Maggio 21 2017

Relazioni di vicinato: l’Iran e la Turchia nel “dopo Mosul”

relazioni

Dopo la piena riconquista di Mosul quali saranno le relazioni tra  due vicini eccellenti dell’Iraq: Iran e Turchia?

La Turchia è preoccupata che tutto quello che ha ottenuto finora il governo iracheno a maggioranza sciita, amico dell’Iran, sia parte di una più ampia strategia di Teheran per espandere la propria influenza nelle aree sunnite dell’Iraq del nord.

Quello che inquieta maggiormente il presidente turco Recep Tayipp Erdogan è il potenziale asse pro-iraniano lungo la frontiera del nord dell’Iraq che comprende elementi del Kurdistan Workers’ Party o PKK così come le milizie yazide dell’area.

Per questo motivo la retorica turca si è alzata di livello, inasprendosi, tanto che Erdogan si è riferito, lo scorso mese, alle milizie irachene pro-governative (al-Hashad al-Shaabi – unità di mobilitazione popolare) come un’organizzazione terroristica.

Erdogan ha certamente le capacità di anticipare ogni imminente asse iraniano-curdo nel nord dell’Iraq. L’esercito turco ha una stima di 2,000 truppe all’interno dell’Iraq. Una buona parte di questa forza è focalizzata nel combattere i militanti del PKK sulle montagne Qandil del Kurdistan iracheno, con altre 500 truppe stazionate nel campo Bashiqa, circa 50 chilomentri dalla periferia di Mosul.

Ankara ha anche una influenza politica e militare sul clan Barzani dominante nel Kurdistan iracheno e sulle famiglie influenti arabe sunnite intorno a Mosul, incluso la famiglia Nujaifi.  Infine, Erdogan ha segnalato la sua volontà di utilizzare bombardamenti aerei per dissuadere un significativo consolidamento delle forze pro-iraniane; l’aviazione turca ha recentemente colpito posizioni del YPG, la principale milizia curda siriana a Sinjar.

La Turchia, teoricamente, potrebbe chiedere aiuto ad altri paesi. L’Arabia Saudita e i suoi alleati arabi del Golfo hanno anche loro preoccupazioni circa l’espansione dell’Iran nelle aree irachene sunnite. Il potenziale per un’alleanza più stretta e coordinata nell’area tra queste potenze sunnite non può essere esclusa.

I rischi della strategia turca

Se la Turchia volesse lanciarsi a capofitto in uno scontro con le milizie alleate dell’Iran dovrebbe affrontare un nemico molto capace e ben equipaggiato. Inoltre, proprio queste milizie hanno già minacciato di ingaggiare direttamente le forze turche se Erdogan dovesse ordinare ulteriori incursioni nel territorio iracheno.

La profondità strategica dell’Iran in Iraq fornisce a queste milizie un rifornimento illimitato di combattenti: sciiti motivati da reclutare e far combattere per una lunga e sanguinosa campagna contro la Turchia.

Gli interessi della Turchia e dell’Iran 

Primo: la Turchia e l’Iran abilmente utilizzano la loro relazione come un contrappeso alla presenza (e potenza) occidentale nella Regione. In questo contesto si vedono l’un l’altro come una sorta di valvola di sicurezza contro la pressione esterna esercitata dall’occidente.

Erdogan non è certamente spaventato dal “gioco” di Iran e Russia contro Stati Uniti, ad esempio, nell’intento di esercitare pressione su Washington affinché non sostenga più l’YPG (che ha legami con il PKK; ma partner americano affidabile sul terreno contro lo “Stato islamico”). Questo tipo di “gioco” si è pienamente manifestato  a dicembre 2016, quando la Turchia ha contribuito ad un nuovo corso di colloqui di pace sulla Siria con l’Iran e la Russia senza il coinvolgimento degli Stati Uniti.

L’Iran, dalla parte sua, conta sulla Turchia per resistere agli sforzi occidentali di isolarla completamente nella regione.

Secondo: sebbene la Turchia e l’Iran appoggino elementi curdi separati in Iraq, entrambi i paesi condividono delle valutazioni ampiamente sovrapposte sulla questione del nazionalismo curdo. Mentre Ankara ha recentemente mostrato una maggiore volontà di lavorare con il Kurdistan iracheno semi-autonomo, la sua posizione è improbabile che cambi quando deve opporsi alla piena indipendenza curda. La visione dell’Iran è simile. Lo scorso mese, entrambi i paesi hanno fortemente protestato contro la decisione del governo regionale curdo di Irbil di alzare la bandiera curda vicino a quella irachena su un palazzo governativo locale a Kirkuk; alcuni politici curdi hanno interpretato questi messaggi come delle velate “minacce”.

Gli interessi economici che non possono essere ignorati

Consideriamo ad esempio i legami energetici: la Turchia al momento importa 30 milioni di metri cubici di gas Iraniano, volume che entrambe le parti sembrano intenzionate ad accrescere nei prossimi anni.

Per cui malgrado qualche retorica accesa tra la Turchia e l’Iran, il risultato più probabile è qualche sorta di accordo in Iraq.

L’Iran potrebbe accordarsi nel “trattenere” i leader delle milizie più anti-turche nelle forze popolari di mobilitazione irachene, mentre limita il loro supporto agli elementi del YPG in Iraq. La Turchia in cambio potrebbe accordarsi nel migliorare le sue relazioni tese con il governo centrale a Baghdad e coordinare meglio la lotta all’IS con l’Iraq e l’Iran.

Se e quando l’IS sarà sconfitto nel nord dell’Iraq, l’immediato vuoto politico nel cuore sunnita sicuramente sarà un banco di prova per le relazioni turco-iraniane.

Sebbene i legami tra due vicini eccellenti dell’Iraq continueranno a flettersi, è improbabile che si spezzino.

Ankara e Teheran hanno una storia di compartimentalizzazione delle loro relazioni nelle passate decadi. Continueranno ad essere profondamente in disaccordo su certe questioni nella regione, ma nessuna parte ha al momento un interesse profondo nel permettere che questi disaccordi mettano a rischio le loro funzionanti relazioni bilaterali.

Maggio 12 2017

Se in Afghanistan la vera minaccia non fosse lo “Stato islamico”?

minaccia

L’Afghanistan è un problema perfido, intricato e quasi incomprensibilmente complesso con una crescente e grande varietà di soggetti che giocano un qualche ruolo o che hanno degli interessi in ballo. All’interno dell’Afghanistan c’è un miscuglio di attori con obiettivi divergenti ed incompatibili.

Il Generale americano Nicholson ha chiesto, a febbraio, al senato americano truppe aggiuntive e l’amministrazione Trump sta considerando di dispiegarne 5,000 in più rispetto alle 8,400 unità già presenti nel paese. Potrebbe essere abbastanza per prevenire il collasso del governo, ma non risolverebbe i problemi chiave del paese.

All’inizio di questa settimana il Pentagono ha confermato che Abdul Hasib Logari, uno dei maggiori comandanti dello “Stato islamico” (IS) in Afghanistan è stato ucciso. Si è trattato di un’operazione congiunta tra Stati Uniti  e Afghanistan nell’est del paese condotta alla fine di aprile. In questa operazione sono stati uccisi due Rangers americani, in seguito è stata lanciata la GBU-43/B la Massive Ordnance Air Blast Bomb (MOAB) su una complessa rete di tunnel dell’IS. Questa bomba rappresenta la più grande arma convenzionale nell’arsenale americano e ha rappresentato una drammatica intensificazione delle operazioni americane contro l’IS -Provincia Khorasan.

Gli ufficiali militari americani hanno spiegato che è la deterrenza l’obiettivo di queste operazioni: impedire che la leadership dell’IS si ricollochi in Afghanistan a seguito della pressione che sta subendo in Iraq e Siria.

Il portavoce della Casa Bianca ha descritto la sconfitta dell’IS come una priorità principale della strategia dell’amministrazione Trump in Afghanistan.

La minaccia posta dal gruppo estremista al governo di unità nazionale guidato dal presidente Ashraf Ghani e agli interessi americani nella regione è relativamente bassa paragonata a quella attuale rappresentata dai Talebani, per non menzionare le fragili e deboli dinamiche politiche, la mancanza di risorse adeguate che flagellano gli sforzi del governo afgano per riprendere il controllo del paese.

Il fulcro della leadership dell’IS-Provincia di Khorasan in Afghanistan era centrata attorno ad una fazione scissionista di Tehreek-e-Taliban (TTP).  Se da un lato è verosimile preoccuparsi che l’IS-Provincia di Khorasan stia reclutando nei centri urbani dell’Afghanistan,  dall’altro molti rapporti indicano che i militanti locali spostano la loro affiliazione dai Talebani verso l’IS-Provincia di Khorasan su linee opportunistiche o di “semplice” disaffezione.

Tuttavia oggi l’organizzazione di Abu Bakr al-Baghdadi rimane accentrata nelle montagne Nangarhar, dove gli Stati Uniti e le forze afghane hanno lanciato ripetute operazioni durante lo scorso anno. La più recente valutazione della NATO, prima dell’attacco con MOAB, indica che il gruppo estremista può contare su circa 700 militanti nel paese, meno delle svariate migliaia stimate nel momento del punto più alto di capacità del gruppo stesso.

La pressione esercitata sul gruppo a Nangarhar ha avuto come risultato che l’IS-Provincia di Khorasan abbia spostato in maniera crescente  le sue azioni verso una strategia di attacchi di alto profilo, nella capitale Kabul, con moltissime vittime; prima avendo come obiettivo la minoranza sciita e più recentemente attaccando l’ospedale militare. In Pakistan il gruppo ha anche condotto un certo numero di attacchi bomba in luoghi sacri e su altri obiettivi primari civili, in alcuni casi apparentemente di concerto con gruppi secessionisti dei Talebani e altri militanti locali.

La minaccia  di lungo termine dell’IS in Afghanistan è limitata

Sebbene i militanti dell’IS-Provincia di Khorasan continuino a lottare contro le forze afgane e americane, la minaccia di lungo termine di questo gruppo allo stato afgano appare essere limitata, dato la sua estensione ristretta all’interno del paese e la competizione che deve affrontare per il reclutamento ed il sostegno da parte di altri gruppi militanti in Afghanistan.

I Talebani sono molto più robusti dal punto di vista sociale, finanziario ed amministrativo e godono di strutture militari a rete e del sostegno delle agenzie di sicurezza pakistane.

Fondamentalmente i Talebani pongono una minaccia di gran lunga superiore al governo afgano rispetto all’IS.

Malgrado l’impegno “comune” per un governo islamico e l’opposizione al governo afgano e ai suoi sostenitori internazionali, i Talebani e i militanti dell’IS si sono affrontati ripetutamente nel paese. Nelle ultime settimane si sono scontrati talmente tanto che la presa dell’IS a Nangarhar sembra si stia indebolendo.

La visione strategica dell’amministrazione Trump oscilla tra l’approccio istintivo di Trump e la pressione dei militari per continuare ad usare solo la forza armata.

L’odierna revisione da parte dell’amministrazione Trump della strategia americana in Afghanistan pare proprio che stia considerando un rilancio del sostegno finanziario e di consulenza al governo afgano e alle forze di sicurezza così come la scomparsa di alcune restrizioni operative sulle forze americane, delegando più autorità sulla questione del targeting e sul processo decisionale sul campo.

La mancanza di restrizioni operative potrebbe essere già cosa fatta, perché molti rapporti sui recenti attacchi contro l’IS suggeriscono che siano stati condotti dai comandanti americani sul campo piuttosto che dietro ordine dei politici di Washington.

Il rischio tuttavia è alto: questo tipo di approccio potrebbe fare in modo che le priorità tattiche di breve termine guidino la strategia americana senza avere chiara la fine. In altre parole si procede per risultati brevi sul campo senza aver pianificato null’altro e tanto meno una exit strategy.

Le bombe, le operazioni speciali, non sono la panacea a tutti i mali

Le sfide economiche, politiche e di sicurezza che affronta e deve affrontare il governo afgano, incluso il più resiliente e ampiamente diffuso gruppo estremista dei Talebani, sono troppo complesse per essere risolte attraverso un miglioramento di attacchi aerei o di operazioni speciali sebbene siano efficaci per colpire gli obiettivi. Per raggiungere una stabilità ampia e durevole, c’è bisogno di mettere in priorità l’impegno regionale diplomatico con gli Stati confinanti come il Pakistan, l’Iran, l’India e la Russia e allo stesso tempo spingere per una ripresa del processo di pace tra i Talebani e il governo afgano.

L’amministrazione Trump che ha nel paese un corpo diplomatico a corto di personale, con la minaccia di ulteriori tagli e una leadership di sicurezza nazionale che viene selezionata tra coloro che hanno più esperienza militare non può ignorare il bisogno di un consenso sulle regole politiche per la divisione del potere ed una struttura statale più sostenibile.

Dal più basso al più alto grado, i militari americani hanno un profondo interesse psicologico in Afghanistan, avendo dedicato molto alla stabilizzazione del paese in questi 16 anni. Una grande porzione dei militari americani, sia quelli che indossano ancora l’uniforme e sia quelli che sono tornati ad una vita civile, hanno perso i loro amici lì. Molti credono che lo sforzo parallelo condotto in Iraq abbia creato le condizioni di vittoria in quel paese, per vedere persi i loro sforzi dalla decisione politica di disimpegnarsi dall’Iraq. Questo influenza il loro modo di pensare rispetto all’Afghanistan e significa che molti militari con tutta probabilità consiglieranno Trump di continuare l’impegno afgano.

La minaccia di intensificazione militare potrebbe funzionare contro avversari come i regimi, ma ci sono pochissime indicazioni che questo funzioni con gruppi estremisti non statali.

Sebbene la strategia di sicurezza nazionale di Trump è ancora agli stadi iniziali, è già chiaro che questa amministrazione ha due vie distinte di approccio alle sfide e agli avversari. Una è di mandare un messaggio che gli Stati Uniti hanno l’abilità e, sotto la leadership di Trump, la volontà di intensificare se l’avversario non modera il suo comportamento. Questa è la via adottata da Trump per il Nord Corea, la Cina, l’Iran e la Siria. Il successo di questo approccio dipende totalmente dalla credibilità dell’intensificazione.

Le scelte sembrano essere due: perdere ora o perdere più tardi.

Aprile 29 2017

Attori solitari: l’arma subdola dell’Islamic State

attori solitari
Gli attori solitari sono una delle armi più subdole dell’IS. Tornati o mai partiti, adolescenti, uomini e donne che anche senza ordine preciso dell’IS colpiscono in suo nome.

Innanzitutto chiariamo cosa vuol dire il termine “attore solitario”. Esso connota qualcuno che agisce senza connessione diretta con l’organizzazione estremista. Tuttavia, anche se potrebbe trarre in inganno, la frase è comunemente usata per riferirsi alle persone che agiscono individualmente o in piccole cellule con il minimo supporto da parte del gruppo estremista che usa la tattica del terrorismo.

La potente proiezione dell’IS esercita una spinta gravitazionale su persone vulnerabili in tutto il mondo, ma non tutte queste persone entrano nella sua orbita. Alcuni non possono viaggiare fino in Medio Oriente perché impediti da circostanze personali, ostacoli esterni o mancanza di immaginazione. Vista la non partecipazione al progetto IS all’estero, alcuni decidono di partecipare a casa, attraverso atti di violenza.

Fin dagli inizi l’IS prevede l’utilizzo di “operazioni esterne”

Nel marzo del 2014, quando in Occidente pochissimi contemplavano un intervento in Siria ed in Iraq, l’IS già si avvaleva di operativi che lavoravano alla causa del “caos” nelle società di tutto il mondo. A maggio, un cittadino francese di discendenza algerina, Mehdi Nemmouche colpisce ed uccide 4 persone nel museo ebraico del Belgio prima di sparire dalla scena. Quando fu arrestato in una stazione ferroviaria in Francia, qualche giorno dopo, la polizia trova nel suo bagaglio un video che lo ritrae con la bandiera dell’IS  mentre rivendica la responsabilità dell’attacco.
La velocità delle “operazioni esterne” dell’IS aumenta significativamente. Gli incidenti assumono diverse forme. Cittadino inglese di 19 anni  che viene arrestato per le strade di Londra con addosso un coltello, un martello e una bandiera dell’IS. In Francia due ragazze adolescenti, di 15 e 17 anni, vengono arrestate perché pianificavano di mettere una bomba della sinagoga a Lione. In Australia la polizia arresta 15 persone in una serie di interventi della polizia perché progettavano di decapitare a caso una serie di cittadini australiani e avvolgere i loro corpi con la bandiera dell’IS per poi mostrarli al pubblico. Il piano era stato diretto per telefono da un reclutatore australiano dell’ISIS in Siria.

Il richiamo ufficiale agli attori solitari di tutto il mondo

E’ il portavoce dell’IS, Abu Muhammad al Adnani (ucciso recentemente da un drone americano), che sollecita i sostenitori di tutto il mondo ad alzarsi e a rispondere agli attacchi aerei dell’occidente compiendo attentati contro ogni cittadino dei Paesi a cui appartengono e che fanno parte della coalizione anti IS:

Lone wolves

Distruggete il loro letto. Se tu puoi uccidere un miscredente americano o europeo – specialmente i perfidi francesi – oppure un australiano, un canadese o ogni altro miscredente della guerra dei miscredenti (…) poi conta su Allah, e uccidilo in ogni maniera o modo. Non chiedere a nessuno consiglio e non cercare il verdetto di nessuno. Uccidi il miscredente che sia civile o militare. Rompigli la testa con una roccia, o massacralo con un coltello, o passagli sopra con una macchina, o o buttalo giù da un posto alto oppure strangolalo o avvelenalo. Se non sei capace di farlo, allora brucia la sua casa, la sua macchina, il suo luogo di lavoro. Oppure distruggi le sue armi”.

Dal momento della diffusione di questo messaggio in poi, si sono susseguiti una serie di attacchi: un 18 enne pugnala due poliziotti; il 25 enne Martin Couture – Rouleau investe con la sua macchina due soldati canadesi in un parcheggio, in Quebec, per poi uscire dalla macchina armato di coltello. Uno dopo l’altro, giorno dopo giorno. Il 32enne americano, Zale Thompson, attacca due poliziotti newyorkesi con un’ascia; per citarne alcuni. Attacchi che continuano per tutto il 2015.

L’uso degli attori solitari pone l’IS in una posizione di supremazia rispetto agli altri gruppi estremisti di natura religiosa

Per anni Al Qaeda aveva incoraggiato questo tipo di attacchi, con raro successo. Gli attori solitari inspirati da Al Qaeda si sono sempre focalizzati su obiettivi militari ovvero edifici governativi. Molte reti ispirate ad Al Qaeda ma non connesse ad esso, hanno discusso apertamente sul loro disagio a proposito di obiettivi i civili.

La messaggistica dell’IS ha un diverso tipo di sofisticazione. Laddove Al Qaeda incastonava il tono dei suoi messaggi per potenziali reclute in termini più relativi: “fare la cosa giusta”, l’IS cerca di stimolare più che convincere. La sua propaganda e i suoi materiali di reclutamento sono enormemente viscerali, da scene di violenza grafica a visioni pastorali di una società utopica che sembra fiorire, in qualche modo, nel mezzo di una zona di guerra.

Le sfide poste dal fenomeno degli attori solitari 

Il fenomeno degli attori solitari pone essenzialmente due tipi di sfide. La prima: i combattenti  che ritornano o per accordo con la direzione dell’IS o per scelta propria, presentano in sé un alto rischio. Essi possono condurre attacchi in vece del gruppo in tutto il mondo.
La seconda sfida è quella che presenta punti più contraddittori. Nel protrarsi del conflitto in Siria ed in Iraq, soprattutto, vengono a galla sempre più rapporti di combattenti (cittadini di stati occidentali) che, disillusi dal conflitto, vogliono tornare a casa. Interesse dei governi occidentali è vedere come individui radicali si disimpegnino dalla loro causa estremista. Alcuni combattenti possono essere stati lusingati da un’offerta di un accordo di cooperazione, ma questo quasi sempre prevede che trascorra comunque un significativo lasso di tempo in prigione. Mentre un combattente può essere disilluso con la causa o con l’esperienza, potrebbe comunque disprezzare le politiche occidentali e non essere incline a tornare dai suoi amici di un tempo. La  Danimarca ha lanciato iniziative di de – radicalizzazione per ex combattenti dell’IS, altri Paesi considerano l’opportunità di adottare simili programmi, ma questi sforzi possono essere inficiati da ampi quesiti senza risposta che riguardano l’effettività e i rischi di questo tipo di programmi. Inoltre, c’è una difficile questione di responsabilità: la giustizia vuole che ci siano conseguenze per i crimini, particolarmente per quelli atroci commessi sotto la bandiera dell’IS. Per incentivare le defezioni è necessario permettere che questi crimini restino impuniti?

Gli studi condotti sul fenomeno dei combattenti occidentali che appartengono a gruppi estremisti di natura religiosa non sono confortanti. Il più famoso è quello condotto da Hegghammer nel 2013. Ci rivela che, nella storia dell’intero movimento jihadista, pochi militanti occidentali hanno lasciato perdere definitivamente la tattica del terrorismo una volta lasciato il campo di battaglia. Anzi, la presenza di ex combattenti in un piano terroristico aumenta la probabilità che il piano sia di successo e ne aumenta significativamente la letalità.

Non esistono soluzioni come prendere una medicina per far passare la febbre.  L’arma subdola degli attori solitari ha radici nella ricerca di un’identità, dell’appartenenza ad un gruppo, nel seguire una causa comune, in tutta quella messaggistica di cui parlavamo prima sull’idea di una società che fiorisce anche in zone si guerra. Non si tratta di dire è giusto o sbagliato e ricondurre tutto ai “buoni contro i cattivi”. L’identità nazionale, il senso di appartenenza, il sistema di valori sono campi a cui le nostre società “occidentali” hanno abdicato in favore del qualunquismo e del menefreghismo, del tutti contro tutti. Del denigrare a tutti costi senza un percorso di confronto costruttivo. Nel lasciare intere sacche della società abbandonate a sé stesse, sperando che qualcun’altro se ne occupi. La soluzione forse è dove non la si cerca mai, nel degrado dei valori che procede inarrestabile.

Aprile 27 2017

Francia: il risultato del primo turno delle presidenziali oscura tanto quanto rivela

Francia

Uno sguardo più da vicino al risultato del primo turno delle presidenziali francesi ci rivela un paese che è, per la maggior parte, diviso equamente.

I 4 principali contendenti hanno offerto agli elettori una scelta cruda e chiara tra opzioni familiari per risolvere le sfide di lungo corso della Francia.

Separati da 4 punti percentuali, dividendo essenzialmente l’85% del voto, le opportunità di chiarimento che offrivano le scelte dei candidati si sono palesate in un risultato che ha confuso le acque.

Questo vuol dire che se Macron dovesse vincere il secondo turno, come ci si aspetta, le sue visioni per realizzare efficacemente il suo programma sono lontane dall’essere certe. Sebbene sia difficile costruire una formazione politica  per le elezioni parlamentari (che si terranno a giugno) da un canovaccio, i numeri non garantiscono che governerà con una maggioranza, complicando ulteriormente i suoi sforzi. Molto quindi dipenderà dalla sua abilità di comporre una coalizione con cui lavorare tra il centro moderato della Francia, sia da destra che da sinistra, una proposta questa che è stata storicamente perdente a causa della cultura politica francese.
I maggiori temi di questa elezione erano, data la resistenza alle riforme dei francesi, gli stessi delle due precedenti elezioni presidenziali: un’apatica economia caratterizzata da un’alta disoccupazione strutturale, particolarmente tra i giovani; un sistema di social welfare eroso; una frustrazione della popolazione rispetto alle prerogative di Bruxelles, esacerbata dai limiti sul budget imposti dall’UE ed un senso di essere assediati da un mondo ostile che minaccia l’identità del popolo francese attraverso l’immigrazione e, più recentemente, la loro sicurezza attraverso il terrorismo.

L’asse orizzontale e quello verticale della politica francese

I 4 contendenti che si sono sottoposti al voto domenica scorsa rappresentavano gli archetipi di 4 poli che meglio schematizzano il panorama contemporaneo politico francese e di molta dell’Europa: un asse orizzontale della sinistra e destra tradizionale e un nuovo asse verticale che rivela una visione internazionalista della Francia che è integrata nell’Europa e nel mondo contro un trincerato nazionalismo che tradizionalmente faceva appello all’estrema destra, ma che ha sempre di più vinto su molti tra la classe operaia di sinistra.
Sul fronte tradizionale di estrema sinistra, Jean-Luc Melenchon ha argomentato come la Francia dovesse uscire dalla depressione economica attraverso massicce assunzioni nel settore pubblico e l’espansione del sistema francese di social welfare. Sul fronte conservatore di destra, il candidato repubblicano Francois Fillon ha offerto un programma ugualmente archetipico di severa austerità, promettendo un taglio di 100 miliardi di euro dal budget e di mezzo milione di posti di lavoro nel settore pubblico in 5 anni.

Tra i due estremi c’è Macron

Tra questi due estremi c’è Macron, che ha descritto il suo stesso programma come né di destra né di sinistra. Egli promette di imporre una disciplina fiscale, ma più graduale rispetto a quella proposta da Fillon, investendo nella crescita attraverso la modernizzazione. Egli asserisce che la vita politica francese deve essere rinnovata, ma non va così lontano come Melechon che si è spinto fino a prospettare l’inizio di una “sesta Repubblica”

Le proposte di Macron sono moderate, riforme social democratiche  di un tipo che non avevano mai ottenuto abbastanza consenso popolare in Francia per essere realizzate con successo. Il risultato è stato una serie infinita di tiepide, annacquate riforme che non hanno soddisfatto nessuno e non hanno posto rimedio alle persistenti malattie economiche  francesi.

Sebbene gli elettori moderati compongano una significativa pluralità dell’elettorato, la Francia ha un profondo sospetto per il centro (politico).

Dove Macron si distingue è nel asse verticale della politica francese. Ha sinceramente sostenuto l’UE, appoggiando la decisione impopolare della Merkel, nel 2015, di aprire il paese ai rifugiati e ai migranti. È stata una dimostrazione di coraggio politico, in un tempo in cui Bruxelles è diventata il parafulmine della rabbia, frustrazione e del risentimento popolare.

La Le Pen invece sfida questo risentimento, asserendo di rappresentare il polo pro-sovranità dell’asse verticale, offre un programma di nazionalismo economico e politico, che comprende un giro di vite sull’immigrazione; l’uscita dall’UE e dall’Euro.

In contrasto con Fillon, la Le Pen abbraccia un generoso modello di social welfare, ma solo per i cittadini francesi. Similmente promette di introdurre una preferenza “nazionale” nelle assunzioni e per i contratti pubblici.

Gli immediati sostegni che Macron ha ricevuto dal tutto lo spettro politico dopo il turno elettorale di domenica scorsa hanno dato peso all’accusa di una classe politica indistinguibile. Se fosse stato così semplice, il compito di Macron sarebbe facile, ma non lo è.

I francesi hanno un profondo sospetto per il centro politico, che molti percepiscono come mancante di identità e di sicurezza.

In Francia l’ultimo centrista eletto Presidente della Repubblica risale al 1974

L’ultimo centrista eletto Presidente era Valery Giscard d’Estaing nel 1974 ed è stato in carica solo per un mandato. Francois Bayrou, che ha sostenuto Macron, è andato vicino al secondo mandato nelle elezioni del 2007 su un simile programma – fiscalmente responsabile, con la mente alle riforme e pro- europeo – ma alla fine non fu all’altezza.

In quel momento storico, tuttavia, la minaccia del Fronte Nazionale non era così urgente, il partito social democratico non era sufficientemente debole, da rendere l’offerta di Bayrou necessaria. Prima del secondo turno, Bayrou offrì il suo sostegno al candidato del partito social democratico Segolene Royal, che avrebbe significato una coalizione centrista. I “royalisti” si rifiutarono e andarono avanti per perdere contro Nicolas Sarkozy.

Oggi: la situazione in Francia dei principali partiti

La situazione della Francia e dei suoi principali partiti, oggi è drammaticamente differente. Il Fronte Nazionale è ai cancelli del Palazzo dell’Eliseo. Il Partito socialista è essenzialmente su un destino di morte. E l’unica cosa che impedirebbe un bagno di sangue tra gli egualmente divisi repubblicani è l’opportunità di passarsela bene e magari emergere con una maggioranza nelle elezioni parlamentari previste per giugno. Questo lascia un’apertura per Macron e il suo nuovo brand di centrismo, dovesse essere in grado di raggruppare una coalizione in parlamento di persone che la pensano similmente.

La stessa apertura vale per i molti ego ambiziosi e opportunisti che, vedendo una finestra di opportunità nel panorama politico instabile francese, cercheranno di bloccare Macron.

Aggirando una struttura stabilita di partito, Macron ha reso un’elezione presidenziale un “incontro tra un uomo e un popolo” come disse Charles de Gaulle.

Tuttavia con gli elettori francesi così equamente divisi e il sistema partitico francese attuale che è pericolante, Macron non sarà il solo politico a camminare per i corridoi del potere in cerca di incontri con il popolo francese.

Aprile 18 2017

Regno Unito: la Brexit ha aperto il vaso di Pandora

Regno Unito

Il Primo Ministro inglese Theresa May ha annunciato di voler indire elezioni anticipate l’8 giugno 2017. Questa proposta verrà votata, mercoledì 19 aprile 2017 alla Camera dei Comuni. La May ha bisogno del sostegno del Parlamento per indire le elezioni prima della data già programmata del 2020. Inoltre affinché si possano tenere le elezioni anticipate il Primo Ministro ha bisogno del voto favorevole dei 2/3 dei membri del Parlamento.

Regno Unito: il contesto in cui dovrebbero tenersi elezioni l’8 giugno 2017

Le recenti elezioni, dei primi di marzo, nel Nord dell’Irlanda, per la prima volta, hanno consegnato la minoranza nell’Assemblea ai partiti unionisti, attribuendo il miglior risultato ai nazionalisti del partito Sinn Fein.

Sebbene la May, nella lettera formale di recesso dall’Unione Europea (UE) esprimeva il desiderio di evitare che gli scozzesi lascino il Regno Unito, la Brexit rischia di far tornare quella che potremmo chiamare “frontiera difficile” tra il Nord dell’Irlanda e la Repubblica di Irlanda: una minaccia che rischia di riaccendere “The Troubles”, il conflitto nazionalista-settario che ha scosso il Nord Irlanda per molti anni del tardo 20° secolo. Il vecchio sogno di Sinn Fein – di governare un’unita Irlanda – improvvisamente appare meno fantasioso di quanto sembrava una volta.

La Brexit ha messo in moto una serie di forze centrifughe all’interno del Regno Unito stesso

Gli sviluppi sia ad Edinburgo che a Belfast rivelano le fragili fondamenta dell’accordo legislativo di Tony Blair del 1998 sulla devoluzione inglese, così come l’accordo Good Friday che ha portato con successo alla pace nel Nord dell’Irlanda.

L’accordo Good Friday

conosciuto anche come l’accordo di Belfast, consolidava il processo di pace del Nord Irlanda garantendo all’amministrazione locale alcuni poteri; la divisione dei poteri tra gli Unionisti e i Repubblicani (le due comunità nord-irlandesi); cosi come frequenti incontri tra il Nord Irlanda e la Repubblica di Irlanda e tra il Regno Unito e i governi irlandesi. L’accordo riconosceva le identità duali – sia inglese che irlandese – della popolazione locale e la rimozione della frontiera fisica tra l’Irlanda e il Regno Unito. Questo accordo dipendeva dall’appartenenza all’Unione Europea sia della Repubblica di Irlanda che del Regno Unito. L’appartenza all’Unione Europea rimuoveva ogni questione inerente al flusso di beni, servizi, capitale e lavoro e forniva un ampio quadro per la cooperazione istituzionale, stabilendo una linea base di norme di legislazione accettate reciprocamente.

Il successo pratico di entrambi gli accordi implicitamente contava sulla continua, piena appartenenza del Regno Unito all’UE.

Con una forte Brexit che gradualmente incede verso la realtà, non sarebbe una sorpresa che questi compromessi confezionati ad arte lentamente si sgretolino.

La decisione della May di “far scattare” l’articolo 50 del Trattato di Lisbona per lasciare l’Unione Europea ha scatenato una serie di dinamiche regionali che , in passato, Westminster ha dimostrato di saper malamente controllare anche singolarmente.

Sia la May che Blair hanno giocato con gli accordi costituzionali inglesi per incassare guadagni per i propri partiti, ed entrambi hanno calcolato male il processo.

Nell’Assemblea del Nord Irlanda non si è mai verificato che il partito unionista fosse una minoranza. Ciò è molto importante, perché proprio secondo una disposizione dell’accordo Good Friday, se una maggioranza sia delle popolazioni del nord Irlanda che della Repubblica di Irlanda esprime il desiderio di una unità irlandese, sia l’Irlanda che il Regno Unito devono accettarlo.

Una maggioranza dei deputati nazionalisti irlandesi a Stortmond potremmo iniziare a soddisfare questo criterio.

Una Brexit “dura”, imposta e guidata dal governo conservatore della May e contro il volere della popolazione locale, servirebbe a minare l’accordo Good Friday. La May dunque potrebbe aver considerato elezioni anticipate nell’ottica di ottenere consenso popolare.

Che Theresa May abbia intravisto il futuro del Regno Unito dopo il recesso dall’UE nel 2019?

Possono essere tracciati tre potenziali scenari:

  • affari come sempre,
  • ulteriore devoluzione,
  • disintegrazione.

Il primo scenario è forse il più allettante vista la storia di graduale cambiamento costituzionale del paese, ma è chiaramente non più accettabile per la Scozia ed il Nord Irlanda dopo la Brexit.

Il futuro del Regno Unito sarebbe perciò o uno di più devoluzione o uno di rottura.

Ulteriore devoluzione essenzialmente significa uno spostamento verso un pieno federalismo. Sembra improbabile che sia possibile una maggiore devoluzione alle regioni senza creare una qualche forma di parlamento inglese per compensarla. La cosiddetta questione West Lothian, introdotta da David Cameron nel 2015 in un tentativo di compromesso, per cui i legislatori scozzesi possono votare a Westminster su questioni puramente inglesi, mentre le loro controparti inglesi non possono votare su questioni scozzesi decise a Holyrood, inasprisce già il contesto politico tra molti inglesi e i loro legislatori.

La soluzione federale

Parlamenti per ogni “nazione” del Regno Unito equivalgono ad una soluzione federale de facto. Questo lascerebbe la gestione della politica estera, di sicurezza e di politica macroeconomica nelle mani di Westminster e la politica monetaria alla Bank of England. Quasi tutte le altre decisioni sarebbero prese a livello “nazionale”.

Il principale problema con la soluzione federale è che, mentre potrebbe essere vista con favore da alcuni prominenti politici scozzesi, incluso l’ex primo ministro Gordon Brown, in Inghilterra non c’è una reale domanda per questo tipo di soluzione. Per la maggior parte dei politici rappresenta ancora un altro mal di testa costituzionale in un momento in cui si ha già tanto di cui preoccuparsi. Un processo che risulti in una graduale federalizzazione dello Stato del Regno Unito richiederebbe molti anni e lascerebbe irrisolto il problema fondamentale del Regno Unito: il fatto che l’Inghilterra è significativamente predominante in termini di popolazione: approssimativamente 53 milioni del totale della popolazione del Regno Unito di 64 milioni, e in potere economico, con più del 85% del prodotto interno lordo. Una soluzione potrebbe essere quella di separare Londra dal resto dell’Inghilterra in una struttura federale, ma scavare una nicchia nella capitale inglese  sarebbe un errore storico anche più grande.

Questo tipo  “soluzione” per combattere le forze centrifughe del Regno Unito sembra essere la sola che quadra il cerchio tra il desiderio di Westminster di controllo e il desiderio delle “nazioni” di devoluzione. È anche l’unica che risolve il problema tra gli euroscettici: Inghilterra e Galles e i pro-EU: Scozia e Irlanda.

Una Brexit “dura” e il Regno Unito sono incompatibili, se dovessimo aspettarci che il Regno Unito resti appunto tale: unito.

E questa potrebbe essere un’altra considerazione ragionata dal Primo Ministro inglese prima di proporre le elezioni anticipate.

La sfida della Scozia

Assumendo che l’indipendenza scozzese alla fine non avverrà, c’è sempre la questione aperta e pressante dell’appartenenza all’UE, dal momento che è chiaro che la Scozia non sarà in grado di rimanere nel Blocco Europeo automaticamente, ma dovrebbe sottoporre la domanda di adesione come nuovo stato membro. Ciò sarebbe tutt’altro che facile e richiederebbe di conformarsi al pieno “acquis communautaire”, (il corpo delle norme europee e regole), senza le opzioni di cui gode oggi il Regno Unito. Questo è il motivo per cui il partito nazionale scozzese ha recentemente iniziato a suggerire che una Scozia indipendente potrebbe seguire le orme della Norvegia e della Svizzera nel unirsi all’Area Economica Europea, piuttosto che all’UE.

Una delle questioni di profonda importanza, nella sfida scozzese, è la locazione delle armi nucleari del Regno Unito dopo l’indipendenza scozzese. Le riserve nucleari del Regno Unito sono situate in Scozia. C’è anche la potenziale adesione della Scozia alla NATO, una questione che a lungo ha diviso il partito nazionalista scozzese.

In sostanza questi scenari contengono tutti delle insidie. Guardando la storia, una strategia di confusione e di non fare cambiamenti è la più allettante. In teoria, l’opzione di pieno federalismo è quella che con più probabilità potrebbe offrire un’unione più durevole.

Guardando la politica, la rottura del Regno Unito è quella che più probabilmente avverrà, che sia per caso che per progetto. E che non siano proprio elezioni anticipate, conseguenza della Brexit, a scatenare questa rottura?

Aprile 9 2017

Gli Stati Uniti e il dilemma dei dittatori “amici”

dittatori

Il mondo è nel bel mezzo della lotta contro l’estremismo violento, per gli Stati Uniti torna il dilemma del “dittatore amico”.

Per tutta la Guerra Fredda, gli Stati Uniti hanno lottato con il dilemma dei “dittatori amici”. Per un lungo periodo gli americani hanno creduto non solo che la democrazia fosse il solo sistema politico possibile ed il più giusto, ma che fosse quello che potesse rimanere stabile nel corso del tempo.

I dittatori potrebbero imporre l’ordine per un periodo, ma alla fine, la naturale necessità di  libertà provoca la loro caduta. Nelle giuste condizioni, la caduta di un dittatore potrebbe essere relativamente pacifica. Altre volte, invece scatena una pericoloso spasmo di violenza.

Malgrado ciò, nell’era della Guerra Fredda i politici americani hanno accettato ed anche abbracciato dittatori amici. Dopo il collasso dell’Unione Sovietica, il problema non era stato risolto, ma si era sbiadito con le nascenti democrazie.

Ora che il mondo è nel bel mezzo della lotta contro l’estremismo violento, il dilemma del dittatore amico è tornato.

Durante la campagna presidenziale del 2016, Trump ha ripetutamente dichiarato che i recenti eventi  nel Medio Oriente hanno mostrato che i regimi autoritari sono caduti, il risultato è stato spesso l’instabilità che ha aperto la strada all’estremismo violento.

Dopo tutto lo “Stato islamico” non esisterebbe se il Presidente George W. Bush non avesse rimosso Saddam Hussein dal potere.

Ritengo quantomai opportuno a questo punto fare una breve parentesi chiarificatoria sulla nascita dello “Stato islamico”, se non altro per coloro che come me non credono ai complotti, ma si basano su fatti realmente accaduti.

L’affermazione: “ lo – stato islamico – non esisterebbe se George W. Bush non avesse rimosso Saddam Hussein” è vera, ma sarebbe più corretto articolarla in questo modo:

se l’amministrazione Bush non avesse deciso, a quel tempo, anche di radere al suolo, il 9 giugno 2006, la leadership di Al Qaeda in Iraq (AQI), gettando nelle mani del Mujahidin Shura Council le sorti del movimento jihadista locale. Questa organizzazione “ombrello” che coordinava i vari insorti combattenti a Falluyiah annunciò, il 12 ottobre 2006, l’alleanza di altre fazioni e di leader sunniti conosciuta come “the alliance of the scented ones”, gruppo dedicato a combattere l’occupazione americana. Fu quest’ultimo gruppo che il 15 ottobre 2006 annunciò la creazione di “Islamic State of Iraq.

Torniamo ai giorni nostri e alle dichiarazioni di Trump a proposito dell’essere più tollerante con i dittatori del Medio Oriente.

Un giorno dopo aver dichiarato “la mia attitudine verso la Siria ed Assad è cambiata molto”, Trump ordina un attacco missilistico su una base aerea siriana nella provincia di Homs.
La domanda sorge spontanea: “l’amministrazione Trump adesso lavorerà per la rimozione di Assad? Solo una settimana dopo averlo definito “una realtà politica che dobbiamo accettare?”

I dittatori rimossi: cosa ci insegna il passato

Una potenziale lezione dal passato potrebbe essere tratta dal rovesciamento di Saddam Hussein e del dittatore libico Mohammar Gadhafi. Questi casi suggeriscono che mentre gli uomini forti del Medio Oriente cadono, il potere scivola nelle mani degli estremisti. Con tutti i loro difetti, i despoti iracheni e libici, hanno tenuto sotto controllo il jihadismo e così, dalla loro prospettiva, gli Stati Uniti non avrebbero dovuto far altro che tollerarli.

La rivoluzione iraniana del 1970 ci suggerisce qualcosa di molto differente. Quando lo Shah sostenuto dagli Stati Uniti, Mohammad Reza Pahlavi, fu rovesciato, il regime teocratico rivoluzionario che lo rimpiazzò, era fortemente anti-americano.

Gli Stati Uniti continuano a pagare il prezzo per aver sostenuto così fortemente lo Shah.

La lezione qui è che, nel lungo periodo, una stretta associazione con un autocrate è una cattiva idea.

Adesso la questione è: quale lezione dovrebbe guidare la politica americana, quella che viene dall’Iraq e dalla Libia o quella dell’Iran?

Se le lezioni della Libia e dell’Iraq contano di più, allora forse i legami più stretti con el-Sissi sono una buona idea per Washington e dovrebbe smettere di dichiarare di rimuovere Assad dal potere.

Ma se la lezione dell’Iran resta valida, allora abbracciare el-Sissi e tollerare Assad danneggerà gli interessi degli Stati Uniti quando questi dittatori cadranno e i dittatori inevitabilmente cadono.

La politica dell’ “abbraccio ai dittatori amici” ci avverte di costi ed effetti avversi che potrebbero verificarsi al di fuori del paese nel quale viene applicata: scoraggia potenzialmente i movimenti democratici nascenti e diminuisce la percezione di moderatezza da parte dei dittatori.

Se la domanda è: la minaccia proveniente dall’estremismo violento islamico giustifica i rischi di “abbracciare” i dittatori del Medio Oriente?

Suggeriamo come risposta: no.

Nei casi in cui gli Stati Uniti sono rimasti fuori e forze interne hanno fatto cadere i regimi autoritari, Egitto sotto Mubarak, Tunisia sotto Zine al Abidine ben Ali, i risultati lontani dall’essere perfetti, non hanno avuto come conseguenza nazioni governate da estremisti o  che direttamente sostengono l’estremismo transnazionale.

Le linee  con 56 sfumature di rosso

Trump  dovrebbe specificare quali sono le linee rosse, e se non altro farci capire se lui le vede sfumate o no. All’indomani dell’attacco chimico in Siria dichiara che questa situazione ha varcato tutte le linee quando solo una settimana prima aveva dichiarato che Assad è una realtà politica da accettare. Forse le linee di Trump sono sfumate? E el-Sissi? quante sfumature di rosso repressione da parte del regime egiziano sarà disposto a tollerare Trump?

Forse dovrebbe concentrarsi sul fatto che avere a che fare con i dittatori è sempre una situazione colma di pericolo. Lui e i suoi advisor dovrebbero aprire un libro di storia e ricordarsi che in Iran nel 1970 gli Stati Uniti fecero un errore strategico talmente grande di cui ancora pagano il prezzo.

Aprile 8 2017

Psicopatologia e terrorismo

psicopatologia
Basta che un uomo odi un altro perché l’odio vada correndo per l’umanità intera.
(Jean-Paul Sartre)

Psicopatologia e terrorismo

Quello di cui vi volevo parlare oggi è il legame tra la psicopatologia e il terrorismo. Lo psicopatico è una persona il cui comportamento è caratterizzato da contenuti specifici e costanti i quali, a livello generale, rappresentano il rifiuto di conformarsi a norme sociali comunemente accettate. Non tutti gli psicopatici mettono in atto comportamenti violenti, ma la violenza è spesso la valvola di sfogo di tendenze aggressive e impulsive associate alla psicopatia. In modo analogo al terrorista, un individuo psicopatico presenta assenza di rimorsi o di senso di colpa per gli atti compiuti e una visione del mondo egoistica incompatibile con la capacità di provare una sincera preoccupazione per il benessere altrui. E’ facile presumere che la psicopatia sia associata al terrorismo e suggerire la presenza di un disturbo patologico nelle persone che mettono in atto volontariamente un comportamento terrorizzante. Tuttavia, la critica a tale assunto ha messo in risalto un’altra caratteristica associata al coinvolgimento in un’organizzazione terroristica: alla luce delle caratteristiche richieste da un’organizzazione terroristica ai propri membri per commettere tali azioni una delle prime descrizioni del terrorista, secondo una prospettiva psicologica (Cooper*), ha suggerito che il vero terrorista è privo di misericordia in quanto possiede una fede cieca nel proprio credo o si ritira in una follia confortante. Secondo Cooper, per sopportare le conseguenze delle proprie azioni i terroristi devono avere una coscienza isolata o un certo distacco dalla realtà.

La tesi della psicopatia è ancora limitata, vi sono scarse prove a sostegno dell’idea secondo cui i terroristi, da qualunque contesto provengano, possano o debbano essere considerati psicopatici.

Andres Breivik, giovane norvegese, nel luglio 2011 ha ucciso 77 persone tra i 15 e i 19 anni. è stato inizialmente ritenuto  affetto da schizofrenia paranoide, ma è stato dichiarato “sano di mente e quindi penalmente responsabile” da una controperizia, venendogli riconosciuto solo un elevato disturbo narcisistico della personalità.

L’appartenenza a un’organizzazione terroristica con membri fortemente motivati comporta stabilire relazioni strette e durature, fondamentali per rinforzare l’impegno nei confronti del gruppo e dei suoi ideali. L’egocentrismo patologico, comune nelle psicopatie, è in contrasto con le caratteristiche ricercate dai leader e dai reclutatori di organizzazioni estremiste: elevata motivazione, impegno, disciplina, capacità di rimanere affidabili e concentrati sull’obiettivo anche di fronte allo stress, ad una possibile cattura e alla reclusione.

Consideriamo un punto importante che può far luce su alcune dinamiche terroristiche: le vittime del terrorista spesso sono accidentali, scelte su una base puramente simbolica (cittadini “occidentali”, passeggeri di un velivolo, spettatori di una maratona, turisti ecc.). Se si considera il modo in cui un assassino sceglie le proprie vittime, la natura delle vittime del terrorismo è in netto contrasto con quella delle vittime di un assassino psicopatico. Le ragioni di quest’ultimo sono profondamente personalizzate, sostenute da fantasie elaborate. Taylor** sostiene a questo proposito che l’utilizzo di autobombe permette al terrorista di mantenere una certa distanza dalla vittima, il terrorista potrebbe in realtà non avere un’esperienza diretta e personale del danno e delle mutilazioni che causa.

Malgrado l’attrattiva esercitata da questo tema, i gruppi estremisti non dovrebbero essere considerati né come organizzazioni di soggetti necessariamente psicopatici a causa della brutalità delle azioni perpetrate né come gruppi che reclutano persone con tendenze psicopatiche.

*H.H.A Cooper, “The terrorist and the victim”,Victimology, 1976

**M. Taylor, The terrorist (London, Brassey’s),1988

Marzo 25 2017

Il populismo è pericoloso: vi spiego il perché

populismo

La minaccia populista è reale e seria: perché?

Molte ricerche indicano che la democrazia si indebolisce se si affida alla leadership di un singolo individuo, opposto alle istituzioni democratiche; se la contesa è guidata dalla personalità, piuttosto che da partiti politici strutturati; e se gli elettori non hanno accesso ad informazioni affidabili attraverso media indipendenti.

Quanto la minaccia populista sia reale lo dimostra l’elezione americana di un Presidente che promuove proprio il messaggio populista: “da solo posso cambiare il paese, l’establishment e le elite tradizionali sono pericolose e corrotte, i media tradizionali non sono degni di fiducia“.

In tutta Europa, dove il governo democratico è la norma e lo è stato per decadi, candidati populisti e partiti sono saltati al potere negli anni recenti, facendo crescere i timori di scivoloni autoritari.

Partiti populisti di destra e di sinistra ora governano parlamenti in Grecia, Ungheria, Polonia, Slovacchia e Svizzera e sono parte di coalizioni di governo in Finlandia, Norvegia e Lituania.

In Francia, Germania ed Olanda i partiti di estrema destra promuovono una retorica xenofoba, dominando stagioni di campagne elettorali con un’oratoria impetuosa che rivendica la salvezza dell’identità nazionale.

Sebbene negli anni recenti le democrazie europee si siano rivelate, per la maggior parte, resilienti alla minaccia posta dal populismo, in pochi paesi, come l’Ungheria e l’Olanda, sono state elette figure populiste, dando il via al significativo declino, in rapporto ai principi democratici, della libertà di stampa dell’indipendenza del potere giudiziario.

La sfida che il populismo pone alla democrazia è forse la più incalzante nel mondo in via di sviluppo, data la breve storia di governo democratico rispetto alle democrazie occidentali.

Nelle Filippine, il presidente Rodrigo Duterte ha vinto elezioni libere ed eque attraverso una piattaforma populista nel 2016, suggerendo addirittura, durante la sua campagna elettorale, che  in caso di vittoria avrebbe abolito il Congresso. Da quando è entrato in carica, i diritti umani nelle Filippine si sono deteriorati rapidamente, attraverso un’ampia repressione sulle droghe, aggressiva e brutale, uccidendo centinaia di civili ricevendo la condanna della comunità internazionale; il paese è adesso uno dei posti più pericolosi per i giornalisti. Agli occhi di molti, dopo sei anni di un presidente orientato alle riforme, le Filippine sono sull’orlo di una transizione verso la dittatura.

Le cosiddette “autoritarizzazioni” – transizioni alla dittatura dove leader democraticamente eletti smantellano le istituzioni democratiche per prendere il potere -, stanno diventando la modalità dominante del collasso democratico, con le piattaforme populiste che fungono da vero e proprio trampolino per manipolare l’autorità che ha vinto democraticamente.

Questa tendenza globale sta facendo crescere la più pericolosa delle forme di governo autoritario: la dittatura personalistica, in cui il potere è altamente concentrato nelle mani di un solo uomo forte, il quale disdegna le istituzioni pre-esistenti.

Come si sgretolano le democrazie

La deriva verso l’autoritarismo è un fenomeno nuovo che differisce da quello del ventunesimo secolo.

Cile

Il Cile è un utile caso di studio. Nel settembre del 1973, con l’aiuto degli Stati Uniti, le truppe cilene hanno preparato un colpo di stato contro l’allora presidente Salvador Allende, che era salito al potere nelle elezioni democratiche del 1970. Il coup ha portato il Generale Agosto Pinochet e la sua giunta militare al potere, per un lungo periodo di governo militare, durato fino al 1989. Il coup militare era lo strumento dominante di scelta per far cadere le democrazie e compiere una transizione repentina al governo autocratico.

Venezuela

In contrasto con la recente esperienza in Venezuela, un altro paese in America Latina con una lunga tradizione di governo democratico. Hugo Chavez si è assicurato la presidenza nel 1999, dopo aver vinto l’elezione democratica l’anno precedente. Sebbene Chavez abbia iniziato riforme controverse, ha vinto elezioni libere ed eque nel 2000 ed il Venezuela è rimasto una democrazia, sebbene  imperfetta, negli anni che seguirono.

Tra l’agosto del 2004 e il dicembre 2005, tuttavia, Chavez ha lentamente spinto il Venezuela verso l’inizio della dittatura. Nell’agosto del 2004, quando l’opposizione aveva raccolto sufficienti firme per indire un referendum, Chavez vince il voto, di cui gli osservatori internazionali avevano garantito la libertà ed equità. Da qui in poi Chavez consolida il suo potere, il parlamento passa una legislazione che aumenta la portata della Corte Suprema e permette il licenziamento dei giudici attraverso un voto a maggioranza. Per la fine del 2004, i fedelissimi di Chavez controllavano pienamente la Corte Suprema e i giudici che gli si opponevano nelle corti erano velocemente sostituiti dagli alleati del regime. In più, il governo pubblicò una lista di decine di migliaia di individui che avevano firmato per petizioni che furono licenziati dagli impieghi pubblici e altri lavori e persero l’accesso ai benefit dell’assistenza pubblica.

Anche i media furono investiti da leggi limitanti. Il governo quindi lanciò una campagna per intimidire gli anti rivoluzionari e continuò nella sua marcia di consolidamento del potere, dando vita ad un periodo di “uomo forte al comando” che continua ancora oggi. Il Venezuela sta scivolando in un caos profondo sia economico che sociale.

L’esperienza del Venezuela è indicativa del modo in cui le dittature contemporanee prendono il controllo.

I dati

Dal 1946 al 1999, il 64% delle democrazie sono cadute attraverso i coup.

Dal 2000 al 2010, le “autoritarizzazioni” sono aumentate drammaticamente, rappresentando il 40% di tutte le fratture alle  democrazie.

Le “autoritarizzazioni” occorse  negli anni passati in paesi  come il Bangladesh e la Turchia, ci indicano come questa tendenza stia proseguendo.

È in corso uno spostamento dalla democrazia alla dittatura in cui l’ “autoritarizzazione” è la modalità dominante per rendere fattivo questo passaggio.

Le “autoritarizzazioni”

Le “autoritarizzazioni” sono differenti dalla maggior parte delle altre forme di rottura della democrazia, come i coup, le rivolte o le invasioni straniere, perché la loro presa del potere è compiuta dall’interno dell’apparato statale. I governi fanno leva per accedere agli strumenti di potere per consolidare il controllo e reprimere il dissenso. In confronto ai coup, che richiedono un’attenta pianificazione e coordinamento, sono meno rischiosi. Le “autoritarizzazioni” sono relativamente facili da eliminare. Esse tipicamente coinvolgono una serie di cambiamenti nelle regole e nel personale che crea un ambiente politico in cui gruppi di opposizione non possono più competere efficacemente.

Diversamente dalle altre modalità che decretano la fine di una democrazia, le “autoritarizzazioni” non si accompagnano ad un cambiamento nella leadership dopo la transizione alla dittatura. Questo è importante perché la maggior parte delle prese al potere autocratiche sono motivate dal desiderio di reindirizzare le risorse dal precedente gruppo al potere verso il suo successore. Con le “autoritarizzazioni”, i potenziali dittatori spesso compiono sforzi per proteggere gli interessi entranti e attaccano ogni mossa che possa sottrarre a loro stessi le risorse.

Le “autoritaritarizzazioni” contengono in sé strategie sottili e multi ramificate, come la sequenza di eventi accaduti con Chavez in Venezuela. Le “autoritarizzazioni” perciò differiscono dalla maggior parte delle modalità di rotture della democrazia perché sono spesso lente e incrementali.

Il populismo  ora viene utilizzato come trampolino di lancio per questo tipo di sforzi.

Il percorso populista

La retorica populista  tipicamente batte su alcuni punti: la necessità di una forte e decisiva leadership, l’incapacità delle istituzioni stabilite e delle politiche di affrontare i problemi del paese e la mancanza di fiducia nelle istituzioni e spesso, accuse di corruzione contro esperti e élite.

Il messaggio generale oggi non è differente  rispetto a decadi passate quando il populismo prendeva piede in molte parti dell’America Latina e dell’Europa, spesso con conseguenze dannose e destabilizzanti.

Allo stesso tempo, le strategie dei populisti di oggi sono cambiate in modi importanti. Il loro metodo di consolidare il potere non è più repentino caratterizzato da una chiara rottura della democrazia, che potrebbe incitare la condanna interna ed estera, ma piuttosto si esplica in una sottile frantumazione delle istituzioni democratiche. Questo metodo è stato preferito nel clima politico post Guerra Fredda non solo perché l’Occidente spesso ricompensa gli avvocati della liberalizzazione politica e punisce i paesi che fanno esperienza di coup, ma anche perché la crescente accettazione del modello liberale democratico tra i cittadini nel mondo ha esercitato una pressione sui governi affinché mantengano la facciata della democrazia per non correre il rischio di perdere la loro legittimità.

Prendiamo ad esempio la salita al potere di forti uomini come Chavez, Putin, Erdogan. Questi leader sono entrati in carica attraverso elezioni relativamente libere ed eque, ma una volta lì, hanno fatto leva sul generale malcontento popolare per minare lentamente i limiti istituzionali ai loro poteri, indebolire l’opposizione al loro governo e marginalizzare e frantumare la società civile.

Il “libretto populista”

Questo tipo di leader hanno in un comune qualcosa che potremmo definire “libretto populista”: mettere i fedelissimi e gli alleati in alte posizioni nel governo, particolarmente nel potere giudiziario e nei servizi di sicurezza, censurare o prendere il controllo dei media tradizionali e arrestare selettivamente i giornalisti critici; utilizzare cause legali e nuova legislazione per mettere ai margini la società civile e gli oppositori del loro governo.

Oggi, le “autoritarizzazioni” alimentate dal populismo stanno dando vita alla più pericolosa forma di dittatura: il governo personalistico.

Uno dei principi centrali della strada populista è il bisogno di una leadership forte in un ambiente politico dove le istituzioni sono percepite come inette e incapaci di gestire i problemi pressanti. Tra i populisti di oggi, il tema di un uomo forte  sottolinea questo tipo di campagne. Per questa ragione, quando il governo populista inizia a realizzare le sue visioni, i leader consolidano il controllo nell’esecutivo; nel caso di Trump, ad esempio, il Dipartimento di Stato, tradizionalmente influente, è stato apparentemente spinto ai margini dell’attività decisionale.

I dati

I dati indicano che le “autoritarizzazioni” alimentate dal populismo sono sempre più propulsive del potere personalistico dei dittatori. Appena meno del 44% delle “autoritarizzazioni” dal  1946 al 1999 hanno dato vita al governo personalistico, ma questa porzione è aumentata del 75% nel periodo dal 2000 al 2010. Una crescita drammatica.

Anche laddove gli uomini forti populisti non hanno smantellato pienamente i sistemi democratici, essi frequentemente godono di un irregolare potere politico, come nel Nicaragua di Daniel Ortega, o nell’Ecuador di Rafael Correa o ancora nell’Ugheria di Viktor Orban e nella Polonia di Jaroslaw Kaczynski.

Questa tendenza è preoccupante in ragione delle conseguenze dannose del governo personalistico. Una grande parte della letteratura in scienza politica suggerisce che la dittatura personalista è il tipo più problematico di autocrazia. Questa tipologia di dittatura presumibilmente è quella che maggiormente persegue una politica estera aggressiva ed imprevedibile; che inizia conflitti interstatali ed investe in armi nucleari. Alcuni esempi eccellenti: Saddam Hussein in Iraq, Idi Amin in Uganda e la famiglia Kim nel Nord Corea. I dittatori personalisti spesso danno voce a sentimenti di xenofobia e sono quelli che molto più probabilmente non gestiscono bene l’aiuto estero.

Perché candidati e partiti populisti godono del sostegno pubblico?

Le condizioni che costituiscono la base del supporto pubblico di cui godono candidati e partiti populisti sono diverse, ne citiamo alcune, le più importanti:

  • le crescenti ineguaglianze economiche,
  • la percezione di prestazioni economiche non adeguate,
  • le frustrazioni derivanti dalla globalizzazione,
  • l’immigrazione e l’afflusso di rifugiati che è cresciuto a seguito della instabilità del Medio Oriente e dell’Africa,
  • la convinzione che la politica tradizionale sia corrotta ed inetta.

Chi è più a rischio?

Una lunga storia di governo democratico ininterrotto, unitamente ad alti livelli di sviluppo economico si associano con un rischio più basso di deriva verso la dittatura. Come risultato, le democrazie nel mondo sviluppato, come gli Stati Uniti e gli Stati in Europa, con più probabilità emergeranno dall’ondata populista più fragili, ma intatti. La loro linea base di rischio di passare alla dittatura è più basso rispetto ai paesi in via di sviluppo. Tuttavia la loro deriva economica non è trascurabile.

Gli autocrati di domani possono utilizzare eventi di crisi per iniziare un’estesa repressione sugli oppositori, semplicemente giustificando queste azioni nell’interesse della sicurezza nazionale.

Una crisi, che sia interna o internazionale, potrebbe facilmente essere teatro di un danno o di uno smantellamento della democrazia da parte di governi populisti.

Non si deve guardare molto lontano: la Turchia

Erdogan, che è diventato presidente nel 2014 ed era stato primo ministro per più di una decade, aveva già iniziato sottili manovre per consolidare il controllo, inclusa la pressione per una presidenza più forte, giro di vite sui media ed utilizzo improprio delle risorse dello Stato a suo beneficio. Dopo il fallito coup del luglio 2016, ha colto l’opportunità di scagliarsi con più risolutezza contro i suoi oppositori. Dichiara immediatamente lo stato di emergenza, per rimuovere tutti gli elementi di organizzazioni terroristiche che erano coinvolte nel tentativo di coup. Nelle settimane successive, decine di centinaia di turchi sospettati di aver partecipato al coup vengono arrestati.  Migliaia di ufficiali governativi licenziati, radio, televisioni: chiusi; per la fine del 2016, si stima che siano state arrestate 37,000 persone e 100,000 hanno perso il loro lavoro o sono state sospese dal lavoro. Un fatto sconvolgente! Ad aprile, i turchi dovranno votare si o no ad un pacchetto di riforme costituzionali che creerebbero una presidenza esecutiva istituzionalizzando la presa del potere di Erdogan che ha accumulato nel corso del suo governo.

Come ci illustra l’esempio della Turchia, gli autocrati di domani possono utilizzare eventi di crisi per iniziare la loro estesa repressione sugli oppositori, semplicemente giustificandosi di agire nell’interesse della sicurezza nazionale. Se queste crisi dovessero verificarsi nelle democrazie guidate dai populisti, è possibile che eventi simili accadano.

Il populismo: una sfida seria

Il mondo ha fatto esperienza di un’ondata di movimenti populisti che hanno ottenuto consensi negli anni recenti, in contesti politici che vanno dalle Filippine alla Polonia.  Queste circostanze precise suggeriscono ai sostenitori della democrazia globale di prenderne nota.

Le situazioni di paesi come la Turchia ed il Venezuela ci mostrano come le campagne populiste in democrazie di lungo corso possano essere utilizzare per l’“autoritarizzazione” e l’erosione delle norme e delle istituzioni democratiche. Ci indicano anche come questo tipo di processi portano al governo di un solo uomo forte, la più pericolosa forma di governo autoritario.

Sarebbe utile quindi che si prenda coscienza che la sfida del populismo è seria!

Marzo 4 2017

Talebani e russi: questa strana amicizia afgana

Talebani

I Talebani sono considerati dalla Russia una minaccia minore rispetto ai suoi interessi di lungo termine.

Malgrado l’avversione di lunga data tra Mosca e i Talebani, la crescente minaccia dei gruppi jihadisti transnazionali, le risorse limitate del governo di Kabul, l’inefficacia della presenza americana, la possibilità che il paese scivoli nel caos, hanno indotto le autorità di Mosca a ritenere che i Talebani possano essere parte di una soluzione politica di lungo termine in Afghanistan.

Una generazione dopo che il suo esercito, ha invaso, occupato e poi si è ritirato dall’Afghanistan, la Russia emerge come potenza mediatrice in l’Afghanistan. Verrebbe da chiedersi: ma come ha fatto Mosca a guadagnarsi questa posizione? La risposta è molto semplice: ha aperto un canale di dialogo con i Talebani.

Prima di continuare a leggere, vi propongo una scheda molto breve sui

Talebani

I Talebani sono stati al potere all’apice della guerra civile fino all’ottobre del 2001 stabilendo l’Emirato islamico in Afghanistan, rovesciando quindi il governo afghano appoggiato dai sovietici. Successivamente giustiziarono l’allora presidente pro-Russia: Mohammad Najibullah e offrirono rifugio ad Osama bin Laden così come a svariati gruppi tra cui il Movimento islamico dell’Uzbekistan che diffuse il terrore nell’Asia centrale post-sovietica.

Il ritorno della Russia in Afghanistan deve essere visto nel contesto del suo intervento in corso in Siria e nelle sua ambizioni geopolitiche nel più grande Medio Oriente. 

Le ambizioni della Russia

Allo stesso tempo, la riaffermazione dell’influenza russa in Afghanistan aderisce ad un più grande disegno della politica estera russa, in cui Mosca cerca di mediare accordi che gli permettono di espandere la sua impronta geopolitica a spese di Washington. Ricomponendo e magari concludendo un accordo di pace in Afghanistan, Mosca spera di poter rimpiazzare gli Stati Uniti come protettori dell’Afghanistan, posizionandosi come una potenza mediatrice decisiva, nell’Asia del Sud. In questa maniera, guadagnerebbe influenza sull’Afghanistan e potrebbe controllare la diffusione a nord sia del terrorismo che della droga.

La strategia: 

la Russia ha scrutato le azioni americane in Afghanistan cautamente, sostenendo la campagna del Presidente George W. Bush di distruggere i Talebani ed Al-Qaeda, inclusa l’iniziale invasione e il susseguente invio della International Security Assistance Force (ISAF) a guida americana. Dovendo affrontare la sua ondata di attacchi terroristici connessi alla guerra in Cecenia al tempo, la Russia (nei primi anni della prima presidenza Putin) si è trovata d’accordo con Bush nello sradicare il terrorismo alla sua fonte, offrendo finanche il suo benestare per l’apertura di nuove basi americane in Kyrgystan e in Uzbekistan.

Tuttavia Putin non prende mai decisioni a caso, il suo guadagno è stato quello di posizionare la Russia come partner indispensabile per gli americani, aumentando la sua stessa l’influenza.

Mosca ha da sempre nutrito due timori principali:

  1. un Afghanistan instabile che diventa terreno fiorente per il terrorismo transnazionale;
  2. l’incremento nella  produzione di oppio che inesorabilmente finisce in Russia e nell’Asia centrale. Secondo le Nazioni Unite, la Russia è tra i paesi con il tasso più alto di uso di oppiacei, overdose e infezioni legati all’HIV.

Proprio allo scopo di poter gestire questi due tipi di minacce, Putin ha acconsentito all’addestramento e ai rifornimenti per l’esercito afghano sostenuto dagli Stati Uniti.

Quando gli americani, apparentemente, si sono impegnati a ritirarsi dal Medio Oriente, la Russia ha visto l’occasione buona per riempire il vuoto, soprattutto in Siria, intervenendo quando era diventato chiaro che l’amministrazione Obama non l’avrebbe fatto.  Mosca ha anche rafforzato le relazioni con l’Egitto, l’Iraq, Israele, l’Iran, e in una maniera più limitata con l’India.
Anche se la Russia non soppianta gli Stati Uniti come il maggior sponsor di questi paesi, una maggior presenza in Afghanistan permetterà a Mosca di influenzare sviluppi alla periferia di quello che era l’Unione Sovietica.

La visione russa dei Talebani

La Russia posiziona i Talebani nella sua lista di organizzazioni terroristiche (unico paese al mondo, visto che i Talebani non compaiono né nella lista di organizzazioni terroristiche del Dipartimento di Stato americano, né in quella delle Nazioni Unite, né in quella dell’Unione Europea), ma sostiene che essi, considerevolmente resilienti nelle due decadi passate, siano distinti da gruppi transnazionali come lo “Stato islamico” o Al Qaeda che hanno come obiettivo la Russia e l’occidente in quanto nemici dell’Islam.

Mosca vede i Talebani come una minaccia minore ai suoi interessi di lungo termine rispetto alla possibilità di un Afghanistan caotico, specialmente con un governo pro-americano a Kabul e le truppe americane in giro per il paese.
Nei mesi passati quindi, Mosca si è presentata molto più attiva nel suo ruolo diplomatico e di sicurezza. Nel dicembre 2015 Putin e l’allora leader dei Talebani Mullah Akhtar Mansour si sono incontrati in una base militare in Tajikistan, con fonti talebani che rivendicavano che Mosca aveva offerto armi e supporto finanziario. Altri rapporti indicano che i russi e i talebani s’incontravano già dal 2013 in Tajikistan insieme ad altri inviati di diversi stati dell’Asia Centrale.
Pur restando diffidente riguardo le relazioni dei Talebani con Al-Qaeda, la rete Haqqani e svariati gruppi jihadisti, Mosca appare disposta ad accettare le richieste dei Talebani.

Le speranze di Mosca

L’assistenza militare e finanziaria, spera Mosca, possano indurre i Talebani ad andare contro la reale minaccia: i jihadisti transnazionali.

La Russia sembra che aspiri ad utilizzare la rivalità tra i Talebani e lo “Stato islamico” per assicurarsi che il paese non diventi un altro santuario per lo “Stato islamico” che minaccia la Russia.

Le speranze dei Talebani

I Talebani dal canto auspicano la fine definitiva della presenza americana nel paese ed il raggiungimento del loro obiettivo politico: ristabilire l’emirato islamico in Afghanistan con l’applicazione della Sharia.

Chissà cosa ne sarà del futuro dell’Afghanistan che, per la serie non c’è mai fine al peggio, fa esperienza di un’ “amicizia ritrovata” tra i talebani e i russi.