Ve la ricordate la guerra civile in Siria? Avete più letto o ascoltato notizie da questo – bellissimo – Paese?
La guerra civile siriana ha decimato la Siria per 9 anni e ora pare che il conflitto stia inesorabilmente volgendo ad una conclusione.
Il Presidente Bashar al-Assad, con l’aiuto dell’Iran e della Russia, sembra essere emerso militarmente vittorioso dal conflitto.
La crisi in Siria è veramente finita?
La guerra civile siriana che ha decimato il Paese per nove anni, provocando una crisi umanitaria regionale e attirando attori dagli Stati Uniti alla Russia, pare che stia inesorabilmente volgendo ad una conclusione.
Il presidente Bashar al-Assad con il sostegno dell’Iran e della Russia, sembra essere emerso militarmente vittorioso dal conflitto iniziato dopo che il suo governo ha represso violentemente le proteste nel 2011. La ribellione armata che ne è seguita presto si è trasformata ina guerra proxy globale e regionale che, al punto più alto dei combattimenti, vedeva i gruppi estremisti islamici prendere il controllo di vaste porzioni del Paese, solo per perderle poi a seguito delle contro-offensive sostenute dalle forze pro-governative e dagli eserciti occidentali capeggiati dagli Stati Uniti. Il combattimento non è ancora totalmente concluso, con la regione nord-occidentale di Idlib che resta al di fuori del controllo governativo. Agli inizi del 2020, l’operazione dell’esercito siriano sostenuto dai russi per riprendere Idlib da ciò che rimaneva dei gruppi di opposizione armati concentrati lì, si è scontrata con le forze turche che erano state dispiegate per proteggere le milizie di Ankara. Gli scontri sono stati un vero e proprio promemoria: il conflitto, sebbene sembrasse nelle sue fasi finali, potrebbe ancora intensificarsi in una conflagrazione regionale. Anche la situazione nel nord est resta volatile a seguito della rimozione delle forze americane dalla frontiera con la Turchia, con le forze turche, siriane, russe, tutte ora dispiegate nella Regione, unitamente ai proxy e alle milizie curdo-siriane. Il ritorno ai combattimenti di alta-intensità ad Idlib ha creato un’altra crisi umanitaria, inviando ondate di rifugiati verso la frontiera turca e aggiungendo alla guerra un già sconcertante costo umanitario. Si stima che il numero dei morti sia di 400,000 persone, ma potrebbe essere, in realtà, molto più alto.
In vari punti del conflitto, più della metà della popolazione del Paese è stata dislocata: 5,6 milioni di persone hanno lasciato la Siria dal momento che è iniziata la guerra, stabilendo una considerevole tensione nei Paesi confinanti così come in Europa. Anche se il conflitto diminuisce, non è chiaro quando o se saranno in grado di tornare.
Quando alla fine il combattimento arriverà ad una fine, Assad dovrà affrontare la sfida di ricostruire il Paese, incluso le aree dove presumibilmente ha impiegato le armi chimiche contro i suoi stessi cittadini.
La questione di chi paga il conto rimane aperta.
Trump è stato sempre entusiasta di distanziare gli Stati Uniti dalla situazione in Siria, i Paesi europei detestano lavorare con Assad, Mosca è improbabile che si faccia carico della ricostruzione che le Nazioni Unite hanno stimato ammontare a circa 250 miliardi di dollari.
Potenze esterne e coalizioni
La Siria inizia a sbiadirsi dall’agenda internazionale. Sebbene la Russia e la Turchia restino attivamente impegnate, l’interesse è in calo tra altri attori, incluso gli Stati Uniti – un cambiamento marcato, istrionico, rispetto alle prime fasi del conflitto, quando la Siria è servita come campo di battaglia proxy, allo stesso modo, per potenze locali e globali. Mosca non appare interessata a cedere la sua influenza, sebbene non sia chiaro quanta il Cremlino ne abbia su Assad.
La pandemia da covid-19 ed il conseguente crollo economico dominano i mezzi di comunicazione e la guerra civile in Siria è svanita nell’oscurità dell’informazione.
Pur tuttavia cattive notizie che provengono proprio dalla Siria giustificano l’attenzione mondiale.
L’operazione militare turca nella provincia nordoccidentale della Siria: Idlib, rischia un conflitto con la Russia, protegge i ribelli estremisti violenti islamici e prolunga la guerra civile, tutto a spese dei civili turchi che rivendicano di proteggere. Nel frattempo, l’accordo di cessate-il-fuoco limitato che Ankara ha recentemente negoziato con Mosca ritarda soltanto un ulteriore spargimento di sangue. Gli Stati Uniti non hanno interessi di sicurezza in gioco in Siria, invece di sostenere la Turchia e quindi prolungare la guerra, Washington dovrebbe utilizzare l’influenza diplomatica con il presidente Erdogan ed il suo governo per indurlo ad un accordo che blocchi ciò che resta dei gruppi estremisti violenti islamici in Siria, prevenendo un ulteriore intensificazione militare e limitando la violenza contro i civili.
Il curriculum turco in Siria non è promettente. Ha sostenuto i ribelli anti-Assad almeno fin dall’inizio della guerra civile, ma queste milizie sono state gradualmente respinte dalle forze governative siriane, rendendo Idlib uno degli avamposti ribelli residui in Siria. Secondo i termini di un accordo di cessate-il-fuoco del 2018 con la Russia, la Turchia doveva assicurare una “zona di diminuzione del conflitto” a Idlib, dove i soldati turchi avrebbero vietato l’accesso ad armi pesanti e ai militanti estremisti e fatto in modo che i ribelli riaprissero le principali arterie stradali nell’area. Quasi niente di tutto ciò è accaduto. La Turchia ha permesso ad un ramo di Al Qaeda, Hayat Tahir al-Sham di consolidare il controllo sui gruppi ribelli in questa zona. Lo scorso dicembre, le forze siriane, sostenute dalla potenza aerea russa, hanno lanciato un’offensiva nella zona di diminuzione del conflitto a Idlib, circondando diversi posti di osservazione turchi. Gli sforzi della Turchia di rafforzare le sue posizioni hanno condotto ad un combattimento diretto tra le truppe siriane e turche. Gli alleati Nato di Erdogan hanno esitato a concedere un più grande sostegno per la sua invasione della Siria, così il Presidente turco ha iniziato a spingere i rifugiati siriani nella vicina Grecia nel tentativo di apporre una maggiore pressione sui leader europei.
A marzo di quest’anno, Erdogan ottiene un nuovo accordo di cessate-il-fuoco con la Russia che ha permesso alle forze siriane di mantenere il territorio “riconquistato”, cede effettivamente lo spazio aereo su Idlib a Mosca e crea una nuova zona di diminuzione del conflitto pattugliata da soldati russi e turchi. La storia ci suggerisce che i cessate-il-fuoco non durano. La determinazione di Assad a riprendersi Idlib non è diminuita e, né il suo governo, né i suoi sostenitori a Mosca e a Teheran tollereranno una presenza sunnita estremista di lungo periodo che minaccia l’unità della Siria.
Le operazioni militari turche in Siria rischiano un conflitto con la Russia, proteggono i ribelli estremisti islamici e prolungano la guerra civile, tutto a spese degli stessi civili che Ankara rivendica di proteggere.
Quando Macron è salito al potere sembrava non avere preconcetti su come gestire le relazioni della Francia con la Turchia, che si sono deteriorate prima che lui s’insediasse nel 2017. La Francia ha approvato, nel 2001, una legge che riconosce ufficialmente il genocidio armeno da parte dei turchi ottomani – un evento che la Turchia moderna continua a negare – e i funzionari francesi hanno ripetutamente messo in discussione l’appartenenza della Turchia all’Unione Europea.
Anche se la Francia ha espresso non poca riluttanza sull’accordo Unione Europea – Turchia del 2016 sulla gestione delle migrazioni, la visita a Parigi del Presidente turco Recep Tayyip Erdogan nel 2018 si è svolta in un clima disteso.
Le relazioni tra i due Paesi hanno preso una piega negativa a causa delle politiche divergenti in Siria e Libia.
Nel nord della Siria, la Turchia ha cercato di schiacciare le forze di milizia curde del YPG (Unità di Protezione Popolare) che sono dei partner e protégés della Francia sul terreno e i cui leader sono stati ospitati due volte a Parigi, nel 2018 e nel 2019.
In Libia, Ankara ha, sin dal 2019, sostenuto il governo di Accordo nazionale a Tripoli laddove Parigi ha, non ufficialmente, sostenuto le forze del generale Khalifa Haftar, anche se Macron ha ripetutamente cercato di mediare tra le due fazioni. Vi sono altri motivi di nervosismo nelle relazioni bilaterali tra i due Paesi:
un deciso aumento del sostegno da parte del governo francese alla causa armena, con Macron che istituisce un giorno del ricordo per il genocidio;
la crescente affermazione, in Francia, delle reti della diaspora turca associate con il partito di Erdogan Giustizia e Sviluppo;
l’indurimento della posizione di Macron verso l’Islam radicale in Francia, che implica investigazioni molto più scrupolose sugli imam stranieri, di cui la metà sono turchi.
Soltanto nel giugno di quest’anno la crisi tra le due capitali è esplosa: quando una fregata russa punta il suo radar di individuazione obiettivi su vascello francese che stava imponendo l’embargo di armi stabilito dalle Nazioni Unite contro la Libia come parte di un’operazione NATO. La Turchia successivamente ha moltiplicato le sue incursioni nelle acque contese dalla Grecia e da Cipro nel Mediterraneo – Est, permettendo a Macron di presentare la Francia – ed egli stesso – come il difensore delle frontiere europee e della sovranità di fronte alla crescente affermazione, se non aggressività, della Turchia.
Macron è stato abbastanza astuto: si è tacitamente associato con la Germania che ha giocato il ruolo di negoziatore quieto con Ankara, permettendo alla Francia di assumere il ruolo di tutore dell’ordine.
La Francia ha ospitato il summit speciale del Med7, un Gruppo di 7 paesi litoranei del Mediterraneo, a settembre, per dimostrare la solidarietà europea alla Grecia e a Cipro. Ha esercitato pressione in seno al Consiglio dell’Unione Europea affinché, agli inizi di ottobre, la Turchia fosse avvertita di potenziali sanzioni. A metà ottobre sia Berlino che Washington pubblicamente hanno irrigidito la loro posizione verso Ankara, che per il momento ha dichiarato la sua volontà di negoziare con Atene per risolvere i loro contrasti.
Per comprendere l’approccio tagliente di Macron alla Turchia, ci aiuta tornare indietro all’ottobre del 2019 e all’intervista all’Economist, in cui suggerisce che la NATO era “cerebralmente morta”. Dichiarando ciò, non si riferiva all’unilateralismo degli Stati Uniti, alla percezione, all’incerto impegno americano verso l’alleanza dell’amministrazione Trump. Egli voleva puntare il dito su ciò che lui riteneva essere incompatibile con gli interessi dei membri NATO in Siria: la Turchia. Ciò riflette la realtà indiscutibile che la Turchia è vista, adesso, come un piantagrane al Consiglio NATO.
Tuttavia le osservazioni di Macron confondono due visioni della NATO: da una parte l’alleanza di difesa reciproca e dall’altra un club di Stati membri che palesemente la pensano allo stesso modo. In effetti, la NATO come alleanza non ha niente da dire sulle azioni dei membri prese individualmente né Siria né in Libia, laddove invece l’allineamento della Francia con la Russia sfoca le linee tra avversari e alleati.
Il commento di Macron sulla NATO “morta cerebralmente” rischia di diventare una profezia autoavverante. Dopo tutto, la Francia stessa non sempre consulta i suoi alleati o cerca il loro supporto prima di intraprendere iniziative diplomatiche. A malapena lo ha fatto in Libia.
Turchia
Il 24 luglio, il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan si è unito a migliaia di devoti nelle strade attorno alla storica Basilica di Santa Sofia ad Istanbul, per un momento doppiamente simbolico. Circondato da un nugolo di politici, soldati, forze di sicurezza e imam, il leader turco si è fatto strada nella cattedrale attraversando le giganti porte una volta aperte con la forza dai soldati ottomani nel 1453. All’interno ha letto la preghiera islamica canonica, facendo diventare la cattedrale di 1500 anni una moschea.
In questo modo Erdogan ha voltato pagina a nove decadi di storia recente, durante i quali questa struttura straordinaria e sito patrimonio mondiale UNESCO era stata globalmente riconosciuta come simbolo di una Turchia secolare. Dal 1934, Santa Sofia non era stata né una cattedrale, né una moschea, ma un museo secolare, stabilito come tale dal reale fondatore della Turchia moderna, Mustafa Kemal Ataturk.
Erdogan non stava solo sfidando la visione di Ataturk di uno Stato secolare quel giorno; scegliendo il 24 luglio per tenere la cerimonia di riapertura, Erdogan stava anche mettendo in discussione le intere fondamenta dello status internazionale della Turchia moderna.
Fu in questa data che nel 1923 la Turchia di Ataturk firmava il Trattato di Losanna, che poneva fine ad anni di guerra e occupazione, mentre conferiva un riconoscimento internazionale alla nuova Repubblica di Turchia. Questo Trattato era stato formalmente sospeso dal predecessore della Repubblica, l’impero ottomano, che un tempo si estendeva dal Caucauso allo Yemen, dall’Iraq alla Libia. Ratificando il Trattato di Losanna, Ankara rinunciava a tutte le rivendicazioni su quei territori, e con esse, la sua precedente grandeur imperiale.
Ora la Turchia sta compiendo una mossa importante per porre fine allo status quo che il Trattato di Losanna aveva fondamentalmente stabilito.
Il nesso con la Libia
Nel novembre del 2019, la Turchia ha firmato un accordo con il governo libico di Tripoli, noto come governo di accordo nazionale (GNA).
Il conflitto civile in Libia contrappone il GNA alle forze del generale Khalifa Haftar e il suo esercito nazionale libico, che è fedele al governo basato a Tobruk. Nel corso del 2019, il conflitto in Libia è divenuto una guerra proxy conclamata.
Turchia e Italia sostengono il GNA;
Russia, gli Emirati Arabi Uniti, Egitto, Francia hanno fornito supporto – incluso assistenza militare – alle forze di Haftar, sebbene Parigi neghi ogni formale sostegno.
In risposta ad una improvvisa offensiva delle forze di Haftar nell’aprile del 2019 che si sono spinte alla periferia di Tripoli, Ankara ha iniziato ad inviare i mercenari siriani allineati con la Turchia in sostegno del GNA, insieme ad addestratori, forze speciali, armi ed equipaggiamenti. L’accordo del novembre del 2019 ha formalizzato questo sostegno, decisivo per il GNA che ha spinto l’esercito nazionale libico dalla periferia di Tripoli alla città costiera di Sirte ad est.
Allo stesso tempo, l’accordo delineava anche la frontiera marittima tra la Turchia e la Libia. Secondo la posizione turca per cui le isole non possiedono la zona economica esclusiva, le isole greche che sono tra la Turchia e la Libia – Creta, Rodi e Castelrosso – non hanno tale tipo di zona. Dunque, in base a tale visione, tra le coste della Turchia e della Libia vi sarebbero solo le acque del Mediterraneo.
Dalla prospettiva di Ankara, l’elemento marittimo del suo accordo con la Libia concede alla Turchia il diritto di esplorare petrolio e gas non solo nelle acque di Cipro, ma al di là delle coste delle isole greche come Creta e Castelrosso. Sicuro di ciò, quest’estate, a luglio, il ministro degli esteri turco Mevlut Cavusoglu ha annunciato che la Turchia acquisirà questo diritto: avvierà ricerche sismiche e invierà delle navi da trivellazione in quelle che Atene e la maggior parte di altri governi nel Mediterraneo ritengono essere acque territoriali greche.
Il 10 giugno di quest’anno, il presidente francese Macron interviene dopo le tensioni tra una fregata francese e tre navi da guerra turche a largo della costa libica. La nave francese che operava in un’operazione NATO per applicare l’embargo di armi alla Libia sancito dalle Nazioni Unite , ha cercato di fermare ed ispezionare una nave cargo battente bandiera della Tanzania sospettata di trafficare armi. Secondo il ministro della difesa francese, da una delle navi turche che accompagnava la nave cargo si è visto lampeggiare il radar per acquisizione di obiettivi verso la fregata francese e i marinai turchi a bordo hanno indossato i loro giubbotti anti-proiettili e preso posizione dietro le armi. La Turchia asserisce che quella nave cargo trasportava aiuti umanitari.
Successivamente Macron descrive la Turchia come “sostenitrice di una responsabilità storica e criminale” per il suo intervento in Libia. Invita la NATO ad aprire un’inchiesta così come l’Unione Europea ad apporre sanzioni alla Turchia sulla sua campagna di trivellazioni nel Mediterraneo -Est. A luglio, Bruxelles segue questo invito ed impone sanzioni a funzionari di alto livello dello Stato turco e della compagnia petrolifera e di esplorazione di gas.
La posizione degli Stati Uniti favorisce qualcun’altro?
A proposito della Libia gli Stati Uniti hanno aumentato i loro sforzi di ottenere un cessate-il-fuoco dichiarato a luglio, pur tuttavia la loro posizione è controversa. Washington non vuole alienare i suoi alleati arabi che sostengono Haftar, dall’altra parte però vi è la percezione che la crescente presenza russa in Libia sia una minaccia. Una riduzione del livello di coinvolgimento americano nel mediterraneo come priorità strategica è antecedente alla presidenza Trump. Vi è un diffuso sentore nelle capitali della Regione che con Trump, gli Stati Uniti si siano ulteriormente ritirati dal loro abituale ruolo politico nella Regione.
Un’inaspettata conseguenza dell’assenza americana è stata quella di spingere sotto i riflettori un Paese che non ha mai esercitato un’importante influenza diplomatica nel Mediterraneo – Est dai tempi di Bismarck: la Germania.
Come economia più grande e più potente in Europa, la Germania ha un ruolo importante da giocare nel gestire la crisi, considerando che al momento detiene la presidenza dell’UE, che gli permette di plasmare le priorità politiche del blocco per sei mesi. Da una parte vi sono la Grecia e Cipro, i due Stati membri dell’UE, sostenuti da un presidente francese che sembra credere che una ulteriore intensificazione sia la sola via per dissuadere Erdogan. Dall’altra parte vi è la Turchia, un mercato fondamentale per i beni dell’UE e una rete di protezione chiave per i rifugiati e i migranti che cercano di entrare in Europa. Non sorprende, quindi, che nel tardo luglio, la Germania abbia sostenuto un intervento diplomatico considerevole per cercare di disinnescare un confronto potenzialmente dannoso. Angela Merkel si è impegnata direttamente sia con Erdogan che con il Primo Ministro greco Kyriakos Mitsotakis; in seguito la Turchia ha dichiarato la sospensione almeno per un mese delle operazioni di trivellazione e ha annunciato un incontro ad Ankara tra funzionari turchi e greci.
Quindi la Merkel, temporaneamente, ha fermato un’intensificazione della crisi.
Il prezzo per risolvere la crisi nel Mediterraneo-Est potrebbe essere quello che fondamentalmente Erdogan vuole da molto tempo: una ri-negoziazione del Trattato di Losanna.
La politica estera della Turchia di Erdogan
Vi è stato un cambiamento radicale rispetto alla precedente predilezione turca per una politica estera che sposasse lo status quo e che fondamentalmente rifuggisse le avventure estere. L’autore di questa variazione è Recep Tayyip Erdogan.
La trasformazione della politica estera turca durante la sua leadership non ha seguito una traiettoria lineare, è stata dominata da due caratteristiche prevalenti:
l’ambizione di Erdogan di spingere la Turchia, e per estensione lui stesso, in un ruolo di leadership globale;
utilizzare – sempre – la nuova politica estera attivista turca come metodo per rafforzare la legittimità domestica del regime ed assicurare la sua sopravvivenza.
Il cambiamento reale della politica estera turca è iniziato attorno al 2010, tre anni dopo che la leadership militare del Paese sfida pubblicamente Erdogan cercando, e fallendo, di apporre il veto all’ascesa di Abduallah Gul alla presidenza. Ciò ha permesso ad Erdogan di consolidare il potere riconfigurando le istituzioni turche, portandole sotto il suo controllo diretto, e, attraverso un contestato referendum nel 2017, rimpiazzare il sistema parlamentare con uno presidenziale che centralizzava tutti i poteri nel suo ufficio. Il dissenso non era più consentito.
È proprio quando Erdogan soffoca le critiche dei militari e quelle all’interno del Paese che inizia a prendere forma la “sua” politica estera. Nel 2009 prima iniziativa: rimprovera Shimon Peres, allora primo ministro di Israele, durante una discussione al World Economic Forum a Davos, prima di andarsene infuriato. L’anno seguente si lega al Brasile per cercare di preservare un accordo con l’Iran sul suo programma nucleare con grande fastidio da parte dell’amministrazione Obama. Un anno più tardi porta la Turchia nella guerra civile siriana proiettando il suo sostegno interamente all’opposizione armata a Bashar al-Assad. La Turchia e gli Stati Uniti si scontrano anche sulle operazioni contro lo Stato islamico, dal momento che Erdogan si rifiuta di ascoltare le richieste di Obama di combattere i miliziani estremisti violenti, sebbene essi fossero passati attraverso il territorio turco per unirsi al conflitto. Erdogan ordina addirittura un’invasione, lo scorso anno, nel nord-est della Siria, attaccando alcune forze curde che stavano combattendo lo Stato islamico insieme alle truppe americane.
Più recentemente, il comportamento di Erdogan assume una posizione molto più revisionista. In Libia, i droni turchi e i consulenti militari, per non menzionare le migliaia di militanti siriani reclutati da Ankara per combattere come mercenari, sono riusciti a cambiare il corso degli eventi in favore del governo internazionalmente riconosciuto di Tripoli.
Nel sud del Caucaso, la Turchia è stata determinante nel pianificare e sostenere l’assalto dell’Azerbaijan nell’enclave contesa di Nagorno – Karabakh. Così come in Libia, i droni turchi ed i mercenari siriani hanno giocato un ruolo cruciale nell’ultimo round di combattimenti tra l’Azerbaijan e l’Armenia. Nel Mediterraneo – Est, la sfida alla sovranità greca e cipriota di cui abbiamo già discusso.
Malgrado il pericolo intrinseco nella sua politica del rischio calcolato, Erdogan presume che altri membri della NATO interverranno per disinnescare ogni crisi, calcolando che egli può, nel frattempo, avanzare la sua posizione cambiando le circostanze nel Mediterraneo.
In tutti questi casi la risposta locale, in Turchia, è stata pienamente di sostegno. Erdogan è stato in grado di neutralizzare ogni opposizione facendo appello ai votatori turchi con una predisposizione nazionalista, mentre la stampa ampiamente addomesticata elogia ogni sua impresa “riuscita”. La narrativa che emerge è quella di un ritorno giusto della Turchia come grande potenza con il governo che produce video che legano il presente alle passate glorie ottomane.
Detto ciò, sarebbe sbagliato attribuire alla politica estera turca cambiamenti nella politica domestica.
Erdogan ha ottenuto una notorietà internazionale diventando un leader i cui capricci e richieste devono essere controllati. In questo senso, egli ha raggiunto ciò che si era prefissato di fare: trasformare la Turchia ed egli stesso in attori globali significativi.
Egli è finanche entrato nel discorso politico occidentale: é menzionato regolarmente, con la Russia di Putin, la Cina di Xi Jinping, come uno dei tre leader più visibili accolto sul palco dittatoriale mondiale.
Erdogan è un calcolatore e pragmatico quando necessario. Non ci sono barriere protettive all’interno della Turchia che lo controllino, contornato da leccapiedi, nessuno si permette di contraddirlo. Continuerà ad incalzare fino a quando potrà, fino a quando colpirà un “posto di blocco”. Anche se sanzioni o altri ostacoli lo spingeranno a scendere a compromessi su qualche questione, aprirà subito un altro fronte in qualche altra parte. Erdogan cercherà sempre di stare un passo avanti agli altri, costringendo i rivali e gli alleati a rimanere sulla difensiva.
L’ordine internazionale si sta sfilacciando, provocando incertezze su chi interverrà per risolvere i conflitti persistenti e chi troverà le risposte umanitarie ai disastri naturali o a quelli generati dall’uomo. Nel frattempo, crisi emergenti e molteplici zone calde pongono nuovi rischi, e la natura del terrorismo transnazionale sta evolvendo. Conflitti e crisi persistono nel mondo, vi è una crescente incertezza su come – e se – essi saranno risolti.
Vi sono conflitti interminabili, come le situazioni in Yemen, Afghanistan, Siria che hanno prodotto anni di violenza, innumerevoli migliaia di morti e ancora più di rifugiati.
Vi sono zone calde che emergono tra cui il Mali e il Burkina Faso, e un certo numero di potenziali punti di rottura, incluso il mare del sud della Cina, oggetto di dispute territoriali.
Dove vi sono delle flebili speranze di riconciliazione – come la Repubblica Centrafricana, dove 14 gruppi armati hanno firmato un accordo di pace agli inizi dello scorso anno – il pericolo di precipitare in un nuovo ciclo di violenza è ancora molto alto.
Allo stesso tempo, la natura dell’estremismo violento religioso islamico sta mutando. Lo Stato islamico è nel bel mezzo di uno spostamento tattico a seguito della perdita di controllo dei “suoi” territori in Iraq occidentale e Siria e più recentemente la morte del suo leader. Il gruppo appare essere in transizione verso tattiche di stile guerriglia e attacchi terroristi sparpagliati, mentre muove il suo focus su nuovi teatri di operazione, come il Sud est Asia. Non è chiaro se le potenze occidentali nutrano un autentico desiderio di lanciare i tipi di campagne di contro-terrorismo necessarie per affrontare queste nuove sfide.
Fino a poco tempo fa in Siria, un’ampia gamma di attori era impegnata nel combattimento contro gruppi estremisti violenti religiosi impegnati in tattiche di terrorismo, ma anche qui, l’impegno di alcuni attori, soprattutto gli Stati Uniti, è in diminuzione. La Siria costituisce anche un caso studio su come le potenze tradizionali stiano minando la capacità delle Nazioni Unite di rispondere alle crisi, indebolendo ulteriormente l’ordine internazionale post Seconda Guerra Mondiale. Il vuoto che ne risulta ha introdotto opportunità per organizzazioni regionali, incluso l’Unione Africana, per riempire i vuoti, sia in termini di interruzione del conflitto, o almeno del ciclo di violenza, che di risposta ai disastri. Tuttavia non è ancora chiaro se (e quando) lo faranno.
Nel frattempo, le emergenze causate dai conflitti e dai disastri naturali proliferano ad un tasso che oltrepassa le risorse disponibili per organizzare una risposta.
Il conflitto persistente nell’est dellaRepubblica Democratica del Congo ha ostacolato la risposte allo scoppio dell’Ebola nella Regione, sebbene le misure adottate abbiano disseminato sfiducia e alimentato nuova violenza. Il conflitto in Sud Sudan, motivato in parte dall’accesso alle risorse, ha prodotto una persistente mancanza di cibo che si è concretizzata, lo scorso anno, in una carestia. I numeri di rifugiati sono in aumento, anche a causa dei cambiamenti climatici che generano nuove crisi. La pandemia di coronavirus aggrava tutto questo, assottigliando le risorse disponibili per affrontarla.
Conflitti persistenti e crisi
Nel mondo, vi sono una manciata di conflitti che persistono da tanti anni che non mostrano alcun segno di volgere al termine.
In molte situazioni come la Siria, la Libia e lo Yemen, ciò accade perché il combattimento a livello locale è una battaglia di proxy fra altri Paesi.
Luoghi come il Sud Sudan, la Repubblica Centrafricana, dove, finora accordi di pace fragili tengono, sono lacerati da rivalità tra attori locali chiave, nel disinteresse globale.
E poi c’è l’Afghanistan, dove gli Stati Uniti stanno cercando di districarsi dalla loro “guerra per sempre”.
La scia fortunata della Russia in Siria e Libia sta definitivamente terminando?
Il Cremlino ha scommesso molto sulla guerra proxy in entrambi i Paesi, dispiegando migliaia di contractor militari privati con il cosidetto Wagner Group per sostenere il suo uomo forte. Dopo recenti accadimenti sfortunati per il Presidente siriano, e il Generale Khalifa Haftar, sembra che la Russia non sia più in grado di monetizzare in vittorie reali nel breve termine né in Medio Oriente né in Africa del Nord . Il segnale più significativo che il supporto della Russia per i paramilitari privati in Libia potrebbe essere una scommessa persa per il Cremlino è arrivato alla fine di maggio 2020. Il Comando militare americano per l’Africa ha accusato pubblicamente la Russia di impiegare aerei da caccia MiG-29 (Il MiG-29 è un caccia dalle linee moderne, bimotore, monoposto, con ala alta di grande superficie e raccordata alla fusoliera con ampie LERX, motori e prese d’aria sono ospitati in gondole sotto la fusoliera. Il tutto fornisce una superficie portante complessiva di considerevole ampiezza, sinonimo di eccellente manovrabilità) per proteggere gli operativi del Wagner Group e le forze dell’esercito nazionale libico che si ritiravano da Tripoli. Per mesi, il sostegno russo all’esercito nazionale libico ha aiutato Haftar ad imporre un blocco sui giacimenti di petrolio nell’est della Libia, stringendo la sua economia in una morsa rovinosa. Per diverse settimane, le forze di Haftar aiutate dal Wagner Group si sono duramente scontrate con i mercenari siriani sostenuti dalla Turchia e dalle milizie fedeli al governo di Tripoli riconosciuto da molti Stati della comunità internazionale, noto come il governo di accordo nazionale. Una settimana prima della fine di maggio di quest’anno, le forze sostenute dalla Turchia, con l’ausilio di attacchi da droni turchi, hanno inflitto alle truppe di Haftar delle significative perdite sul campo di battaglia, forzandole a ritirarsi e ad affidarsi molto agli aerei da caccia russi per la copertura aerea. Il 25 maggio 2020 viene diffuso un video in cui i combattenti del Wagner Group sono trasportati dagli aerei fuori dalla città di Bani Walid, sud-ovest di Tripoli, corroborando le rivendicazioni di funzionali libici locali che le forze russe “stanno fuggendo a gambe levate”. Le notizie dell’apparente uscita del Wagner Group dalla Libia arrivano dopo una fuga di notizie relativa ad un rapporto di esperti delle Nazioni Unite per cui 800 dei suoi 1200 contractor erano stati impiegati in Libia fin dall’agosto del 2018. Il rapporto identificava 122 individui con un’unità speciale di cecchini del Wagner Group e un contingente di attacco e ricognizione. La Russia ha negato ogni collegamento con i dispiegamenti e ha criticato il rapporto delle Nazioni Unite.
Dal momento che la Russia ha già forze nel Mediterraneo dell’est, in una base area in Siria, una tale mossa potrebbe, almeno in teoria, permettere all’esercito russo il controllo di molto dello spazio aereo sulla costa del Nord Africa e del Sud Europa. Ora che sembra che i mercenari russi stiano iniziando a lasciare la Libia, per l’esercito nazionale libico sarà verosimilmente molto più difficile aiutare Mosca a raggiungere questo obiettivo.
Nel frattempo in Siria, il sostegno della Russia per Assad appare in disfacimento in ragione di narrazioni che sostengono come Assad si stia impantanando in una faida interna con il ricco cugino Rami Makhlouf, il prominente finanziatore del regime siriano. La spaccatura all’interno del circolo ristretto di Assad è stata resa insolitamente pubblica, con Makhlouf che su Facebook supplica Assad di non impadronirsi dei suoi beni e il governo siriano che impone un divieto di spostamento a Makhlouf per una disputa sul suo impero delle telecomunicazioni: Syriatel. Tutto ciò ha avuto come conseguenza critiche pubbliche – insolite – al regime di Assad da parte di gruppi di esperti russi. La questione di chi detiene l’influenza sull’economia siriana in frantumi, inclusi i contratti per la futura ricostruzione, si sta sviluppando anche come un vero problema per il capo del Wagner Group, Yevgeny Prigozhin, affiliato del Cremlino, le cui società facilitano le operazioni russe in Libia e in altre parti della Regione. Per anni, Makhlouf e altri vicini ad Assad, come i magnati Ayman Jaber e George Haswani, si sono affidati al Wagner Group e al lunatico talento manageriale di Prigozhin per proteggere i loro interessi nel Paese. La società di Evro Polis e le relative imprese connesse al Wagner Group hanno guadagnato centinaia di milioni prendendo il controllo e assicurandosi così petrolio prezioso, gas e produzione mineraria dai siti in Siria. La guerra civile siriana si trascina nel decimo anno e le sanzioni americane ed europee contro il regime di Assad continuano ad avere un costo per i partner della Prigozhin siriana. Nel breve periodo, la posizione instabile della Russia nella Regione – il risultato di relazioni improvvisamente più volubili con Assad e Haftar, la cultura operativa disordinata del Wagner Group – potrebbe produrre modesti guadagni agli Stati Uniti ed ai loro alleati, specialmente la Turchia. Quali che siano i grovigli politici e i colpi militari che avverranno in seguito per Assad e Haftar, migliaia di siriani molto probabilmente continueranno a scappare dai combattimenti nel nord est del Paese, vicino alla frontiera turca, mentre i civili libici sono maggiormente danneggiati dai duelli ed egualmente puniti dagli attacchi aerei russi ed americani.
Bisognerebbe comprendere che giocare un gioco a somma zero non è un’opzione quando ogni giocatore ha assi nella manica e i ricchi oligarchi russi e le loro controparti locali mescolano le forze per truccare le carte a proprio vantaggio.
Che fare?
Fornire al governo di Tripoli – quello sostenuto dalle Nazioni Unite – un maggiore supporto in termini di migliori prodotti intelligence, incluso esperti finanziari, per comprendere come il Wagner Group calza a pennello con i più ampi obiettivi strategici russi. In questo modo quindi la Banca Centrale libica potrebbe monitorare meglio le entrate che fluiscono dentro e fuori la Libia tra le imprese russe e gli individui e congelare gli assetti dei libici che hanno aiutato la Russia ad ottenere un punto di appoggio nel Paese. Sanzioni alle imprese Prigozhin, così come ad individui e compagnie statali che beneficiano del sostegno del Wagner Group agli alleati di Haftar e Assad. Durante i colloqui con i leader dell’Egitto e degli Emirati Arabi Uniti, si potrebbe suggerire che l’aiuto militare a questi Paesi potrebbe non essere più del livello attuale se entrambi continuano a collaborare con la Russia in sostegno di Haftar e contenere le loro giocate con il regime di Assad in Siria.
Conflitti emergenti
Accanto ai conflitti persistenti vi sono nuove zone calde che stanno emergendo, inclusa l’Africa occidentale. Per una molteplicità di ragioni, dall’estremismo islamico violento, alle repressioni sui separatisti, i Paesi nella Regione hanno visto un’intensificazione della violenza armata. Il risultato è un massiccio dislocamento, che assottiglia le risorse umanitarie.
Sahel
Le forze di sicurezza statali del Burkina Faso hanno giustiziato 31 persone disarmate nella città del nord di Djino nel mese di aprile. Un rapporto di Human Right Watch descrive le uccisioni come “una brutale derisione in una operazione di contro-terrorismo che potrebbe configurarsi come un crimine di guerra”. Le vittime erano sospettate di collaborare con gruppi estremisti islamici violenti che operano nell’area. Un massacro del genere per quanto scioccante possa essere, non è per nulla un’anomalia in Burkina Faso e nella regione confinante del Mali centrale che è diventata l’epicentro della violenza negli anni recenti. I gruppi estremisti islamici si sono introdotti nelle fessure politiche, sociali ed economiche, facendo leva sul malcontento locale ed intimidendo chi gli resiste. I livelli di violenza, senza precedenti, non sono stati diminuiti da risposte governative che tardano ad arrivare e ciò ha come conseguenza l’adesione di tanti se non centinaia di giovani ai gruppi estremisti islamici violenti. Le politiche statali che hanno generato forze di sicurezza che compiono abusi o affidato sub-contratti di responsabilità di sicurezza a milizie che agiscono nella totale illegalità. In Mali, ad esempio, Dan Na Ambassagou di etnia Dogon, membro di una milizia di sorveglianza, ha operato nella quasi totale impunità. Il gruppo è responsabile di massacri di ampia scala contro le comunità di etnia Fulani, incluso donne e bambini che loro accusano di collaborare con i gruppi estremisti islamici violenti locali. In un noto incidente occorso lo scorso anno, Dan Na Ambassagou ha ucciso 130 Fulani mandriani nel villaggio di Ogossagou. In Burkina Faso, il parlamento a gennaio di quest’anno ha approvato la legge “Volontari per la difesa della patria” che fornirà armi e due settimane di addestramento per i volontari locali. La mossa ha sollevato allarme tra i gruppi in difesa dei diritti umani che temono che milizie che non devono rendere conto a nessuno esacerberanno la situazione. Una milizia la cui etnia predominante è quella Mossi, conosciuta come Koglweogo, ha già condotto attacchi sui civili Fulani. Due gruppi di estremisti islamici violenti, in particolare: Katibat Macina e Ansarul Islam, i cui ranghi sono ampiamente, se non esclusivamente, composti da etnia Fulani, si sono provati particolarmente abili ad inserirsi nelle dinamiche socio-politiche locali. Spezzare il ciclo di violenza nel nord del Burkina Faso e nel Mali centrale richiederà un approccio multiforme che comprende le iniziative di sviluppo tanto quanto la risposta militare. Pur tuttavia le risposte governative sono arrivate in un momento in cui i gruppi estremisti violenti che operano nel nord del Burkina Faso e nel Mali centrale stanno dimostrando una crescente capacità militare. Laddove i tali organizzazioni si sono precedentemente affidate a tattiche asimmetriche come le imboscate “colpisci – e – scappa” su personale militare, nei due anni passati si è visto un aumento in attacchi ambiziosi coordinati a basi militari. Vi è stata una spinta da parte degli eserciti nazionali su richiesta di popolazioni locali sempre più frustrate e attori esterni come l’ex potenza coloniale, la Francia, di sradicare questo tipo di estremisti violenti dai territori che hanno occupato. Tutavia le campagne militari hanno il potenziale di trasformarsi in un abusi dei diritti umani, dal momento che i militanti di quei gruppi estremisti violenti possono sempre ritornare alla cosiddetta guerra asimmetrica e mescolarsi alla popolazione locale. Vero è che i gruppi estremisti violenti locali, in particolare quelli islamici, hanno compiuto progressi con alcune comunità della popolazione locale attraverso il proselitismo e la fornitura di forme rudimentali di governance, le loro attività di “risolutori di problemi quotidiani” sono molto apprezzate dalla popolazione locale e la loro ideologia guadagna popolarità.
In che modo la proliferazione delle armi guida il conflitto mandriani-agricoltori nel Sahel?
La regione africana del Sahel che si estende dalla Mauritania al Sudan è emersa come una zona calda – critica – globale negli anni recenti dal momento che i governi nazionali lottano per contenere la crescente insicurezza, la criminalità dilagante e ondate di estremismo violento. Gli sforzi per stabilizzare questa cintura transcontinentale proprio a sud del Sahara hanno ampiamente sottovalutato un conduttore critico di tensioni: le dispute vecchie di secoli, ma sempre più violente, tra i mandriani nomadi e le comunità sedentarie di agricoltori. Un recente influsso di armi ha dato a questi conflitti una forza nuova e mortale con gravi implicazioni per la sicurezza internazionale. La portata della recente violenza che si manifesta da questo tipo di tensioni è scioccante. La proliferazione di armi in ogni parte del Sahel ha trasformato quelle che una volta erano dispute locali sulla terra e le risorse in cicli intricati di violenza che si intensifica. In Nigeria il conflitto mandriani-agricoltori ha ucciso sei volte tanto quanto il gruppo estremista islamico violento: Boko Haram nel 2018. Nel Sahel, le comunità di mandriani e agricoltori stanno ottenendo armi da fonti differenti, incluso armi artigianali prodotte localmente, così come armi fabbricate a livello industriale da riserve nazionali o da fornitori stranieri. Un recente studio condotto da Conflict Armament Research, un’organizzazione indipendente di investigazione, ha seguito le tracce di armi che sono state recentemente utilizzate in violenza di larga scala dalle comunità di mandriani ed agricoltori in Nigeria arrivando lontano fino a Paesi come l’Iraq, la Turchia; armi commerciate illecitamente attraverso reti sofisticate di trafficanti di armi. Le armi prodotte artigianalmente, che si procurano a livello regionale e confezionate tipicamente a mano in quantità relativamente piccole, hanno, storicamente, contribuito alla proliferazione di armi in tutto il Continente. I meccanismi tradizionali di composizione di dispute persistenti, attraverso la giustizia locali, processi di riconciliazione che spesso esistono al di fuori delle strutture statali tradizionali – il clan o la famiglia colpevole, ad esempio, offre un certo numero di capi di bestiame come restituzione delle vite perse – faticano a mantenere la pace vista la portata della violenza. Queste dinamiche non fanno altro che esacerbare altre tensioni nelle relazioni mandriani – agricoltori, incluso l’alta competizione per le risorse, risultato di una governance inadeguata, cambiamenti climatici e crescita della popolazione. L’accesso maggiore alle armi ha distrutto il delicato equilibrio di potere tra e all’interno delle comunità di mandriani e agricoltori. I membri di queste comunità rurali che sono state storicamente marginalizzate, come i giovani, non si sentono più obbligati ad aderire ad accordi di pace o accordi sulla terra composti ed attuati dai più anziani. Essi possono trattare le questioni di giustizia e rivincita a modo loro, cioè armandosi. La proliferazione delle armi minaccia anche di aggravare la tendenza crescente nella Regione verso il neo pastoralismo. Le élite politiche e militari ricche che vivono nei centri urbani di Abuja, la capitale della Nigeria, Ndjamena, la capitale del Ciad, stanno accumulando enormi mandrie di bestiame come modo per mettere da parte la loro ricchezza, dal momento che i sistemi bancari sono spesso inaffidabili. Questi proprietari di bestiame assenti poi assumono e armano dei mandriani e li istruiscono affinché proteggano i loro investimenti a tutti i costi. Nell’assenza di regolamentazioni nazionali o locali, questi mandriani di bestiame militarizzati sono inclini a sfruttare eccessivamente il bestiame e ad altre pratiche insostenibili e in alcuni casi sconfinano nelle terre possedute dagli agricoltori, distruggendo coltivazioni e innescando il conflitto. Questi pastori armati (pesantemente) non rappresentano tutti i mandriani, ma hanno innescato la diffusione della narrativa di “assassino mandriano” o “pastori invasori” tra molte delle comunità di agricoltori e tutto ciò non fa altro che rafforzare le tensioni etniche e alimentare le mentalità del noi-contro-loro.
L’intensificazione della violenza tra mandriani e agricoltori ha avuto catastrofiche conseguenze per coloro che vivono nel Sahel, contribuendo a conflitti più ampi nella Regione, dal Mali alla Repubblica Centrafricana al Sudan, che a sua volta hanno spesso scatenato atrocità di massa e primi segnali di avvertimento di genocidio. L’instabilità ha dislocato milioni di persone, scatenato crisi umanitarie devastanti e costose, minacciato rotte di commercio fondamentali e risorse naturali che sono essenziali ai mercati globali e messo a rischio miliari di aiuti e di investimenti. Gestire questo problema non significa il facile e semplice disarmo delle comunità di mandriani e agricoltori nella Regione. Questi non sono gruppi armati strutturali o uniformi, ma sono comunità di milizie allineate in modo lasco e opportunisti violenti. Inoltre, attori che sono stati incoraggiati dall’afflusso di armi, come giovani marginalizzati o neopastoralisti, è improbabile che siano desiderosi di abbandonare le loro armi appena comperate. Nel frattempo, governi regionali che sarebbero determinanti nella realizzazione di campagne di disarmo di successo sono attualmente distratti dal combattere contro i gruppi estremisti violenti e stanno affidando esternamente la sicurezza ad attori civili o a gruppi informali di sicurezza.
I governi (stranieri) che si sono impegnati nel Sahel dovrebbero essere cauti nel cercare di affrontare questo problema con maggiori aiuti militari nella Regione. Senza una governance complementare, integrativa e l’assistenza allo sviluppo, l’assistenza militare straniera si potrebbe provare controproducente. Le armi che sono vendute in tutta la Regione in modo legittimo, attraverso alleati internazionali speranzosi di sostenere gli Stati nel Sahel, hanno trovato una loro strada nelle mani di criminali e milizie di comunità, alimentando cicli di violenza ed impunità. Ogni assistenza militare supplementare, quindi, potrebbe essere completata attraverso un sostegno diplomatico e tecnico allo scopo di diminuire le tensioni e mitigare il conflitto tra e all’interno delle comunità di mandriani e agricoltori. Francia, Germania, Svezia e l’Unione Europea nel suo insieme hanno promesso di aumentare la presenza militare nella Regione. Le dispute tra le comunità di mandriani e di agricoltori in tutto il Sahel stanno evolvendo in conflitti più complessi e letali con implicazioni globali, sia gli Stati dell’Unione Europea che gli Stati Uniti rischiano di restare svogliatamente in attesa mentre la violenza si intensifica e più vite vengono perse. Un approccio concentrato su opzioni di impegno non-militare potrebbe aiutare a fermare un’ulteriore instabilità in questa fragile regione dell’Africa.
La promessa degli accordi di Oslo, agli inizi del 1990, una Palestina indipendente che coesiste con Israele, disegnava un Medio Oriente in cui le le frontiere potevano essere attraversate facilmente e i Paesi erano definiti non dalle loro barriere, ma dalla loro apertura e dalla prossimità gli uni con gli altri. L’allora re di Giordania Hussein parlava apertamente di questa speranza e geografia, in occasione della cerimonia di firma dell’accordo di pace tra Giordania ed Israele che condusse al valico di frontiera Wadi Araba con il villaggio di Eilat da una parte ed il suo omologo giordano, Aqaba, dall’altra: “Dietro a noi qui vedete Eilat e Aqaba – il modo in cui abbiamo vissuto per anni, così vicini, incapaci di incontrarci, di visitare gli uni gli altri, di sviluppare questa bellissima parte del mondo, non esiste più”. Questa visione non fu mai pienamente realizzata, ma qualcosa è cambiato.
Ciò che sta prendendo forma è quello che l’ala destra di Israele ha sempre voluto: una pace economica. Gli accordi di normalizzazione che Israele ha concluso con gli Emirati Arabi uniti lo scorso mese e con il Bahrain la scorsa settimana, ne sono la prova pratica. Entrambi gli accordi, mediati dall’amministrazione Trump, sono pubblicizzati come accordi di pace, sebbene Israele non sia mai stato in guerra con gli Emirati Arabi Uniti e neanche con il Bahrain.
Negli ultimi anni, dietro le quinte del grande palcoscenico delle relazioni internazionali ci si è mossi verso un’alleanza de facto, unitamente alla cooperazione con l’Iran, che ha coltivato dei legami economici intesi a durare per molto più a lungo dell’accordo in sé.
Israele ha ottenuto piene relazioni diplomatiche con gli Emirati Arabi Uniti, un Paese arabo del Golfo potente e ricco di petrolio, in cambio di fermare l’annessione pianificata di West Bank.
Ma né gli israeliti né gli emirantensi sono ancora realmente d’accordo su cosa si sono accordati. Il primo ministro Netanyahu ha insistito che l’attesa per l’annessione è solo “temporanea”, probabilmente nel tentativo di tranquillizzare il movimento dei coloni di estrema destra il cui sostegno gli è ancora necessario.
Gli Emirati hanno assunto l’accordo di normalizzazione come la fine di ogni opportunità di annessione di West Bank da parte di Israele.
Come parte dell’accordo l’amministrazione Trump ha promesso agli Emirati che gli Stati Uniti non riconosceranno nessuna annessione israeliana di West Bank non prima del 2024.
Il cuore dell’accordo non è proprio su questo; é sulle aerovie (tra gli altri benefici economici).
Quando Jared Kushner, il genero di Trump incaricato per gli accordi con il Medio Oriente, capeggiava una delegazione americana ed israeliana in un volo di inaugurazione sulla compagnia area nazionale israeliana, El Al, da Tel Aviv a Abu Dhabi, il primo volo commerciale diretto tra i due Paesi, il messaggio era piuttosto ovvio.
Un Medio Oriente dove una manciata di Paesi vivono l’uno accanto all’altro, con una storia di conflitto alle spalle, l’apertura delle loro frontiere, ha lasciato il posto al profitto: nuove aerovie tra Israele e monarchie arabe del Golfo. Nuovi aerei da caccia americani e naturalmente tutti i tipi di commercio, con legami commerciali pronti a prosperare tra Israele – la nazione che avvia – gli Emirati Arabi Uniti pieni di petro-dollari e altre ricchezze che hanno reso Dubai ed i suoi autocrati dei potenti attori regionali.
L’accordo di normalizzazione con il Bahrain è molto simile, ad eccezione del fatto che Israele ha rinunciato a molto meno. Questo accordo manca persino del pretesto dello scambio di una “terra di pace”.
L’Iniziativa di Pace araba, sostenuta dalla Lega Araba nel 2002, significava offrire ad Israele la prospettiva di pace e la normalizzazione con l’intero mondo arabo, in cambio del ritiro di Israele da tutti i territori occupati dal 1967 e la creazione di uno Stato palestinese con la sua capitale a Gerusalemme est.
Oggi tutto ciò sembra solo un paragrafo di un libro di storia, invocato dai ministeri degli esteri arabi quasi fosse una reliquia.
Questa nuova visione “trumpiana” per la cosiddetta pace nel Medio Oriente – tra Paesi che non sono stati in guerra, in cui l’occupazione di Israele di West Bank sembra essenzialmente perpetua, con la benedizione americana– è fieramente articolata in ciò che l’amministrazione Trump pubblicizza con lo slogan “Pace per Prosperità”.
Questa proposta per la pace, se si può realmente chiamare così, favorisce in modo palese Israele e la sua occupazione di West Bank come mai è stato fatto da nessuna precedente iniziativa americana.
Questo accordo si legge più come uno schema di mercato immobiliare: una promozione di miliardi in investimenti. E i palestinesi? Non certo si sentono confortati da questa visione miope del Medio Oriente, formalizzata dalla Casa Bianca che li lascia più abbandonati che mai.
Pare proprio che ciò che sia normalizzato sia la visione miope del Medio Oriente e che la conseguenza di questo processo sia solo la marginalizzazione di ciò e di chi è visto “anormale” da altri.
Il tasso di trasmissione del coronavirus all’interno della Cina continua a scendere, il governo cinese ha dichiarato la settimana scorsa che il picco del suo COVID – 19 è passato. Con l’epidemia a casa ampiamente sotto controllo, Pechino sta dirigendo la sua attenzione sui casi importati da viaggiatori infetti. Sta anche cercando di rimodellare la narrativa della pandemia che si è originata in Cina.
Wuhan, la città nella Cina centrale, epicentro dell’epidemia, rimane in isolamento. Le misure draconiane imposte in altre parti del Paese sono state gradualmente allentate. La Cina ha riportato solo un caso di trasmissione domestica del virus e 12 nuovi casi che coinvolgono viaggiatori dall’estero. Le autorità hanno risposto ampliando le regole della quarantena per gli arrivi dall’estero e scoraggiando i cittadini dal viaggiare verso Paesi colpiti dalla pandemia.
Le autorità cinesi hanno spostato la loro attenzione verso l’estero e così anche la propaganda del Partito Comunista. In uno dei più vergognosi esempi, il portavoce del ministro degli esteri cinese ha scritto in un tweet che l’esercito americano potrebbe essere responsabile di aver portato l’epidemia a Wuhan.
Ha poi asserito che citare la Cina come origine del virus è “immorale e irresponsabile”. I commentatori cinesi accusano della diffusione (e origine) del coronavirus Stati esteri come il Giappone o l’Italia. Gli organi di stampa ed egualmente i funzionari cinesi si sono particolarmente impegnati a strombazzare il successo della risposta cinese alla crisi, offrendosi come un modello per il resto del mondo.
Sembra proprio che il governo cinese non accetti più che il virus si sia originato a Wuhan, anche se il presidente Xi Jinping aveva precedentemente pubblicamente riconosciuto ciò.
Sicuramente anche gli Stati Uniti hanno prodotto la loro ingente quantità di teorie di cospirazione. Il Senatore Tom Cotton, un repubblicano dell’Arkansas si è posto la domanda se l’epidemia fosse il risultato di un arma biologica cinese creata in maniera blanda. Recentemente il presidente Donald Trump si è riferito al COVID-19 come al “virus cinese” e il Segretario di Stato Mike Pompeo ha ripetuto a pappagallo il “Wuhan virus”.
La realtà è che l’epidemia poteva essere contenuta o interamente evitata se le autorità cinesi non avessero ignorato o soffocato gli avvertimenti di un “virus misterioso” a Wuhan che possono essere fatti risalire al novembre del 2019.
Sfortunatamente, un’intensificazione di battibecchi tra gli Stati Uniti e la Cina sulla libertà di stampa ostacolerà solo la diffusione di informazioni accurate fuori dalla Cina.
Le campagne di informazione, di propaganda, della Cina e degli Stati Uniti sono distinte, da considerare ed analizzare separatamente, in cui ognuno persegue obiettivi differenti e i interessi propri.
La Cina è impegnata in uno sforzo su molteplici fronti per riscrivere la storia ed emergere rafforzata dalla crisi globale. Le misure di isolamento draconiane a Wuhan e nella sua provincia vicina appaiono aver spento molta della capacità del virus di moltiplicarsi all’interno della popolazione cinese. I dati ufficiali mostrano solo nuovi casi con il contagocce, anche se il resto del mondo lotta con un enorme ondata di infezioni che travolgono gli ospedali.
Il palcoscenico per la Cina è pronto: mostrare un’aria trionfante e mettersi al lavoro sul confezionamento dei suoi messaggi di pubbliche relazioni sia per il consumo domestico che internazionale.
Il leader cinese, Xi Jinping, mira ad utilizzare la crisi del coronavirus per rafforzare la sua posizione personale nel proprio Paese, assieme alla presa al potere del Partito Comunista. Il messaggio di Xi alla popolazione cinese è che sono fortunati ad avere un leader così forte e saggio e un sistema unificato ed efficiente. Il suo messaggio al resto del mondo è che la Cina è il potere del futuro – il suo sistema vale la pena di essere emulato, chiaramente superiore all’alternativa democratica, specialmente quando Paesi dagli Stati Uniti all’Italia si inerpicano per gestire la pandemia, spesso con precarie leadership e con centinaia di milioni di persone che sopportano ordini di stare a casa.
È un messaggio che chiede una risposta dall’occidente. Solitamente, Washington sarebbe quello che ne articolerebbe una molto più robusta, ma ciò non sta avvenendo.
Trump invece lancia colpi di retorica a raffica contro la Cina durante i suoi discorsi giornalieri sul virus. Sarebbe un errore vedere questi commenti come una difesa della democrazia. L’insistenza di chiamare il COVID-19 “virus cinese” è uno sforzo di propaganda domestica con obiettivi puramente politici nell’anno di rielezione. Egli fa ricorso ad un nazionalismo fuori moda con aperture xenofobe, cercando di suscitare i sentimenti patriottici e proteggere sé stesso dalle conseguenze negative della sua risposta iniziale alla pandemia, disastrosa. Trump ha bisogno di radunare i suoi sostenitori e cercare di persuadere ognuno che lui sta dando ascolto agli esperti veri, reali. Trump è particolarmente disperato dal momento che le sue affermazioni per cui la sua amministrazione aveva tutto sotto controllo con il coronavirus si sono rivelate rovinosamente errate, proprio quando si prepara a salire in sella alla sua campagna di rielezione.
Trump, tuttavia, sta contrastando la propaganda cinese in un solo modo. Egli è corretto nel far notare che Pechino è stata lenta a dire al mondo che il virus era iniziato in Cina. Che poi Trump stia utilizzando questa circostanza per proteggere sé stesso da accuse di incompetenza non rende il fatto meno vero.
Quando la crisi terminerà, la Cina avrà ottenuto degli importanti guadagni in termini di influenza geopolitica rispetto all’occidente, a meno che l’occidente non risponda rapidamente e spieghi la disinformazione.
La storia che la Cina sta raccontando al mondo non è solo quella di dove il virus è iniziato. I suoi media controllati dal governo hanno dichiarato esplicitamente che il sistema cinese è superiore, notando come i partiti politici negli Stati Uniti hanno litigato su come rispondere, indicando altre carenze negli Stati Uniti e più in generale nell’occidente. Il messaggio non è solo di una competizione tra superpotenze, è anche di difesa dell’autoritarismo come sistema più adatto ad affrontare le crisi più grandi, significative.
In altre parole, sono precisamente le pratiche autoritarie della Cina che hanno permesso che un’epidemia a Wuhan diventasse una pandemia.
È anche un fatto, che altre democrazie, come il Sud Corea o Taiwan, hanno gestito il contenimento della loro propria epidemia di coronavirus senza le misure alle volte brutali intraprese in Cina.
La propaganda aggressiva della Cina sul coronavirus si svolge su diversi fronti. Vi sono espressioni ostentate, altamente pubblicizzate della generosità di Pechino verso Paesi che patiscono il peggio della pandemia – con aerei cinesi che forniscono bancali pieni di forniture mediche, diligentemente ed estensivamente diffuso dai media cinesi. Non è una coincidenza che anche la Russia si sia unita, cercando di vendere il suo presunto successo nell’impedire la diffusione del virus e inviando anche carichi di forniture mediche.
Come qualcuno ha notato, è bene vedere gli aerei russi fornire aiuti umanitari in Italia invece di sganciare bombe in Siria. Ma da dove venga l’aiuto, da Pechino o da Mosca, non vi è questione, che sebbene benvenuto, la sua intenzione non sia puramente umanitaria.
L’Europa, i suoi Stati membri, dovrebbero mettere da parte il loro risentimento per il rozzo modo con cui Trump ha gestito la pandemia, ignorando i suoi molti dispetti contro gli alleati, e smascherare la narrativa anti-occidentale di Pechino.
L’affermazione della Cina che Pechino ha svolto un lavoro ammirevole nell’affrontare il COVID-19, mentre le democrazie non sono attrezzate per affrontarlo è semplicemente una menzogna. L’epidemia si è diffusa precisamente perché Pechino ha risposto ad essa come un regime autoritario.
Nessuna quantità di aiuto cinese ai Paesi che adesso soffrono per la pandemia dovrebbe oscurare questa circostanza.
Vincitore del IV edizione del Premio Internazionale Ut Pictura poesis 2020 (settore saggistica edita)
Le guerre compaiono quasi inevitabilmente quando le identità sono minacciate, perché ad essere contestati sono i valori, le certezze ed i sistemi di credo di ciascun individuo. Il conflitto si intensifica quando ogni nuova minaccia rafforza e agita le identità del gruppo obiettivo e dei suoi membri, ampliando il divario tra i gruppi. Tale dinamica di intensificazione e il continuo aumento del consolidamento delle identità individuali e di gruppo che essa produce, potrebbe spiegare, parzialmente, l’alto grado di intricabilità che sembra essere la caratteristica di molti conflitti contemporanei. Il libro esamina il ruolo dell’identità e come essa possa favorire l’intensificazione del conflitto, ma anche impedirne la diminuzione, la risoluzione e la potenziale trasformazione. Il tratto caratteristico del potere complementare che, da solo, congiunge i gruppi diversi in società autentiche è la riconciliazione: il processo di lungo termine che è l’essenza della trasformazione – durevole – dei conflitti contemporanei. La trasformazione, fondamentalmente, è opposta alla re-imposizione di una struttura dominante con il mantenimento delle gerarchie in un gruppo o dello status individuale. La consapevolezza degli aspetti interpersonali di conflitto e delle dinamiche legate all’identità è utile a chiarire i modi in cui le scelte compiute da attori potenti potrebbero, in maniera controproducente, aumentare un confronto interculturale piuttosto che porsi al servizio di interessi strategici o di difesa di valori fondamentali. L’analisi del ruolo dell’identità nei conflitti in corso permette descrizioni sfumate dei processi attraverso i quali le relazioni tra gruppi in competizione (inclusi i raggruppamenti culturali e politici all’interno degli Stati, le organizzazioni transnazionali e gli attori non-statali) trasformano le narrative e le visioni del mondo.
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In linea generale tutti i Presidenti degli Stati Uniti finora hanno dovuto trovare un equilibro tra interessi in competizione ed assegnare una priorità agli obiettivi per ottenere i risultati desiderati.
Criticare le particolari priorità che il Presidente ha identificato e come esse sono perseguite fa parte del dibattito politico, è giusto così.
Un’altra cosa è quando si cerca sistematicamente di demolire i presidenti degli Stati Uniti in carica, in cattiva fede, giudicandoli (e condannandoli) per risultati o avvenimenti che non sono in grado di dettare. In questo modo il gioco che si persegue è quello di aumentare aspettative fuorvianti di un ruolo che forse non è quello che gli Stati Uniti ricoprono nel mondo di oggi.
La verità è che il potere relativo degli Stati Uniti rispetto al resto del mondo, sebbene considerevole e duraturo, sta diminuendo, ed è così da un po’ di tempo.
I presidenti degli Stati Uniti possono ancora esercitare una considerevole influenza sul corso degli eventi, ma non sono più nella posizione di dettare i risultati (se mai lo siano stati).
Donald Trump si è insediato come Presidente degli Stati Uniti con poca se non alcuna comprensione delle fondamenta della politica estera degli Stati Uniti, e ha dimostrato poca volontà o capacità di istruirsi circa la complessità della gestione degli interessi globali americani.
Il suo fallimento di coordinare strategicamente i molti, disparati e spesso generalizzati fronti della sua agenda “America first”, assomiglia ad una comitiva che ruota attorno a sé stessa in maniera difensiva, che si spara addosso piuttosto che sparare all’esterno.
Gli Stati Uniti sono eccessivamente dilatati in termini di obblighi globali, particolarmente riguardo alle garanzie militari e di sicurezza che elargisce ai suoi alleati ricchi. Trump ha preferito politiche che impongono alti costi rispetto ai guadagni che cerca di realizzare.
Ci sembra del tutto inverosimile che la vasta gamma di tensioni e di conflitti che vi sono al giorno d’oggi, la politica del rischio calcolato, possano essere dovuti unicamente alla gestione catastrofica della politica estera americana o che la responsabilità risieda unicamente negli Stati Uniti. L’India ed il Pakistan sono perfettamente capaci di mantenere un conflitto vecchio di 70 anni sul Kashmir ad un alto stato d’allerta senza assistenza esterna. La politica cinese del “un Paese, due sistemi” che governa Hong Kong è insostenibile intrinsecamente ed è stata legata ad uno scontro per la sicurezza a causa della spavalderia di Pechino. E la lista potrebbe continuare.
Durante le ultime tre decadi, gli Stati Uniti hanno individuato una comoda e praticabile soluzione per gestire molti, se non tutti questi problemi: l’ordine internazionale liberale che è cresciuto dal blocco occidentale ed ha trionfato nella Guerra Fredda. Questo trionfo era però solo parziale in Cina e in altre parti dell’Asia dove i regimi comunisti hanno adottato delle caratteristiche di una economia capitalista ma non ideali liberali di governo, così come in parti centrali e a sud dell’Europa, dove le stesse dinamiche si sono manifestate negli anni recenti tra i governi post-comunisti.
Nel frattempo molti conflitti sopravvissuti alla Guerra Fredda, periodicamente riemergono per ricordarci che nessun ordine mondiale è così perfettamente egemonico da rendere lo scontro ed il conflitto obsoleto. La violazione da parte degli Stati Uniti delle regole del sistema che essi stessi hanno promosso, particolarmente con l’invasione in Iraq del 2003, hanno significativamente danneggiato sia l’ordine globale che il ruolo degli Stati Uniti in esso.
Nondimeno, l’ordine internazionale liberale ha ben funzionato nel piegare le tensioni che potevano condurre ad una guerra e contenere i conflitti dove emergevano. Gli Stati Uniti hanno chiaramente tratto beneficio dal sistema internazionale che hanno contribuito a costituire e sostenere per 70 anni.
Nel perseguire un approccio commerciale a somma zero nei confronti degli alleati e dei rivali, Trump ha “normalizzato” gli Stati Uniti in un modo che minerà la loro capacità di agire sia come giocatore che come arbitrio della politica globale.
Pur tuttavia, gli Stati Uniti di Donald Trump sono più un sintomo dell’ordine internazionale “sfilacciato” che un attore che impoverisce e aggrava il sistema globale.
Negli anni che verranno, vedremo più presidenti americani, ma anche cinesi, russi, indiani e altri leader che contribuiranno al disfacimento dell’ordine. La tendenza secolare sarà una di un declino del potere relativo degli Stati Uniti e della loro influenza e un panorama più competitivo per leadership regionali e globali.
Un mondo senza un gendarme, uno sbirro globale, anche se imperfetto, riluttante, inconsistente non lascerà blocchi, ostruzioni al proprio posto per evitare che crisi locali e conflitti si diffondano a livello regionale o anche globale.
Sarebbe un errore precipitarsi in conclusioni di ipotesi pessimistiche.
Ricordiamo che il sistema delle istituzioni internazionali di oggi, le convenzioni e le norme che governano il comportamento degli Stati, in parte, è cresciuto da campagne costruite ad hoc per portare avanti specifiche cause umanitarie, come il divieto dell’uso delle armi chimiche e la regolamentazione del trattamento dei combattenti e dei civili in guerra.
Cosa voglia dire un mondo post-Stati Uniti per gli Stati Uniti non è certo. La Gran Bretagna e l’Austria una volta si sono sedute sulla cima di imperi, così come la Russia, la Turchia e l’India. A quale di esse assomiglieranno gli Stati Uniti dipenderà da come gestiranno il loro declino. Che questo genere di riflessioni non trovino spazio in dibattiti politici imparziali è comprensibile. Posporre una così necessaria discussione, potrebbe avere, potenzialmente delle conseguenze rischiose.
La Russia occupa una posizione insolita sul palcoscenico mondiale. Con il Presidente Vladimir Putin, Mosca ha ripetutamente dimostrato di avere la capacità di destabilizzare l’ordine internazionale, ma non quella di riempire il vuoto che sta creando.
Ciò che attira l’attenzione è l’utilizzo da parte di Mosca della vendita di armi e di contratti militari come mezzo di costruzione di legami con Paesi in Asia, Africa e America Latina.
Anche se Mosca mantiene un’ingrombante influenza sul palcoscenico globale, a casa il malcontento cresce. Putin ha dominato la scena politica russa per più di due decadi, ma la sua popolarità sta diminuendo tra la lenta economia e lo sforzo di riforma pensionistica profondamente impopolare. Questo potrebbe aprire la scena ai suoi oppositori politici per richiamare l’attenzione sulla corruzione e la violenza che hanno contraddistinto il suo mandato.
Strategia globale
La Russia ha scovato dei modi creativi per fare il passo più lungo della gamba negli affari globali. La disinvoltura dello schieramento delle forze speciali russe lungo la frontiera della Libia con l’Egitto, per fornire armi al Generale Khalifa Haftar, le cui forze dominano la parte est della Libia, potrebbe sembrare un fatto minore, in realtà è emblematico delle importanti tendenze della politica estera revanscista russa.
Quando Gheddafi controllava la Libia dal 1969 al 2011, era un eccellente cliente di armamenti e consulenza militare russa. Nel caos dopo la sua deposizione e poi morte, l’ambasciata russa a Tripoli fu attaccata e tutti i diplomatici e le loro famiglie ritirate. Sembrava che Mosca avesse dichiarato la Libia irrecuperabile. Ora, sta rientrando in questo ambiente politico caotico in Nord Africa come parte di una strategia globale tridimensionalecostruita per rafforzare la Russia politicamente, arricchirla economicamente e permettere di spingere in avanti il suo peso in un ambiente di sicurezza che cambia rapidamente.
Le dimensioni della strategia tridimensionale russa
La prima dimensione è l’intimidazione. Focalizzata sulle nazioni vicine, particolarmente quelle che una volta erano parte dell’Unione Sovietica o del vecchio impero russo, tale dimensione è progettata per assicurare che i governi vicini siano amichevoli e servili o almeno timorosi di Mosca. Ciò riflette il bisogno della Russia di zone cuscinetto di sicurezza attorno alla sua periferia, una geografia che le permise di essere invasa molte volte nel passato.
L’intimidazione russa assume una serie di forme, inclusa la pressione economica, gli attacchi cyber, come quello del 2007 all’Estonia e quelli del 2017 all’Ucrania, l’aggressione proxy da parte di alleati locali, spesso di etnia russa sparpagliati nel vecchio impero russo e sovietico e in casi estremi come quello della Georgia del 2008: l’intervento militare diretto.
Oggi è l’Ucraina l’obiettivo principale dell’intimidazione russa, ma altre nazioni vicine con meno capacità di resistere, hanno, ad un livello o un altro, ricevuto il messaggio. Anche Paesi che non hanno seguito l’esempio della Bielorussia e diventate completamente accondiscendenti verso Mosca cercano ancora di evitare il più possibile la sua ira.
La seconda dimensione è l’indebolimento dell’ordine mondiale costruito dall’Occidente, particolarmente attorno al Mediterraneo. Come l’intimidazione dei vicini, questo riflette dal strategia sovietica dalla Guerra Fredda. Parte dal suo ostruzionismo politico, utilizzando il veto nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per delegittimare o ostacolare gli sforzi collettivi americani ed europei per prevenire il genocidio durante la guerra civile libica; per arrivare ad apporre pressione al presidente siriano Bashar al-Assad affinchè lasciasse il potere, o almeno per negoziare la fine della disastrosa guerra civile in quel Paese.
Il collasso del Vecchio ordine nel Medio Oriente ed in Nord Africa sta creando mercati nuovi ed in espansione per armamenti russi e influenza.
La Russia utilizza differenti metodi per indebolire direttamente gli Stati Uniti e le nazioni europee, affidandosi fortemente alla guerra d’informazioneper alimentare le divisioni politiche occidentali e minare la fiducia nelle istituzioni politiche. La “fabbrica dei troll” nei social media e la propagazione russa di “fake news” hanno influenzato le elezioni occidentali ad un grado significativo e forse anche decisivo. Mentre la Russia non ha creato quella sorta di iper-partigianeria ed eroso il volere nazione che sta indebolendo gli Stati Uniti ed altre nazioni europee a livello locale, essa le ha sfruttate in maniera più efficace rispetto a quanto avrebbe potuto l’ideologicamente limitata Unione Sovietica. Ciò è stato possibile a causa dell’assenza di una difesa collettiva chiara e definita degli Stati Uniti e degli alleati europei contro la guerra politica della Russia e dell’esistenza di leader politici occidentali, movimenti ed organizzazioni, disponibili a tollerare la manipolazione della Russia (fino a quando li beneficia).
La terza dimensione è la più commerciale: creare e proteggere i mercati per la vendita di armi. Questo è il motivo, reale, per cui Mosca sta cercando di tornare in Libia e, più importante, perché protegge Assad. A parte le armi, pochi beni fabbricati in Russia sono competitivi nell’economia globale; ciò la spinge ad affidarsi alle materie prime ed alle esportazioni energetiche. I leader russi sanno che un grande potere – uno status che vogliono disperatamente – deve fare di più che vendere merci.
La Russia può portare a termine questa dimensione della sua strategia perché le sue armi sono competitive nel mercato globale e, più importante, non ha alcun dubbio su chi siano i suoi clienti. Compratori come Haftar, Assad hanno poche altre scelte. Dal momento che le armi russe sono state collaudate nel loro utilizzo nella guerra civile siriana, Mosca sta cercando di aprirsi il mercato in nazioni che un tempo compravano armi solo dagli Stati Uniti e dall’Europa. Questo elenco include gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrain, il Qatar, l’Arabia Saudita e la Turchia.
Queste tre componenti della strategia russa si rafforzano vicendevolmente e formano un piano globale efficiente e coerente, indebolendo l’Occidente politicamente, se non strategicamente, Mosca espande il suo mercato potenziale per la vendita globale di armi. Le esportazioni di armi, a loro volta producono denaro contante che può essere utilizzato per potenziare l’esercito russo e mettere a tacere ogni opposizione domestica al presidente Vladimir Putin, creando un flusso di denaro per alimentare la fedeltà delle élite russe. Piuttosto che minacciare la Russia o esserci qualcosa che Mosca vuole aiutare ad affrontare, il collasso in corso del vecchio ordine nel Medio Oriente ed in Nord Africa sta creando nuovi mercati in espansione per gli armamenti russi, e a sua volta, influenza.
Nel breve periodo, tuttavia, la Russia probabilmente non vuole completare la rovina dell’ordine globale esistente dal momento ciò avrebbe come risultato il caos, ma vuole indebolire il sistema. Ciò ci suggerisce che fino a quando gli Stati europei e gli Stati Uniti rimarranno incerti sul loro ruolo nell’ordine internazionale post-guerra, la Russia perseguirà la strategia tridimensionale che ha reso una nazione con una profonda debolezza politica ed economica un giocatore globale.
Media statunitensi diffondono la notizia che il figlio di Osama bin Laden, Hamza è stato ucciso da un drone (armato, ovviamente), citando dei funzionari dei servizi di sicurezza. Il Pentagono tuttavia non diffonde nè il posto dell’avvenuta uccisione, nè la data. I pochissimi commenti in proposito sui siti jihadisti affermano che tale notizia è falsa ed è l’ennesima strategia per indurre Hamza ad uscire dal suo nascondiglio.
Questa notizia ci rimanda ad uno dei temi ricorrenti quando si discute di organizzazioni estremiste che utilizzano la tattica del terrorismo, vale a dire la decapitazione di tali gruppi.
La decapitazione, vale a dire l’uccisione del o dei leader di organizzazioni terroristiche rappresenta uno strumento di contro-terrorismo ad alto valore simbolico. Tuttavia la forza militare impiegata non sembra essere sufficiente a decretare, per sé, la fine di un’organizzazione terroristica d’ispirazione religiosa.
La storia ci dimostra che malgrado l’uccisione dei leader “precursori” dello Stato islamico (IS): Abu Musab al-Zarqawi, Abu Hamza al-Muhajir, Abu Umar al-Baghdadi, il gruppo è cresciuto. Lo stesso è accaduto dopo l’uccisione di Osama bin Laden: Al Qaeda (AQ) è sopravvissuto e ha continuato a istituire affiliati seguitando ad essere una minaccia.
Per cercare di capire se l’uccisione dei leader di gruppi come IS o AQ sia efficace, vale la pena di ricordare le caratteristiche principali dei gruppi terroristici d’ispirazione religiosa.
I terroristi religiosi vedono il mondo nei termini in cui “noi siamo le persone di Dio e “loro sono i nemici di Dio”. Questa interpretazione morale del conflitto si è provata straordinariamente efficace in tutta la storia occidentale nel consolidare l’identità dei gruppi cristiani. Il loro impegno per un’idea religiosa o per un gruppo religioso li guida a de-umanizzare i loro avversari ad un grado tale che diventano capaci di uccidere. Il terrorismo religioso è una guerra psicologica e spirituale.
I gruppi religiosi sono altamente resistenti agli attacchi alla loro leadership.
La convinzione che l’uccisione dei leader sia efficace è basata sulla nozione che la leadership sia essenziale al funzionamento di un’organizzazione. Sono stati condotti molti studi sull’efficacia di questo strumento di contro-terrorismo. Alcuni studiosi come Langdon et al. affermano che le organizzazioni religiose raramente si sciolgono quando il leader viene ucciso perché sono caratterizzate da una forte coesione fondata sugli insegnamenti del leader – sebbene carismatico – che i seguaci tendono inesorabilmente a seguire anche nel vuoto di leadership che si crea. Per Martha Crenshaw, esperta internazionale di studi sul terrorismo, l’uccisione del leader è meno efficace in gruppi molto grandi, evidenziando che l’utilità sarebbe maggiore qualora l’organizzazione fosse nei momenti successivi alla creazione.
Perché ciò risulta vero per organizzazioni religiose terroriste come AQ o IS?
La risposta si trova sia nella tipologia della loro organizzazione, che può definirsi “ibrida”: vale a dire una combinazione di network virtuali, organizzazione con quadri, affiliati e “indipendenti” sia, e soprattutto, nella loro missione. La storia del “noi” contro “loro”: distingue il puro dall’impuro e crea l’identità del gruppo.
I fondamentalisti vedono i testi religiosi come delle guide infallibili di vita. Per coloro che vedono le scritture come la parola esatta di Dio, le persone che le leggono e le interpretano sono umani e fallibili, un concetto che i fondamentalisti spesso sono incapaci di concettualizzare se si applica a loro stessi, sebbene siano felici di applicarlo ad altri.
Va notato che ciò non è particolare dell’IS o di altri gruppi jihadisti, si applica a molti fondamentalisti violenti in un ampio raggio di ideologie.
I lettori portano i loro pregiudizi e dolori nei testi religiosi. Quello che sembra più seducente dei gruppi fondamentalisti violenti è la semplificazione della vita e del pensiero. La vita è trasformata attraverso l’azione, il martirio fornisce l’ultimo sollievo dai dilemmi della vita, specialmente per individui che si sentono profondamente alienati, confusi, umiliati o disperati. Il razionale impiegato dai fondamentalisti religiosi è – questo vale per ogni tipo di religione –la diagnosi di un declino morale causato dal rifiuto di principi religiosi e argomentano che il declino può essere fermato solo ritornando a questi principi. Nella gamma di opzioni c’è quella di scegliere la violenza e utilizzare il terrorismo motivandolo con la religione.
Nei gruppi terroristi d’ispirazione religiosa gli insegnamenti del leader dunque guidano i seguaci internamente ed esternamente e seppure il leader sia caratterizzato da un forte carisma, i suoi insegnamenti religiosi trascendono la sua figura umana e resistono anche dopo la sua morte. In verità molti leader religiosi uccisi vengono poi venerati dopo la morte.
Alla luce di quanto detto finora la risposta che ci sembra più efficace per questo tipo di gruppi non è quella dell’uccisione della leadership, ma piuttosto quella informata da un punto di vista sia psicologico che spirituale.
Appare oltremodo necessario comprendere che i terroristi religiosi hanno l’obiettivo non solo di spaventare le loro vittime in senso fisico, ma anche di diffondere un certo tipo di timore spirituale per spostare il loro stesso timore esistenziale di sconfitta culturale e spirituale nelle loro vittime.
Per combattere il terrorismo religioso è necessario un esame non solo della nostra tendenza a reagire in maniera esagerata di fronte a questo tipo di paure, incluso la demonizzazione dei perpetuatori e i loro sostenitori o correligionari, ma anche come le loro azioni e razioni si sviluppino nelle loro stesse mani, a prescindere dal vertice del gruppo.
Ciò dovrebbe far preoccupare se non altro per la fragile e instabile democrazia albanese.
Se l’Albania venisse coinvolta in uno dei conflitti geopolitici più pericolosi al giorno d’oggi, quello che contrappone l’Iran agli Stati Uniti, Arabia Saudita ed altri Stati del Golfo, la tempistica non potrebbe essere la peggiore, visto che il Paese è nel bel mezzo di una dichiarata crisi politica che in alcune occasioni è diventata violenta ed il cui risultato non è ancora chiaro.
Membro della NATO, l’Albania sta anche cercando da anni, senza successo, di entrare nell’Unione Europea; gli odierni disordini allontanano ancora di più tale obiettivo. A peggiorare la situazione è che la circostanza per cui la conflittualità interna ha trasformato l’Albania in un obiettivo invitante per attori maligni che cercano di trarre vantaggi da una nazione distratta e divisa.
Il MEK
Giuliani, assieme ad altre prominenti figure, incluso l’ex senatore americano Joe Lieberman e il conservatore inglese Matthew Offord, hanno dunque partecipato alla conferenza “Free Iran” del gruppo conosciuto come Organizzazione del popolo mujahedin dell’Iran e Mujahedin-e Khalq ovvero MEK. Gruppo ambiguo impegnato nel rovesciamento del regime teocratico iraniano, il MEK spesso è descritto come un culto e utilizzato per essere classificato dal Dipartimento di Stato americano come un’organizzazione terrorista.
Al momento i sostenitori principali del MEK lavorano per Trump e la sua amministrazione, collocando l’Albania nel bel mezzo del dossier iraniano. Forse il più grande sostenitore del MEK è John Bolton il consulente di sicurezza nazionale di Trump, il quale desidera che il MEK governi l’Iran.
Il MEK ha una storia strana e controversa. Esso è emerso come organizzazione marxista- islamista e milizia in Iran negli anni 1960 ed era devotamente anti-americano. Uccide i membri della polizia dello Scià e riveste un ruolo chiave nella sua caduta durante gli anni della rivoluzione del 1979. Tuttavia a seguito di aspre discussioni con le nuove autorità islamiche al potere viene esiliato dal Paese agli inizi degli anni 1980. Quando l’Iraq di Saddam Hussein entra in guerra contro l’Iran, il MEK – adesso opposto fervidamente alla Repubblica islamica dell’Iran – si schiera a fianco di Baghdad e finisce per costruire una base di operazioni in Iraq vicino alla frontiera con l’Iran, da cui conduce attacchi all’interno dell’Iran.
Quando le forze americane invadono l’Iraq e depongono Saddam nel 2003 il gruppo era ancora nel Paese; all’aumento vertiginoso del caos, gli agenti iraniani iniziano ad avere come obiettivo il MEK.
Obama e l’accordo per ricollocare i membri del MEK in Albania
L’amministrazione Obama rimuove l’organizzazione dalla lista di gruppi terroristi del Dipartimento di Stato nel 2012 e dopo una lunga e dispendiosa campagna di lobby a Washington da parte del MEK e dei suoi simpatizzanti, si conclude un accordo per ricollocare alcuni dei 3000 membri del MEK in Albania, un Paese entusiasta di mantenere forti legami con gli Stati Uniti.
Da quando si trasferisce in Albania, il MEK riceve minore attenzione internazionale, ma tutto cambia con l’amministrazione Trump. Figure chiavi di tale amministrazione sostengono il gruppo, alcuni come donatori, altri per convinzioni ideologiche: Bolton e Giuliani, in particolare, hanno promosso il gruppo come legittimo governo in esilio che dovrà sostituire la Repubblica islamica, anche se questo gruppo all’interno dell’Iran gode di poco sostegno.
I riflettori dell’amministrazione Trump puntati sul MEK senza dubbio attirano l’attenzione di Teheran come momento politico pericoloso in Albania.
La crisi politica in Albania
Il governo albanese è piombato nella crisi agli inizi di quest’anno quando i partiti di opposizione si sono ritirati dal Parlamento e hanno chiesto le dimissioni del Primo Ministro Edi Rama, accusandolo di corruzione, di manovre elettorali e di legami con il crimine organizzato.
La corruzione è endemica in Albania dalla fine del governo comunista, ma Rama gode del sostegno degli Stati Uniti e di molti Stati dell’Unione Europea.
La crescita della visibilità del MEK nel quadro della contrapposizione tra Trump e l’Iran potrebbe rendere l’Albania più vulnerabile che mai ad intromissioni esterne.
Le tensioni a Tirana si sono verificate lo scorso mese, dopo che un giornale tedesco, il Bild, pubblica delle conversazioni, parte di intercettazioni disposte dai magistrati che indicano che Rama ed il partito socialista tramano con i gruppi criminali per manipolare le elezioni nel 2016. Sia Rama che il suo partito negano tali fatti. Tuttavia i suoi oppositori scendono in strada e ne derivano dei feroci scontri con i manifestanti che lanciano le bottiglie molotov e la polizia che risponde con i cannoni ad acqua.
La situazione si deteriora ulteriormente quando l’opposizione dichiara che avrebbe boicottato le elezioni comunali di giugno. Il Presidente Ilir Meta annuncia che avrebbe cancellato il voto riprogrammandolo per ottobre, affermando che senza l’opposizione le elezioni non sarebbero state democratiche.
Il partito di Rama, invece si rifiuta di accettare la mossa del Presidente e asserisce che avrebbe iniziato le procedure di messa in stato d’accusa del Presidente. Quindi si è proceduto con il voto. La partecipazione elettorale si rivela essere minima. Mentre i vincitori delle elezioni sono pronti a prendere il loro posto, alcuni sindaci uscenti si rifiutano di lasciare il loro ufficio.
La scena politica albanese rimane turbolenta, carica di tensione e di teorie di cospirazione. Meta accusa Rama di essere uno strumento del “deep State” (un termine che si riferisce ad una sorta di Stato ombra) e che lavora assieme al filantropo miliardario George Soros per destabilizzare l’Albania e ristabilire una dittatura che includa il Kosovo.
In questo scenario tuttavia vi è una scadenza incombente per l’Albania: ad ottobre il Consiglio Europeo prenderà la decisione in merito all’inizio formale dei colloqui di adesione con l’Albania.
Gli scontri urbani, gli insulti e le teorie di cospirazione sembrano essere a sostegno della visione degli scettici per cui la democrazia albanese non è matura o abbastanza stabile per entrare nell’Unione Europea.
Se questo non fosse grave abbastanza, le complicazioni con l’Iran potrebbero fermentare nell’area della campagna albanese dove si trova il MEK, accrescendo i rischi di interferenza iraniana.
L’Iran registra un ben noto record nello scovare e assassinare dissidenti nel Medio Oriente e in Europa.
L’obiettivo del MEK resta il rovesciamento del regime iraniano, sebbene ora asserisca di aver rinunciato alla violenza.
Il potenziale per una nuova crisi in Europa e all’interno della NATO, con al centro l’Albania, è molto reale.