vista propagandistico, attraverso l’espansionismo globale, il movimento è in grado di mostrare esso stesso in continua offensiva, una percezione che è fondamentale se serve per stare al passo con le forze centrifughe del suo marchio e mantenere una coesione organizzativa.

Per questa ragione in particolare – il fatto che lo Stato islamico raccoglie gli enormi dividendi simbolici vantandosi delle sue province – che dobbiamo comprendere, con occhio critico, il suo globalismo.

L’Africa sub-Sahariana è stata per lungo tempo nel mirino di gruppi che avevano come obiettivo il jihad globale.

Con altre aree del mondo che ricevevano la porzione più grande dell’attenzione da parte delle forze di controterrorismo occidentali, sia Al Qaeda che lo Stato islamico hanno tratto vantaggio dall’opportunità di accrescere la loro presenza nella Regione.

L’Africa sub-Sahariana come Regione per lo Stato islamico è fondamentale perchè è proprio qui dove esso può raggiungere una vera e propria “capacità di successo” ovvero la capacità di generare e mantenere un alto tempo operativo per gli attacchi. Le province dello Stato islamico nell’Africa occidentale e nell’Africa centrale rispettivamente, hanno il potenziale di conquistare e mantenere territorio nel Sahel e lungo la costa sud est Swahili, in una maniera simile a quella che il fulcro centrale dello Stato islamico fu in grado di raggiungere in Iraq e Siria durante il suo picco.

L’attenzione dello Stato islamico spostata verso l’Africa sub-Sahariana dovrebbere essere vista come parte di una strategia deliberata in una Regione dove è molto più facile lavorare lungo e oltre le frontiere rispetto ad altre parti del mondo.

Con fondi per conflitti che consistono approssimativamente in 100 milioni di dollari, l’organizzazione manterrà la sua abilità di seminare nuove imprese e rafforzare le esistenti. Attraverso questo processo, quelli che una volta forse erano puramente gruppi locali, ora possono conquistare una dimensione transnazionale a differenti livelli. Anche se, fondamentalmente, sono guidati da preoccupazioni parrocchiali e rimostranze, gli affiliati dello Stato islamico possono evolvere e diventare più globali in natura. Diversi gruppi jihadisti africani hanno cambiato notevolmente il modo in cui combattono dopo essere diventati affiliati dello Stato islamico, in alcuni casi implicando sia miglioramenti tattici che evoluzione strategica. Questi gruppi sono ora capaci di lanciare operazioni molto più complesse e sono rappresentati di più nella propaganda dello Stato islamico.

Un esempio di questo è la Provincia dell’Africa centrale dello Stato islamico nota anche con l’acronimo inglese ISCAP – Islamic State Central Africa Province – la quale si è considerevolmente trasformata da quando è stata formalmente riconosciuta dallo Stato islamico nell’aprile del 2019.

All’inizio del 2020, gli estremisti violenti in Mozambico hanno iniziato ad operare in unità più grandi e a organizzare attacchi più sofisticati contro obiettivi di più alto profilo, come le capitali dei distretti. Alcune prove recenti ci suggeriscono che ISCAP sta adesso focalizzandosi più sul conquistare il cuore e la mente della popolazione nel nord del Mozambico. Una serie di attacchi nel marzo del 2020 hanno visto gli estremisti deliberatamente evitare vittime civili e distribuire il bottino di guerra – cibo rubato, medicine, carburante – ai residenti locali.

Un segno della crescente forza di ISCAP in Mozambico: i suoi militanti hanno preso il controllo della città portuale di Mocimboa de Praia – un obiettivo strategico – nell’agosto del 2020. Due mesi più tardi, i militanti ISCAP hanno lanciato degli attacchi transfrontalieri dal nord del Mozambico nel sud della Tanzania. Il devastante attacco nella città di Palma a marzo, che ha ucciso una dozzina di persone, ha alcuni degli elementi caratteristici dei classici attacchi dello Stato islamico, inclusa la decapitazione di stranieri e gli obiettivi di interessi economici occidentali. Ha forzato la sospensione di un progetto del gigante petrolifero francese Total del valore di 20 miliardi di dollari sul gas naturale liquefatto e le attività di esplorazione collegate ad esso.

Gli eventi degli ultimi due anni ci suggeriscono che gli affiliati africani dello Stato islamico non sono più un evento marginale al suo punto centrale operativo in Siria ed Iraq. Il fulcro centrale dell’organizzazione sia dipendente adesso più che mai sulle attività militari dei suoi affiliati nel continente.

E’ necessario prestare più attenzione, più da vicino, per vedere dove lo Stato islamico sta finanziando nuovi affiliati e dove le branche esistenti o le province stanno manifestando le loro capacità e abilità
migliorate in uno sforzo volto a tenere il califfato vivo.

Agosto 23 2021

Afghanistan: sperimentare non è trasformare

Afghanistan

L’Afghanistan è stato il luogo della sperimentazione degli approcci moderni di gestione della crisi: approccio globale, approccio integrato, civile-militare PRT, State-building. Lì come in Sahel.

Il bisogno è quello di una revisione strategica profonda.

La più grande minaccia alla stabilità dell’Afghanistan è stata l’inefficacia di molti di coloro che sono stati in posizione di potere nel governo afgano. Tali figure includono anche il nuovo capo della difesa di Kabul, Khan, che malgrado la sua reputazione come ufficiale militare capace è ben noto tra gli afgani per avere un ruolo centrale nella storia senza fine delle divisioni etniche all’interno delle forze di sicurezza e di difesa nazionale afgane.

Khan ha iniziato la sua carriera come un ufficiale, cresciuto molto velocemente attraverso i ranghi delle forze anti-sovietiche durante la prima guerra civile nel Paese negli anni 1990. Più tardi è diventato un confidente di Ahmad Shah Massoud, ed ha aiutato il leggendario “leone di Panjshir” a costruire l’Alleanza del Nord anti-talebana in un muro di resistenza nelle montagne del nord Panjshir. Come membro centrale del Consiglio di Supervisione militare (Shura-e Nazar) dell’Alleanza del nord, Khan era servito come principale collegamento militare per Kabul e  le province attigue di Parwan e Kapisa durante il combattimento per riprendere il Paese dai Talebani. Anni più tardi, quando l’uomo militare forte e Ministro della Difesa Mohammed Fahim, muore nel 2014, Khan diventa, de facto, il capo di una delle più importanti fazioni nell’esercito afgano – i resti dell’ambiguo Shura-e Nazar ed eredita il supporto di leader influenti dell’Alleanza del nord come Younus Qanooni, un ex Speaker della Camera Bassa del Parlamento afgano (Wolesi Jirga).

Infatti, furono i forti legami di Khan con l’Alleanza del Nord che lo hanno posizionato spesso in contrasto con il Ministro della Difesa afgano della prima era post-talebana, Abdul Rahim Wardak. Un uomo di etnia pashtun addestrato negli Stati Uniti, Wardak spesso favoriva i suoi pashtun per posizioni di comando, e la sua antipatia verso Khan era molto spesso fonte di frizione tra gli ufficiali. Per anni Khan e Wardak si sono scontrati su tutto, dalle nomine dello staff al materiale militare. Si sosteneva che le reti di fedeli di Khan ed il livello brigata e battaglione avessero potere assoluto sulle operazioni dell’esercito afgano.

Poi c’è il vice presidente Amrullah Saleh. Se c’è una persona che sicuramente ha fortemente sostenuto la nomina di Khan come Ministro della Difesa, questo è Saleh, ex traduttore inglese di Massoud e, per molti anni durante e dopo la morte di Massoud, capo della fazione dell’Alleanza del Nord in collegamento con la CIA. Saleh – che ad un certo punto in poi è stato a capo del Direttorato Nazionale della Sicurezza afgano, non ha mai nascosto la sua veemente antipatia per una riconciliazione con i talebani. Saleh detiene ancora una significativa influenza su fazioni chiave dei servizi di sicurezza afgani, e la sua mente, acutamente strategica, gli ha fatto guadagnare una considerevole quantità di rispetto e lealtà.

Diversi, recenti, improvvisi cambiamenti compiuti dal presidente afgano nei posti chiave della sicurezza segnalavano che la presa al potere di Ghani si stava indebolendo, mentre metteva in luce l’inefficacia delle figure influenti e di potere nell’era post-talebana.

La Cina

Il 28 luglio 2021, il Consigliere di Stato cinese e Ministro degli esteri Wang Yi hanno tenuto un incontro di alto profilo con una delegazione di nove talebani afgani, incluso il co-fondatore e vice leader Mullah Abdul Ghani Baradar. Wang ha utilizzzato l’incontro per riconoscere pubblicamente i talebani come legittima forza politica in Afghanistan, un passaggio che ha un significato straordinario per il futuro sviluppo del Paese.

Un esame accurato dei dettagli dell’incontro e lo storico degli impegni del governo cinese con i talebani rivela che la strada futura delle relazioni è lontana dall’essere certa. Non solo è indeterminata la fine del conflitto armato in Afghanistan, ma vi sono anche le questioni su quanto moderati attenzione! moderati nel loro essere estremisti- saranno i Talebani, che ha un enorme impatto sulla percezione dei funzionari cinesi dell’organizzazione. La Cina ha già visto disintegrare i propri precedenti investimenti in Afghanistan e, nel futuro, presterà molta attenzione ai passi da intraprendere.

Il percorso cinese in Afghanistan

  • 1993: 4 anni dopo dal ritiro delle ultime truppe dell’Unione Sovietica dall’Afghanistan e un anno dopo il collasso del regime comunista afgano, la Cina evacua la sua ambasciata.
  • Dopo che i Talebani prendono il controllo nel 1996, il governo cinese non ha mai stabilito una relazione ufficiale con quel regime. La natura fondamentalista dei Talebani, la loro associazione con e il nascondere al Qaeda, la loro discutibile relazione con i militanti Uighur, ha condotto i funzionari cinesi a vederli in modo negativo.

I funzionari cinesi hanno sviluppato una relazione con i Talebani in risposta al deterioramento della situazione di sicurezza in Afghanistan e ai cambiamenti degli equilibri di potere sul terreno.

  • 2015: la Cina ospita i colloqui segreti tra i rappresentanti dei Talebani e il governo afgano a Urumqi, la capitale della regione autonoma Xinjiang Uighur. Nel luglio del 2016 una delegazione dei talebani – guidata dal Sher Mohammed Abbas Stanekzai, l’allora rappresentante senior del gruppo in Qatar – visita Pechino.
  • Gli sforzi dell’ impegno cinese si sono intensificati nel 2019. Quando le negoziazioni tra i Talebani e gli Stati Uniti a Doha vacillavano nel settembre del 2019, la Cina ha cercato di riempire il vuoto invitando Baradar a partecipare alla due giorni di conferenza intra-afgana a Pechino. Era stata originariamente prevista essere il 29 e 30 ottobre di quell’anno. Fu postposta almeno due volte,  prima che la Cina e alla fine il mondo precipitassero nella crisi Covid-19. L’incontro non ha mai avuto luogo.
  • Nel giugno dello scorso anno, Baradar, diventato il capo dell’ufficio politico dei Talebani in Qatar – considerato come una figura moderata da parte dei funzionari cinesi – visita la Cina per incontri ufficiali sul processo di pace afgano e su questioni di contro-terrorismo.

La diplomazia dell’equilbrio cinese

Dedicando molta attenzione alla recente visita dei Talebani a Pechino, si è badato molto a ciò che è successo prima. Dodici giorni prima, il Segretario Generale Xi Jinping ebbe una conversazione telefonica con il Presidente afgano Ashraf Ghani. Xi enfatizzava il fermo sostegno della Cina al governo afgano per mantenere la sovranità della nazione, l’indipendenza e l’integrità territoriale.

La relazione tra Cina e Afghanistan è nata per necessità piuttosto che per preferenza.

Quandanche il fulcro centrale dei Talebani adottasse uno politica neutrale, o finanche amichevole verso la Cina, non è possibile presumere quanto questa posizione possa essere reale in ogni fazione all’interno del gruppo, ed è proprio questa una delle questioni più importanti da considerare.

Vi è stata una consistente disconnessione tra la retorica cinese che riguarda il potenziale economico dell’Afghanistan e l’attuale portata dei progetti commerciali cinesi nel Paese.

Nel 2019, l’ambasciatore cinese in Afghanistan ha sottolineato l’importante ruolo che l’Afghanistan può giocare nella Belt and Road Initiative così come nell’integrazione economica regionale Cina-Pakistan-Afghanistan. Nondimeno, il quadro roseo non è sostenuto dai dati attuali. Per i primi sei mesi del 2021, il totale dell’investimento cinese estero diretto in Afghanistan era solo di $2.4 milioni ed il valore dei nuovi contratti di servizi firmati semplicmente di 130.000 dollari. Ciò suggerisce che il numero di imprese cinesi e lavoratori in Afghanistan sta significativamente diminuendo. Per l’intero 2020, il totale dell’investimento estero diretto cinese in Afghanistan era di $4.4 milioni, meno del 3% di questo tipo di investimento in Pakistan, che era di $110 milioni per lo stesso anno.

La Cina ha visto bruciare letteralmente i suoi investimenti in Afghanistan. I suoi più importanti progetti:

Amu Darya: petrolio. Compagnia petrolifera di Stato cinese, la più grande, China National Petroleum Corporation.

Aynak: miniera di rame. Metallurgical Group Corporation anch’essa di proprietà dello Stato cinese e Jiangxi Copper Company Limited .

Entrambi hanno avuto un destino infausto. Le sfide hanno compreso scavi archeologici che hanno fermato il progresso della miniera di rame, minacce di sicurezza, la ri-negoziazione dei termini, così come le sfide di ricollocamento dei residenti locali. Tra queste, l’instabilità politica e le minacce alla sicurezza sono state le principali preoccupazioni. Fino a quando l’ambiente di sicurezza resterà instabile, la Cina è improbabile che avvii progetti economici imponenti in Afghanistan. La presenza delle truppe americane lì non era un fattore che ostacolava le attività economiche cinesi.

La Cina ha la capacità di giocare un ruolo più grande da un punto di vista economico nel Paese, ma la volontà di farlo emergerà solo quando vi saranno dei segnali di stabilità sostenibile. La Cina ha intrecciato una serie di legami bilaterali, trilaterali (Cina, Pakistan, Afghanistan) ed impegni multilaterali per incoraggiare tale stabilità. Se la stabilità non emerge nel prossimo futuro, la Cina molto probabilmente eviterà un profondo coinvolgimento economico.

La corruzione delle elites afgane e la loro assoluta disconnessione dalle vite delle persone ordinare in Afghanistan è stato il punto debole – irrilevante per la comunità internazionale – che ha lasciato spazio ai Talebani.

Quasi ovunque nel mondo il cosidetto Occidente ha sostenuto regimi soprattutto per proteggere se stesso da pericoli – percepiti – di ogni tipo o genere. Questo è il caso in molte parti dell’Africa, in posti come Mali, Mozambico dove elite incassano felicemente gli assegni dei governi occidentali per combattere l’estremismo violento islamico o prevenire l’emigrazione verso l’Occidente.

L’azzardo morale si accumula quando il lavoro di coloro che sono al governo diventa sempre più quello di mantenere il loro privilegio, grado e opportunità attraverso la corruzione. L’uomo e la donna ordinari che sono in prima linea per combattare la minaccia dichiarata dell’Islam radicale guardano a queste persone e si chiedono: perchè devo morire per questa massa di ladri?

Quali interrogativi porsi

La prima, e più immediata domanda da porsi è come gli odierni Talebani siano in confronto a coloro che hanno governato l’Afghanistan dal 1996 al 2001. Il leader del gruppo insiste che sono cambiati, ma l’esperienza suggerisce che potrebbe essere più uno schema, un piano per mantenere “la pace” fino a quando non consolidano il potere.

Il gruppo sta affrontando una resistenza poco visibile finora, ma l’opposizione ai Talebani è significativa in Afghanistan. Il Paese scivolerà nella guerra civile? Se così fosse, attirerà forze dall’esterno? L’Afghanistan rischia di diventare un failed State, con una nuova serie di ripercussioni globali e regionali?

Quello che accade in Afghanistan, come ha imparato il mondo due decadi fa, non resta in Afghanistan. Un risultato immediato del ritorno dei Talebani è il disperato sforzo di moltissimi afgani di lasciare il paese. In aggiunta alla tragedia umana, quello che emerge è una questione geopolitica. Quale impatto i grandi flussi di rifugiati avranno sulla politica dei vicini immediati dell’Afghanistan e più in là fino in Europa? Il caso della Siria ci ha mostrato come i rifugiati sono diventati pedine delle politiche locali, fondamentalmente un dono ai demagoghi nazionalisti.

Un’altra domanda chiave riguarda la vera ragione che ha portato la NATO in Afghanistan nel 2001: estremismo violento (terrorismo). I Talebani permetteranno che il loro paese diventi ancora una volta un paradiso per tali gruppi? I Talebani hanno già liberato migliaia di prigionieri incluso membri di Al Qaeda: la loro ideologia si mescola perfettamente con quella di altri gruppi estremisti islamici e dal momento che devono affrontare un’inserruzione interna, li renderà molto più che disponibili ad accogliere estremisti dall’esterno con la stessa ideologia.

Poi vi è la questione di come la salita al potere dei Talebani influenzerà la Regione.

In aggiunta ai flussi migratori, la Regione ora deve affrontare un vicino imprevedibile. Già la Cina e la Russia, per non menzionare il Pakistan, sponsorizzano da tempo i Talebani ed hanno forgiato i legami con i Talebani. La Cina si preoccuperà dei Talebani che ospitano i militanti Uyghur, come hanno fatto in passato, fomentando il malcontento nello Xinjiang. Similmente Mosca si preoccuperà dei legarmi tra gli afgani radicali e gli estremisti islamici in Russia.

I governi in Iran, Turchia e nel resto della Regione, quella dei Talebani resta una una prospettiva spinosa in un Paese instabile. Gli sciiti in Iran, in particolare, dovranno intraprendere i propri passi molto attentamente nel discutere con il gruppo radicale sunnita.

Per adesso ci sono molte più domande che risposte. L’unica certezza è che gli eventi di questi giorni influenzeranno e trasformeranno milioni di vite e si ripercuoterà per anni a venire.

Maggio 21 2021

Israele-Palestina: osservare e non guardare

Osservare conflitto israelo-palestinese
  • Il consolidamento del controllo di Israele sui palestinesi, che ha impedito una soluzione a due stati;
  • il consenso all’espansionismo israeliano da parte della Comunità internazionale, incluso da parte di quei quattro paesi che hanno “normalizzato” le relazioni con Israele: gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein, il Marocco e il Sudan

hanno reso più facile per Israele perseguire politiche massimaliste che impediscono ogni tipo di risoluzione di lungo termine.

Tutto ciò, dall’altra parte, ha sensibilmente eroso la qualità di vita dei palestinesi sia nei territori occupati che in Israele stesso.

Mi sembra che sia opportuno ricordare che, durante le ostilità aperte, a Gaza, i civili sono coloro che vengono maggiormente colpiti dai bombardamenti israeliani a prescindere dalla circostanza che siano intenzionalmente un obiettivo.

La striscia di Gaza

Un territorio piccolo, ma altamente popolato, catturato da Israele dall’Egitto nel 1967. L’Egitto non rivendica più che sia suo territorio, ma l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina non lo considera parte dello Stato di Palestina, dal momento che esso è popolato quasi interamente da arabi e non è mai stato parte di Israele. Mentre la Striscia di Gaza era una volta divisa tra controllo palestinese e israeliano come a West Bank, nel 2005 Israele è andato via completamente lasciando questo territorio sotto la giurisdizione dell’Autorità palestinese.

Nella guerra civile del 2007 tra le fazioni palestinesi che combattevano nella striscia di Gaza, con la fazione di Hamas che aveva preso completamente il territorio dalle forze di Fatah.

Differenze tra Hamas e Fatah

Laddove Fatah – fondata da Yasser Arafat – ha un orientamento secolare e nazionalista, Hamas si definisce come un “movimento islamico palestinese nazionale di liberazione e resistenza” e utilizza l’Islam come la propria cornice di riferimento per governare. Un’altra importante differenza riguarda le loro rispettive visioni su come resistere all’occupazione israeliana. Mentre Hamas persiste nel sostenere la resistenza armata, Fatah ha adottato una strategia di negoziazione.

In ragione del rifiuto di Hamas di accettare l’esistenza di Israele ovvero di porre fine agli attacchi contro obiettivi israeliani (Israele li considera un gruppo “terrorista”), Israele e l’Egitto, alleato odierno, hanno mantenuto – da allora – un blocco nella striscia di Gaza controllando severamente chi e cosa attraversa le frontiere e alle volte chiudendo completamente tutte le uscite e tutte le entrate.

Sebbene la Striscia di Gaza sia quasi interamente sotto la governance di Hamas, l’esercito israeliano in realtà controlla una zona buffer di 100-300 metri giusto all’interno del territorio di frontiera con Israele.

I diritti umani, civili e politici?

Tra le guerre, la vita a Gaza è invivibile. Fin dalla prima intifada, o rivoluzione, nel 1987, i diritti dei palestinesi –misurati in potere politico, autodeterminazione, prospettive economiche, diritti fondamentali come la libertà di movimento – sono diminuiti in modo costante.

Uno sguardo più ampio ci suggerisce una tendenza simile per i diritti nella Regione. Ai nuovi partner arabi di Israele sembra non importare il suo approccio deumanizzante per pacificare il dissenso palestinese. Infatti, la politica israeliana s’incastra con l’approccio che le monarchie del Golfo hanno intrapreso verso i diritti politici e civili dei loro cittadini, vale a dire di privazione dei diritti.

La Regione ha subito uno spostamento geopolitico . Tre monarchie arabe: Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco, hanno “normalizzato” le relazioni con Israele tra il settembre ed il dicembre del 2020. L’Arabia Saudita sostiene lo spostamento regionale anche se non si è ufficialmente, ancora, schierata. Queste monarchie, che per lungo tempo si sono infatuate della tecnologia israeliana di droni e sorveglianza , adesso cercano di tenere salde le alleanze di sicurezza con Israele in vista della loro rivalità condivisa con l’Iran. Più importante, in aggiunta a questa visione comune che l’Iran deve essere confrontato con la forza piuttosto che essere gestito, ciò che si ricava delle recenti normalizzazioni condivide con Israele una visione elastica dei diritti civili e politici.

Il crescente autoritarismo nella Regione è in mostra anche tra coloro che rivendicano di sostenere i palestinesi. I membri del cosidetto “asse della resistenza”, che comprende Iran, Siria ed Hezbollah, oppone Israele, ma condivide una fosca storia di oppressione, violenza e autoritarismo. Tale asse afferma di voler porre fine al controllo di Israele sulla Palestina, ma è ostile ai diritti civili, giuridici e politici che permetterebbero ai palestinesi di governare essi stessi democraticamente.

La posizione degli Stati Uniti

Una differenza evidente in questo ciclo di violenza è visibile nella copertura mediatica e nei commenti negli Stati Uniti, il cui tono, non completamente critico dello status quo degli Stati Uniti in sostegno di Israele.

Israele si è costantemente insediato nei territori che ha conquistato e occupato attravero la guerra con i suoi vicini. Allo stesso tempo ha relegato i suoi cittadini arabi, che rappresentano 1/5 della popolazione israeliana in uno status di seconda classe, sempre più umiliante.

Durante la presidenza Clinton, gli Stati Uniti hanno cercato con esitazione di negare il denaro dei generosi pacchetti di aiuto annuali per Israele per evitare di sovvenzionare i suoi insediamenti a West Bank, ma, alla fine, hanno sborsato la maggior parte dei soldi per poi commentare ben poco gli insediamenti stessi.

Barack Obama ha costruito sul “congelamento degli insediamenti” una forte e centrale posizione della sua amministrazione, affinchè si giungesse ad una soluzione negoziata di due-stati, ma le sue ripetute richieste sono state respinte decisamente da Israele con nessun impatto negativo sulla magnificenza americana.

Washington ha recentemente fornito assistenza ad Israele ad un ritmo di circa 3 miliardi di dollari all’anno.

Israele riceve una così generosa assistenza malgrado il suo alto livello di sviluppo economico. Ancora più eccezionale è che gli Stati Uniti compiano così pochi sforzi per esercitare un’influenza politica.

Tutto ciò considerato, Washington, piuttosto che aiutare il suo caro amico, con le non-risposte unitamente al sostegno incondizionato per Israele, hanno solo reso questa situazione molto pericolosa, ancora peggiore.

Durante l’amministrazione Trump, Washington ha iniziato anche a pretendere che i palestinesi potessero essere immaginati fuori dalla realtà politica. Trump ha riconosciuto ufficialmente Gerusalemme come la capitale di Israele, trascurando le rivendicazioni palestinesi sulla città, e l’ha fatto senza chiedere alcun impegno da parte di Israele sui futuri insediamenti o per i diritti degli arabi, sia che vivessero nei territori occupati, sia in Israele come cittadini.

L’amministrazione Biden ha sorpreso molti osservatori per l’audacia di alcune delle sue politiche. Sulla crisi israelo-palestinese, ha agito come se sia persuasa che mettendo la testa sotto la sabia, la tensione esplosiva in qualche modo si riduca.

Washington oggi si nasconde dietro dichiarazioni stranamente cieche, o frasi di rito come “Israele ha diritto all’autodifesa”. Pretendere che il problematico comportamento di Israele, sia nelle recenti settimane, che da molti anni a questa parte, non abbia niente a che fare con l’esplosione della violenza, non aiuta nessuno.

Non esiste una chiave magica che sia in grado di risolvere questi problemi, ma sicuramente ogni tipo di soluzione, per quanto difficile, deve abbandonare un linguaggio schierato per denunciare l’estremismo impostato solo verso una parte dell’equazione. Sì, Hamas è violento e anche sconsiderato, ma così come molti degli elementi ultra-conservatori nella società israeliana che hanno giocato un ruolo sempre più grande nella politica del paese nelle due decadi passate.

La loro spinta per una infinita espansione degli insediamenti, per una graduale destituzione dei palestinesi, sia economicamente che politicamente, manca del fuoco dei razzi, ma è in ogni piccola parte come un esplosivo.

La guerra può assumure ogni tipo di forma, ma la sua ultima incarnazione del conflitto punta ad un buio sempre più profondo e ad un pericolo esistenziale. Parliamo della violenza comunitaria che è scoppiata nei giorni recenti nelle strade di posti come Haifa, Lod, Lydda per i suoi residenti arabi. Ciò differisce molto dalla violenza tra Stati e attori non-statali, perchè scorre nella vero tessuto di una società.

Maggio 18 2021

Hamas: origini e obiettivi

Hamas

Hamas (In arabo: حماس‎‎ Ḥamās, un acronimo di حركة المقاومة الاسلامية Ḥarakat al-Muqāwamah al-ʾIslāmiyyah) significa movimento di resistenza islamica – Islamic Resistance Movement-.

Hamas: le origini

Formato nel tardo 1986 all’inizio della prima intifada palestinese. Le sue radici si trovano nel braccio palestinese dei fratelli musulmani; sostenuto da una robusta struttura socio – politica  all’interno dei territori palestinesi. Il gruppo, in sostanza, fu stabilito per fornire un veicolo per i fratelli mussulmani nel violento confronto contro Israele, senza esporre la Fratellanza e le sue ampie reti sociali e istituzioni religiose alla rappresaglia israeliana.

Obiettivi

La Carta del gruppo richiama alla creazione di uno stato palestinese islamico al posto di Israele, rifiutando tutti gli accordi fatti tra il movimento di liberazione palestinese (OLP) ed Israele. La carta di Hamas definisce la storica Palestina, incluso l’Israele odierno, come una terra islamica ed esclude ogni possibilità di pace permanente con lo stato ebreo.

Hamas
foto: www.forward.com

Originariamente il gruppo aveva due obiettivi: condurre una battaglia contro Israele (attraverso il suo braccio armato) e fornire programmi di benessere sociale. Dal 2005, tuttavia, si impegna nel processo politico palestinese.
I suoi sostenitori lo vedono come un movimento di resistenza legittimo. Nel 2006, Hamas vince sorprendentemente le elezioni nel Consiglio Legislativo Palestinese, ma le tensioni con la fazione rivale: Fatah si acuiscono. Scontri mortali tra i due gruppi nel giugno del 2007, dopo che Hamas stabilisce un governo rivale, fanno sì che Fatah e l’autorità palestinese gestiscano parti di West Bank non sotto il controllo israeliano.

Perché Hamas usa gli attacchi suicidi?

Hamas si mette in rilievo dopo la prima intifada come il principale oppositore palestinese agli accordi di pace di Oslo tra Israele e l’OLP.
Malgrado numerose operazioni israeliane contro il gruppo e i provvedimenti restrittivi dell’Autorità Palestinese, Hamas crede fermamente che lanciando attacchi suicidi possa avere un efficace potere di veto su tutto il processo di pace.  Ne riportiamo un esempio: febbraio e marzo 1996: attacchi suicidi sugli autobus, con quasi 60 civili israeliani uccisi, in rappresaglia dell’assassinio nel dicembre del 1995 del fabbricatore di bombe: Yahya Ayyash. Per ciò il gruppo fu ritenuto responsabile di aver provocato un cambiamento di rotta di Israele verso una possibile uscita dal processo di pace e aver portato Benjamin Neatanyahu, grande oppositore degli accordi di Oslo, al potere.

Molti palestinesi acclamarono l’ondata di attacchi suicidi di Hamas nei primi anni della seconda intifada. Essi vedevano il martirio come vendetta per le loro perdite e per la costruzione di insediamenti israeliani a West Bank, voluto dai palestinesi come parte del loro stato.

Struttura della leadership

Hamas

Il gruppo comprende tre “cicli di leadership”. Il primo consiste di leader locali all’interno di West Bank e Gaza. I più famosi: lo sceicco Ahmed Yassin e Abdul Aziz Rantisi che sono stati uccisi da Israele negli anni recenti. Il secondo ciclo include la leadership esterna del gruppo: un bureau politico che include Khaled Mashal e Mousa Abu Marzouk. Il terzo ciclo consiste nella leadership internazionale del movimento globale dei Fratelli Musulmani, che comprende prominenti figure dei Fratelli Musulmani, come Muhammad Akef e Yusuf al – Qaradawi. Questi tre cicli hanno, ognuno, differenti sfere di responsabilità. I due circuiti interni ed esterni giocano un ruolo centrale nella determinazione della strategia di Hamas, delle operazioni terroristiche contro Israele, e il finanziamento di queste attività. Il circuito più interno è maggiormente responsabile per le questioni quotidiane della vita palestinese e costruisce la postura politica di Hamas nei territori attraverso le sue battaglie contro la corruzione ed il supporto per le attività sociali; il circuito più esterno mantiene contatti con i sostenitori internazionali e i finanziatori, incluso le leadership di altre organizzazioni  islamiche e l’Iran.

Composizione

Ha un’ala militare conosciuta come Izz al-Din al-Qassam Brigades che ha condotto molti attacchi anti israeliani sia nei territori palestinesi che in Israele. Questi attacchi hanno incluso una vasta scala di bombardamenti contro obiettivi civili israeliani, attacchi con esplosivi improvvisati sulle strade e attacchi missilistici.

Hamas è composto da elementi amministrativi, caritatevoli, politici e militari, che a loro volta si articolano in altre piccole strutture. Ogni regione è composta da “famiglie” e branche, che rispondono ad un centro amministrativo. I membri di Hamas si raggruppano attorno a quattro categorie generali: intelligentsia, sceicchi (leader religiosi), giovani candidati alla leadership ed attivisti.
Il ramo intelligence realizza sei direttive: sorveglianza degli spacciatori di droga, punisce coloro che sono colpevoli di tradimento, prostituzione o di vendere narcotici; distribuisce le informazioni del gruppo in volantini; pubblicizza le politiche di reclutamento di Israele e le politiche per la collaborazione e avverte la popolazione contro la complicità; gestisce il supporto logistico per l’organizzazione. Monitora anche i crimini nei territori: le attività criminali sono tollerate perché permettono un ampio terreno per il reclutamento di informatori.
Le unità commando hanno 4 obiettivi principali: stabilire le famiglie (usar) e cellule “segrete”; raccogliere informazioni sui militari israeliani; condurre operazioni militari, incluso il rapimento di soldati nemici. I fondatori di Hamas hanno creato, inoltre, altre branche che sono costantemente in contatto tra di loro, ma compiono le loro funzioni all’esterno. Al- Maktab al – I’lami e al – Maktab al – Siyassi: rispettivamente l’ufficio informazioni e politico.
L’ufficio informazione è situato in Giordania, responsabile per la preparazione e la disseminazione di tutti i comunicati stampa che riguardano le dichiarazioni politiche di Hamas. Diffonde anche pubblicazioni in nome di Hamas. L’ufficio politico si occupa delle relazioni estere di Hamas e rappresenta l’organizzazione alle conferenze ed incontri che hanno a che vedere con gli affari palestinesi.

Hamas dov’è?

La forza di Hamas è concentrata nella striscia di Gaza e nelle aree di West Bank.

Supporto e finanziamento

Ci sono numerosi attivisti musulmani che simpatizzano con Hamas, ma si ha una conoscenza limitata circa le loro operazioni. Alcuni di loro forniscono supporto materiale o morale al ramo politico del gruppo. La maggior parte dei fondi di Hamas e gli sforzi sono diretti verso l’assistenza alla popolazione. Hamas gestisce la miglior rete di servizi sociali nella striscia di Gaza. Strutturato e ben organizzato, il gruppo gode di fiducia perché viene percepito come meno corrotto e soggetto al clientelismo (patronage) di altre attori nazionali secolari, specialmente Fatah.  In aggiunta alle donazioni e alla zakat (una tassa obbligatoria del 2,5% dei guadagni di ogni musulmano), attraverso i comitati locali, i sostenitori del gruppo creano piccoli progetti finalizzati a generare piccoli guadagni per permettere un’auto – sufficienza. Ad esempio, la produzione di miele, di formaggio, la manifattura in casa di vestiti . Ed infine destinano una considerevole porzione delle loro risorse per assistere i giovani palestinesi.
Sebbene sia stato scritto molto sulla connessione iraniana e/o saudita con il gruppo, ci sono piccole evidenze sostanziali che corroborano queste affermazioni. Durante i primi anni della rivolta, giornalisti identificarono Hamas come un gruppo islamico appoggiato dai sauditi. L’affermazione che i fondi di Hamas arrivano primariamente da Teheran è iniziata nel 1989, quando Israele per primo decise che il gruppo era una seria minaccia alla sicurezza. Tra i gruppi che hanno esteso l’assistenza ad Hamas ci sono organizzazioni islamiche nel continente indiano, fazioni islamiche in Turchia, Malesia, Afghanistan.

Principali operazioni militari di Israele contro Hamas

Israele ritiene responsabile Hamas di tutti gli attacchi che si generano nella striscia di Gaza e conduce tre campagne militari a Gaza: Operation Cast Lead nel dicembre del 2008, Operation Pillar of Defence nel novembre del 2012 e Operation Protective Edge nel luglio del 2014.
Dai conflitti dal 2008 al 2012 il gruppo emerge militarmente degradato ma con un rinnovato supporto tra i palestinesi a Gaza e West Bank per essersi confrontato con Israele ed essere sopravvissuto.

Hamas continua la sua battaglia malgrado un blocco congiunto imposto su Gaza da Israele e dall’Egitto, diventando sempre più isolato. La caduta di un alleato chiave: il presidente egiziano Mohammed Morsi, nel luglio del 2013 costituisce un ulteriore colpo. Nell’aprile del 2014 con un accordo di riconciliazione con Fatah  forma un governo di unità nazionale.

Chi lo ha inserito nelle lista di organizzazioni terroristiche?

Hamas è designata come organizzazione terroristica da Israele, Stati Uniti, Unione Europea, Canada e Giappone.

Hamas potrà diventare un gruppo moderato?

Molti si chiedono se Hamas possa o meno diventare moderato. Hamas sicuramente mostrerà una flessibilità tattica nel suo approccio alla governance, ma è molto improbabile che cambi qualsiasi dei suoi aspetti di strategia fondamentale. Del resto Khaled Mashal ha dichiarato in diverse occasioni il principale rifiuto di Hamas del diritto di Israele di esistere, in ogni misura, in ogni frontiera.

Maggio 15 2021

Il cuore contestato dell’identità palestinese

identità palestinese

Contestare non semplicemente un’identità, ma il suo cuore, il punto più vicino al sé di ciascun individuo, non si può ridurre ad un “noi-contro-loro”, ad una netta demarcazione tra i “buoni e i cattivi”. I conflitti di identità e la violenza che ne deriva possono essere condotti alla riconciliazione, processo lento, ma capace di far convivere due identità nello stesso spazio territoriale.

Quello che sta accadendo tra le forze israeliane e militanti palestinesi nella Striscia di Gaza il più pesante scambio di fuoco dalla guerra di Gaza nel 2014.

Il conflitto accade dopo una serie di tensioni che si sono intensificate a seguito della sentenza – ora postposta – della Suprema Corte israeliana sulla circostanza per cui sei familie palestinesi possono essere sfrattate dalle loro case nello storico quartiere Sheikh Jarrah ad Est di Gerusalemme per fare posto ai coloni israeliani.

Il caso è stato la scintilla di proteste di massa quotidiane, che spesso sono diventate violente quando la polizia israeliana ha, con la forza, disperso la folla.

Così come il più ampio conflitto israelo-palestinese, la disputa che ha generato il recente picco di violenza ha delle profonde radici storiche.

Il quartiere di Sheikh Jarrah, come altri nella Gerusalemme Est, è stato oggetto di disputa tra i palestinesi e gli ebrei per secoli. Nel 1956 la Giordania, che allora governava West Bank e Gerusalemme Est, costruì delle case a Sheikh Jarrah per ricollocare 28 famiglie che erano state espulse dalle loro case dalle milizie sioniste durante la guerra del 1948 che culminò con la creazione dello Stato di Israele. I palestinesi si riferiscono alla dislocazione di massa che ne risultò con il termine nabka vale a dire catastrofe. Negli anni 1960 i giordani accordarono di garantire atti ufficiali di proprietà della terra ai palestinesi residenti a Sheikh Jarrah dopo un periodo di tre anni, ma l’accordo fu interrotto dalla guera dei sei giorni nel 1967 che vide Israele occupare West Bank e Gerusalemme Est.

Da allora, palestinesi residenti sono stati sfrattati dalle loro case a Gerusalemme Est. Alle famiglie palestinesi è stato ordinato di lasciare Sheikh Jarrah nel 2002, 2009, 2017. Lo scorso novembre, la Corte Suprema israeliana ha stabilito che 87 palestinesi dovevano essere rimossi dal quartiere Silwan, giusto fuori la vecchia città. Il caso era stato sottoposto al giudizio della Corte da un gruppo di coloni israeliani che hanno citato in giudizio i residenti palestinesi, accusandoli di vivere sulla terra ebrea.

La crisi odierna si colloca in un momento in cui sia Netanyahu che il Presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas, sono sottoposti ad un’enorme pressione politica. Il primo è parte di un processo in cui è accusato di corruzione, alla guida un governo provvisorio. I partiti di opposizione stanno cercando di formare una coalizione per sostituirlo, dopo la quarta elezione – a marzo – in due anni. Netanyahu potrebbe puntare sul fatto che una risposta eccessiva da parte di Hamas aumenterebbe le sue probabilità di vittoria e riuscirebbe a raccogliere un maggiore sostegno tra gli israeliani di destra, così come tra i moderati che non guardano di buon occhio la violenza. Un conflitto prolungato potrebbe seminare discordia tra i suoi oppositori così diversi ideologicamente.

Abbas, da parte sua, ha scatenato un putiferio nel tardo aprile quando ha sospeso le programmazioni per le prime elezioni palestinesi in 15 anni. Perseguitato da accuse di corruzione e di malgestione, può, ragionevolmente, nutrire timore che sia rimosso in favore di Hamas.

L’odierna situazione potrebbe contenere un vantaggio politico per lui: fino a quando le bombe continueranno a cadere a Gaza, i palestinesi potrebbero distanziarsi da Hamas e dalla sua posizione aggressiva verso Israele. Alternativamente, una rapida fine della violenza potrebbe promuovere l’immagine di Hamas e dipingere Abbas come non desideroso di prendere posizione contro l’aggressione israeliana. In ogni caso, il combattimento implica che il potenziale per un governo di unità palestinese si allontana sempre di più.

La geopolitica della Regione

Il supremo leader iraniano ha invitato i palestinesi a rispondere alla “brutalità” israeliana asserendo che gli israeliani “capiscono solo il linguaggio della guerra“. Questo linguaggio instigatorio potrebbe ispirare i proxy iraniani in Libano e in Siria all’azione, aggiungendo un’altra dimesione al conflitto. Potrebbe anche diventare un punto da introdurre nei colloqui iraniani con l’Arabia Saudita il cui obiettivo è di diminuire le tensioni tra i due rivali. L’Arabia Saudita stessa si è accostata, per mesi, sempre di più ad Israele, ma potrebbe ora dover affrontare una reazione interna negativa per questi sforzi.

Una domanda che ci si potrebbe porre è: cosa cerca di ottenere politicamente Hamas?

La strategia di estorcere concessioni ad Israele attraverso un uso della forza calibrato è realmente iniziata dopo il 2017, quando un ufficiale di Hamas Yahya Sinwar diventa il leader politico a Gaza. La sua guida produce una significativa deviazione della politica israeliana verso il gruppo.

Sinwar ha quasi perso il suo posto nelle elezioni interne di Hamas lo scorso marzo, un segno tangibile del malcontento verso di lui. L’uomo forte di Gaza ha bisogno di confrontarsi, attraverso le urne, con un rivale della vecchia guardia – visto come più tradizionale e radicale – per essere certo di prevalere. La perdita di consenso all’interno del gruppo è divenuta palese la scorsa settimana, quando il comandante militare – ombra – Mohammed Deif e non Sinwar diffonde gli ultimatum a Israele su Gerusalemme.


Gerusalemme, certamente, è stata sempre al cuore dell’identità palestinese, ma nelle recenti settimane lo stato della città contestata ha acquisito, se possibile, una dimensione di maggiore criticità.

Funzionari della sicurezza nazionale israeliana accusano Hamas di aver contribuito ad un’ulteriore intensificazione delle proteste a Gerusalemme nel tentativo di destabilizzare non solo il controllo di Israele sulla città, ma anche l’Autorità Palestinese di Abbas nell’attigua West Bank – un obiettivo di lungo termine del gruppo.

Gli ultimi combattimenti Hamas-Israele unitamente alla violenza comunitaria arabo-israeliana potrebbero vanificare le speranze di riconciliazione. Le fazioni islamiste arabo-israeliane hanno temporaneamente sospeso i colloqui di coalizione per la crisi di sicurezza e i leader di opposizione si sono schierati in sostegno al governo.

Quando questi ultimi cicli di violenza finiranno – e sicuramente finiranno – niente sarà cambiato eccetto il numero di morti da entrambe le parti ed il bisogno per coloro che vivono nella Terra Santa, di vivere con la consapevolezza che nessuno tenterà di contestare la loro identità più vicina al sé. Tale necessità non farà altro che crescere più acutamente, tra chi si vuole guardare solo la violenza e non la radice di essa e chi si gira dall’altra parte perché la propria identità vive al sicuro.