Maggio 23 2017

Terrorismo internazionale: la gestione della paura

terrorismo

Dopo quasi 20 anni di ricerche e studi sul terrorismo e sul terrorismo internazionale non esiste una risposta generalmente accettata alla domanda: “cosa è il terrorismo e qual è l’essenza di questo fenomeno?”.

Nondimeno molti studiosi e specialisti sarebbero probabilmente d’accordo nell’affermare che:

il terrorismo è uno strumento che, attraverso le minacce e gli attacchi, mira a generare paura ed ansia; vuole intimidire le persone allo scopo di ottenere alcuni obiettivi politici.

La maggior parte delle definizioni formulate dai governi, piuttosto che da organizzazioni regionali, ricordano  l’opinione di Brian Jenkis, che nel 1975 argomentava:  “il terrorismo è teatro. Ai terroristi piace vedere tanta gente che guarda (e tante persone morte)“.

Il terrorismo mira a provocare reazioni a certe minacce o attacchi da parte di terze parti: il pubblico in generale, politici, gruppi di opposizione, media.

Il livello della paura non dipende solamente dai terroristi e dalla forma e portata del loro utilizzo della violenza.

L’impatto di ogni attività terroristica è il prodotto della percezione, immaginazione e vulnerabilità delle audience obiettivo o diversamente da parti coinvolte.

La paura non dovrebbe essere considerata solamente come una reazione negativa alle minacce e agli attacchi. Infatti la paura del pericolo è una emozione molto naturale ed utile. La paura è un meccanismo di sopravvivenza. La paura del terrorismo può incoraggiare persone a intraprendere le necessarie precauzioni e azioni. Ma se la paura del terrorismo non è proporzionata alla minaccia attuale, potrebbe avere molte conseguenze non necessarie e non volute. A questo proposito ci vengono in aiuto due prominenti studiosi Bekker e Veldhuis, i quali asseriscono che la paura del terrorismo causa uno spostamento verso un ragionamento dogmatico (assolutista) che è caratterizzato dal pensiero “noi contro loro”, stereotipi, discriminazione e una mancanza di sfumatura che contribuiscono a reazioni rigide di difesa del sistema che potrebbero più nuocere che fare del bene.

Gli attacchi terroristici contribuiscono alla diffusione della paura nella società più vulnerabile e a reazioni eccessive emotive, politiche o amministrative. Ad esempio, spesso essi conducono ad una preferenza per leader orientati all’azione con spiegazioni del terrorismo banali e sensazionali  e appelli all’azione immediata.

Il sociologo Frank Furedi, riferendosi in particolare agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna, asserisce che le società occidentali oggi sono paralizzate da una “cultura di paura” e sono prese nel cosi detto “paradigma della vulnerabilità”. Furedi sottolinea anche la nozione di terrorismo non solo si riferisce all’attacco in se ma definisce equamente anche il modo in cui la società risponde ad esso: “società che comprendono chi sono e che hanno un senso di solidarietà usualmente gestiscono un atto di terrore molto meglio di quelle società dove le cose sono confuse e dove non c’è una storia su chi sono”. Sempre secondo Furedi nelle società occidentali il copione culturale contemporaneo presenta il terrorismo come una minaccia incombente, simile alle catastrofi naturali. La conseguenza di questa presentazione è altamente ambivalente e paradossale. Da una parte, questa attitudine fatalistica diffonde un senso di impotenza; dall’altra suggerisce che solo con massicci dispiegamenti di forze e con un contributo gigantesco di risorse si può forse ridurre la minaccia apocalittica. Per Furedi, l’occidente perciò sta offrendo ai terroristi un “invito al terrore”. Gli studi di Furedi pur criticati offrono tuttavia una chiara analisi delle conseguenze di questa cultura del terrore: la combinazione del fatalismo e le reazioni esagerate.

La gestione della paura

I meccanismi di adattamento (ad eventi come un attacco terroristico) sono individuali, operano principalmente attraverso funzioni psicologiche personali. A. Schmid (uno dei maggiori studiosi di terrorismo) ha argomentato che il grado in cui un individuo o un gruppo è colpito e subisce l’influenza dalla paura dipende da un certo numero di fattori “oggettivi”:

  • la fonte del terrore;
  • la probabilità che un evento che induce terrore si ripeta ancora;
  • l’oggetto della vittimizzazione primaria (per esempio un membro della famiglia o di un gruppo) e la relazione ad esso;
  • le fasi dell’evento produttivo del terrore e,
  • l’abilità o inabilità di evitare, prevenire e combattere situazioni che sono prone al terrore nel futuro.

Alcuni di questi fattori sono plasmabili dagli strumenti di sicurezza.

Politiche efficienti di contro-terrorismo possono mirare a ridurre la probabilità di eventi che inducano terrore e migliorare la loro abilità di prevenire, evitare e combattere situazioni di questo genere. Per questo:

la gestione della paura dovrebbe essere considerata seriamente quando si progettano e si realizzano le politiche di contro-terrorismo in generale,

sia che siano relative al procedimento penale, alla raccolta di informazioni di intelligence, alle misure di prevenzione.

Il pubblico presumibilmente avrà una reazione più forte ed una percezione del rischio dopo incidenti terroristici rispetto ad altri eventi di crisi. Questo è dovuto all’intenzionalità e all’incertezza che accompagna questo tipo di eventi. L’intensa copertura mediatica di attacchi terroristici internazionali e i frequenti allarmi di politici su futuri attacchi forniscono una continua ed incessante esposizione all’ansia e alla paura.

I governi potrebbero non essere i fornitori dell’immaginario ma possono  ugualmente influenzare l’impatto sociale di attacchi terroristici .

Non è una novità statuire che il terrorismo è comunicazione.

Tutte le misure di contro-terrorismo sono anche mezzi di comunicazione e identificazione e le reazioni in gran parte determinano l’impatto sociale delle azioni dei terroristi, specialmente se consideriamo ciò in un contesto socio-politico più ampio e in un periodo di tempo più lungo.

L’impatto sociale non è qualcosa che i governi possono condurre appieno lasciati da soli, per conto proprio.

Invece, l’impatto sociale nel 21° secolo è una questione principalmente di copertura mediatica.

L’opinione pubblica è per lo più influenzata dai media e da immagini coinvolgenti dei drammatici atti terroristici che disseminano. I governi hanno il monopolio sull’uso della violenza e sono gli attori ai quali i cittadini si rivolgono in tempi di crisi nazionale.

Tuttavia proprio i governi spesso alimentano queste crisi e le utilizzano per promuovere le proprie agende politiche e militari. Essi amplificano il “panico morale” in società con metafore militari (“noi siamo in guerra”) o al contrario, esercitano un’influenza enfatizzando e facendo appello alla resilienza sociale in una data società.

 

Le misure di contro-terrorismo nel quadro della gestione della paura

Le misure di contro-terrorismo devono avere un elemento di comunicazione e devono trattare con il pubblico e le sue percezioni. Esse devono avere un effetto comunicativo che vada al di là degli strumenti espliciti ed intenzionali. Ogni azione di contro-terrorismo anche quella condotta a livello locale, per strada, può essere un punto strategico sulla “guerra dell’influenza” tra i terroristi e lo Stato. Affermazioni e discorsi posso anche loro avere un profondo effetto, comunicando alla società o anche al mondo “a cosa teniamo”. I terroristi sono più a conoscenza di ciò rispetto ai governi.

La maggior parte delle buone pratiche e delle lezioni apprese concerne la gestione pratica della crisi piuttosto che un più sofisticato approccio di gestione della paura socio-psicologico. Sebbene ad esempio il concetto di resilienza– 

*uno dei più importanti concetti nel dibattito sull’impatto del terrorismo sulle politiche e la società. Il concetto di resilienza ha le sue radici nel ingegneria civile nella psicologia e nell’ecologia. In breve, esso indica la capacità di materiali, persone, organismi a resistere improvvisamente a cambiamenti o stress, così come la capacità di riprendersi e ritornare alla situazione come prima. Dalla prospettiva di legislazione di contro-terrorismo, resistenza e resilienza potrebbero essere delle importanti capacità per affrontare l’impatto negativo (o la paura del) terrorismo da parte di individui e società nel complesso.

– e la circostanza che terroristi che attaccano società resilienti troverebbero più difficoltoso avere un impatto e raggiungere i loro obiettivi, sono abbastanza diffusi, è ancora aperta la sfida di trasformare questi concetti e le buone pratiche in una teoria e un modello di gestione della paura.

Consideriamo allora che un ipotetico modello di gestione della paura comprenda gli sforzi compiuti da istituzioni governative, prima durante e dopo situazioni di emergenza e di recupero che riguardano una minaccia/attacco terroristico per manipolare il capitale umano in una società per migliorare i meccanismi di adattamento positivi, collettivi.  Dunque sono tre gli elementi importanti che dovrebbero essere presenti in ogni manuale o in ogni strategia:

1. Non rafforzare i meccanismi di adattamento negativi;

sforzi di contro-terrorismo potrebbero involontariamente rafforzare meccanismi di adattamento negativi mobilitando il pubblico attorno ad immagini di paura, estendendo la retorica allo spettro del terrorismo, di far saltare in aria la minaccia e progettare una situazione simile alla guerra nella società. Una esagerazione di questo tipo della crisi potrebbe far aumentare sentimenti di impotenza, paura, e rabbia che alimentano la polarizzazione attorno a linee culturali, etniche, religiose all’interno della società.

2. Influenzare i meccanismi di adattamento positivi;

modi positivi di adattare il comportamento e le attitudini e minimizzare lo stress possono essere influenzati attraverso a) la diretta informazione e l’assistenza alle vittime e la misura in cui i funzionari di governo forniscono al pubblico una immagine chiara di quello che sta accadendo, danno un “senso” all’incidente e forniscono un “significato” ad esso in una maniera positiva, aumenta le capacità di risoluzione di problemi degli individui e potrebbe ridurre lo stress e i sentimenti di trauma. b) Organizzazione di eventi significativi positivi come assemblee, cerimonie, riti (religiosi): direttamente dopo un trauma, la “condivisione sociale” è legata a una emozione positiva perché riafferma i valori di ciascuno e aiuta a focalizzarsi su questi valori mentre ci si adatta all’impatto dell’evento stressante. c) L’organizzazione di atti visibili di giustizia: come forma di educazione psicologica e che abbia un senso, ad esempio un processo equo e trasparente può giocare un ruolo significativo nell’aiutare le persone a superare un terribile crimine.

3. Fornire auto-efficacia.

Le persone non vogliono essere delle semplici vittime o passanti, ma generalmente esprimono il desiderio di essere capaci e volenterosi nel fare qualcosa o almeno una cosa giusta e non essere lasciati in balia dei perpetuatori dell’attentato. Innescare questi meccanismi di adattamento positivi aumenterà la resilienza di una popolazione e potrebbe aiutare ulteriormente a ridurre la possibilità di paura eccessiva, reazioni esagerate e tensioni.

Studiando modi e mezzi per diventare più resilienti è la via più efficace per evitare di soccombere ai tentativi di altri di controllarci attraverso la paura.

 

Novembre 14 2015

Attacchi a Parigi: il chiasso degli esperti da salotto

Io che ho vissuto e lavorato in posti lontani, resto in silenzio per rispetto dei morti. Questa è una tragedia non un’occasione per farsi pubblicità.

Oggi voglio parlare a voi, che dalle poltrone comode, dalle vostre scrivanie lucide, parlate degli attacchi a Parigi. Voi che al massimo siete andati in vacanza in Egitto e perciò avete scritto sul CV “esperienza all’estero”. Voi che lucrate sulla morte senza rispetto, senza strategie, solo con frasi apocalittiche per un elettore in più. Sì, dico a voi che fate gli esperti di politica internazionale perché usate la curcuma e mangiate il cous- cous.

Adesso però parlo io: l’esperto di politica internazionale.

Io ho sentito l’esplosione, io ho visto una nuvola nera di polvere e detriti, io ero in un taxi con un uomo al volante ad ISLAMABAD, da sola. Io ero lì a lavorare e il venerdì pomeriggio volevo andare dal parrucchiere al Marriot, ma prima passare a ritirare i panni alla lavanderia, dove però è arrivato prima l’attentatore che si è fatto esplodere proprio lì dentro. Io ho lavorato in Pakistan, in Sierra Leone, in Libano, nella Repubblica di Macedonia, in Tunisia, in Libano. Ho lavorato con ministri panzoni e menefreghisti che venivano nel paese solo per le riunioni con i funzionari del ministero degli esteri perché “portano soldi”. Ho visto gente sorridermi, preoccuparsi perché mangiavo poco, prepararmi la paella in Pakistan portarla in bicicletta nel contenitore “preso in prestito” ad un diplomatico danese. Sono andata sulle montagne tra il Pakistan e l’Afghanistan per inaugurare un progetto e ho trovato silenzio e grandi sorrisi. Ho visto palazzi crivellati a Freetown e bambini venirmi incontro con una gamba sola per chiedere una caramella. Ho visto gente pregare il loro Dio perché ci fosse un mondo migliore.

Esperti che incitano  all’odio razziale. Brandire la spada della guerra di religione per un retweet in più.

Per il mio commento di politica internazionale sugli attacchi di Parigi, aspetto. Sì aspetto nel rispetto del dolore di quelle famiglie che non hanno più i loro cari. Aspetto che gli investigatori ci dicano di più.
In Italia è sempre così, il circo dell’esperto da salotto che non ha mai stretto la mano a nessuno che magari ha la colf filippina e allora si pensa uno multiculturale. Quelli che dicono: “dobbiamo andare in guerra”. (Giorgia Meloni dichiariamo guerra all’ISIS) Chi ci va? Tu con tutta la tua poltrona e a fare cosa?

Il terrore, quella sensazione che si ha dentro che qualcosa di tuo, di veramente tuo ti viene rubato e non lo puoi riprendere, non la puoi capire tu: politico che pensi che i perpetuatori degli attacchi di Parigi sbarchino a Lampedusa  (Salvini è convinto che si siano stipati sui barconi) e non la puoi capire tu che dici Daesh non sapendo che è l’acrononimo arabo di ISIS e quindi dici sempre lo stesso nome. La problematica dello “stato islamico” è complessa non si risolve con le bombe o incitando la caccia alle streghe. Ma oggi non è il giorno di fare analisi, oggi è il giorno del rispetto, della preghiera e del silenzio.

 

 

Novembre 14 2015

Multipli attacchi a Parigi: cosa sappiamo

Chi può aver organizzato questo tipo di attacco?

Attacchi multipli, notte di terrore, situazione in evoluzione, nessuna rivendicazione fin qui. Ci si chiede: “chi è stato?”. Possibili quattro scenari. La tecnica degli attacchi multipli nello stesso giorno è stata utilizzata dall’ISIS proprio quando ne prende il comando Abu Bakr al – Baghdadi da maggio 2010. Potrebbe aver coordinato un attacco mandando operativi e affiancandoli a locali. Ricordiamo che ci sono circa 520 cittadini francesi che combattono in Siria e 250 “ritornati”.

Secondo scenario

Potrebbero essere degli individui che non appartengono a nessuna organizzazione estremista con metodologie terroristiche, come fu il caso degli attacchi a Parigi di 10 mesi fa: Charlie Hebdo 3 giorni di terrore. Questo attacco vide coinvolti tre uomini armati locali, uno aveva dichiarato alleanza all’ISIS, ma non aveva mai avuto contatti diretti con il gruppo. Gli altri due erano fratelli e uno era fortemente collegato con Al Qaeda in Yemen. E’ stato quest’ultimo affiliato a rivendicare la responsabilità per l’attentato.

Terzo scenario

Al Qaeda. Sì, in questo momento si conduce una guerra interna al movimento jihadista globale per la leadership tra Al Qaeda e l’ISIS. Un attacco di questa portata potrebbe essere un segnale che benchè Zawahiri sia morto il titolo di “Commander of the faithful” non è vacante e risiede nelle mani di Aktar Mansor, il nuovo leader di Al Qaeda.

Quarto scenario

Attori locali, isolati. La Francia è sede di una vasta gamma di persone alienate, arrabbiate, frustate. Giovani musulmani che sono parte di gruppi informali di estremisti, violenti e non violenti. Molti tuttavia sono orientati più verso l’invio di persone in Siria che attaccare “a casa”. Pur tuttavia, la coordinazione e la precisione di questo attacco, ci fa pensare che non possono essere stati personaggi isolati. Ci ricorda l’attacco a Mumbai nel 2008 quando furono colpiti, un caffè, un centro ebreo e dei pendolari

Aspettiamo il lavoro degli investigatori e potremmo fare ulteriori analisi.