Sahel: tante missioni = nessuna stabilità
Il Sahel è diventato un mosaico, complesso, di operazioni di peacekeeping e contro-terrorismo.
I peacekeeper delle Nazioni Unite pattugliano il Mali, dove le truppe francesi sono anche a caccia di cellule legate ad Al Qaeda. Parigi ha anche sostenuto le forze africane di stabilizzazione per contenere i jihadisti nella Regione.
La Cina ha dispiegato dei peacekeeper in Mali, peraltro subendo anche delle vittime.Vi ricordate il recente viaggio di Macron a Pechino dove ha tentato di apporre pressione per più finanziamenti cinesi alle operazioni africane?
Lo scorso anno, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti hanno sborsato circa 130 milioni di dollari per aiutare i governi del Sahel in una nuova missione di contro-terrorismo multilaterale: il G5 Sahel.
Il Sahel sembra un laboratorio per una nuova era di gestione della crisi, con una vasta gamma di poteri locali, occidentali e non-occidentali posizionati piuttosto a casaccio che mettono assieme le loro risorse per promuovere la stabilità.
Tutti questi attori esterni hanno delle buone ragioni per farlo.
Mentre gli Stati Uniti si agitano per i terroristi, gli europei si preoccupano molto per i flussi di rifugiati.
La Cina – ebbene si ancora lei – ha compiuto grandi investimenti nel Mali.
Tutti vogliono limitare i costi di controllo della Regione, che non è un punto geopolitico cruciale e di possibile implosione al pari della Siria o della Penisola Coreana.
Il risultato netto è la proliferazione di sforzi militari di contro-terrorismo e di stabilizzazione connessi in maniera lasca.
Anche missioni individuali come il G5 Sahel possono risultare abbastanza incoerenti, coordinando eserciti con qualità differenti i cui leader hanno differenti priorità di sicurezza.
L’odierna miscela di missioni di gestione di crisi nel Sahel potrebbe essere sufficiente a limitare i problemi della Regione, ma sicuramente è improbabile che assicuri una più ampia stabilità.
Un tale tipo di approccio è relativamente flessibile e sostenibile, ma ha dei chiari limiti, perché alcune missioni nel Sahel potrebbero mettere benzina sul fuoco; oltre che è chiaro che sia la rappresentazione di risposte semplicistiche a problemi complessi.
Manca una direzione strategica complessiva.
La mancanza di risorse è un problema ricorrente per le operazioni nella Regione. Le unità occidentali potrebbero avere tutto ciò di cui hanno bisogno, ma le forze locali no. La missione delle Nazioni Unite in Mali conta su unità africane equipaggiate scarsamente, molte delle quali non hanno neanche veicoli corazzati. La forza sostenuta dall’Unione Africana creata per combattere Boko Haram ha impiegato più di un anno per acquisire l’equipaggiamento militare finanziato dall’Unione Europea.
Queste missioni inoltre mancano di una chiara direzione politica, concentrandosi su misure di breve termine per creare la stabilità ed eliminare i terroristi piuttosto che affrontare le radici profonde di tensioni economiche e sociali.
Il G5 Sahel, secondo l’International Crisis Group rischia di spingere più persone nelle braccia di gruppi armati attraverso la frequente condotta inappropriata e gli abusi contro i civili durante le operazioni o mentre cercano di frenare i traffici illeciti.
Qualche settimana fa i militanti islamisti hanno attaccato la città di Sevare, in Mali, nella base del G5 Sahel, uccidendo molti soldati. Questo attacco e altri colpi messi a segno hanno avuto come obiettivo i soldati maliani e francesi e sono stati rivendicati da un affiliato di Al Qaeda conosciuto con il suo acronimo JNIM.
Le varie sfide che deve affrontare il G5 Sahel non sono destinate a scomparire nell’immediato futuro; i gruppi militanti in Mali, ad esempio, incrementeranno gli attacchi in vista delle elezioni presidenziali nel Paese previste per il 29 luglio.
Il futuro del peacemaking e della gestione delle crisi protratte
Il Sahel non offre un esempio luminoso di come affrontare crisi protratte, ma il futuro del peacemaking è incline a coinvolgere esattamente la sorta di confusione, complessità e indefinitezza internazionale che sta emergendo ora.
I conflitti odierni in Siria, Iraq e Yemen presumibilmente non si concluderanno con una chiara composizione politica regionale e un quadro di pace sostenibile. Attori esterni e regionali potrebbero facilmente finire con il mantenere l’ordine e combattere i jihadisti attraverso una mescolanza fangosa di missioni di stabilizzazione e operazioni di contro-terrorismo, qualche volta cooperando, qualche volta scontrandosi.
Gli interessi geopolitici in tale scenario potrebbero essere più elevati e le risorse militari più grandi che in Mali o in Niger, ma potrebbe essere la migliore opzione disponibile per il Medio Oriente.
La gestione della crisi – protratta – nel Sahel è incline ad essere un affare indefinito, con attori esterni che investono solo in termini di denaro e assetti militari per contenere i gruppi jihadisti e restringere grandi movimenti di rifugiati e migranti.
Il futuro della gestione della crisi risiede più in ampie coalizioni di Stati dall’utilizzo immediato, che mettono assieme differenti assetti su basi ad hoc con strutture di comando decentralizzate.