Dicembre 28 2015

Nel 2015 il Peacekeeping è stato il Chatkeeping

peacekeeping

Il Peacekeeping si è contraddistinto in quest’ultimo anno come un’occasione per chiacchierare piuttosto che per agire.

Si è parlato molto del dispiegamento di peacekeepers in zone di guerra, ma il risultato è stato paradossale: meno azione. Sembra che in questo 2015 i governi e le organizzazioni internazionali abbiano intrapreso un approccio più cauto nel comporre nuove missioni in ambienti ad alto rischio.

Il difficile equilibrio tra i dispiegamenti all’infinito e l’inazione

In Ucraina, l’OSCE ha mantenuto la sua missione civile di monitoraggio, lanciata nel 2014, anche se fronteggia regolarmente l’ostruzionismo dei secessionisti nell’est del paese. I funzionari dell’OSCE hanno occasionalmente proposto di aggiungere una componente militare alla missione e il governo ucraino ha dichiarato che sarebbe aperto ad una missione di larga scala di peacekeeping delle Nazioni Unite. Sembra del tutto improbabile che la Russia accetti ogni dispiegamento di forze che restringa la sua libertà d’azione nell’est dell’Ucraina nel prossimo futuro.
All’inizio del 2015, l’Unione Africana ha assunto la guida di una Multinational Joint Task force per fronteggiare la minaccia crescente di Boko Haram. Il Consiglio di Sicurezza ha dato a questa nuova formazione la sua benedizione e la Francia ha esercitato parecchia pressione per farla funzionare. Tuttavia l’Unione Africana ha sempre rimandato l’inizio delle operazioni a metà 2015 e non ha ancora raggiunto la sua piena capacità operativa. Il Ciad, un potenziale cruciale contributore, ha negato le sue truppe a seguito di tensioni sulla strategia delle forze in campo.
In Libia, il diplomatico tedesco inviato delle Nazioni Unite, è riuscito a far impegnare i leader delle varie fazioni a formare un governo di unità nazionale. Ora si discurte nel consesso delle Nazioni Unite di dispiegare una piccola forza militare di peacekeeping per proteggere questa nuova amministrazione a Tripoli, in parallelo con azioni più aggressive contro lo stato islamico in Libia. Ma non è ancora certo se questa proposta sarà politicamente fattibile, e c’è il rischio, che una volta sul terreno, le forze di peacekeeping vengano messe sotto pressione per costringere le Nazioni Unite a dispiegare una forza più ampia nella regione.
La forza di stabilizzazione in Afghanistan inizia, dopo tutto, come una piccola presenza stazionata a Kabul per proteggere le autorità post- talebani nel 2001. Alla fine è cresciuta con un personale pari a più di 100.000 unità, intrappolato in una guerra che non potrà mai vincere.
Per la maggior parte dell’anno, si sono susseguite proposte per operazioni di peacekeeping in Siria, che però rimangono interamente ipotetiche. Il Consiglio di Sicurezza ha autorizzato il così detto “tavolo di proposte” di Ban Ki – moon per un “monitoraggio di cessate il fuoco, meccanismo di verifica e rapporto” inteso come un complemento ai colloqui di pace che si terranno all’inizio del 2016. Nessuno vuole ripetere i precedenti sforzi di monitoraggio delle Nazioni Unite in Siria: una missione di caschi blu  che fallì nel fermare l’aumento delle ostilità del 2012.
le violazioni del cessate il fuoco potrebbero essere monitorare dalle parti in guerra o da organizzazioni civili e riportate alle Nazioni Unite” sembra proprio una proposta di disperazione diplomatica. Ci sembra davvero parecchio difficile vedere come il meccanismo di “auto – rapporto” godrebbe di diffusa credibilità dopo 4 anni di guerra.

L’unione Africana ha autorizzato una proposta per una operazione di 5000 soldati per fermare la deriva violenta che sta attraversando il Burundi. Il governo del Burundi ha rigettato la proposta come “forza d’invasione” .

Ognuno di questi processi è fragile e nella migliore ipotesi  stabiliscono  un lungo ed infinito sentiero di risoluzione.
Malgrado i principi post – Rwanda e post – Srebenica di prevenzione del genocidio o di atrocità di massa con o senza il permesso dello stato, le Nazioni Unite sono ancora basate sul sistema di sovranità dello stato. Il risultato è che è virtualmente impossibile per le Nazioni Unite impegnarsi massivamente senza il permesso dello stato ospitante. La Siria, fino ad ora è stata ricettiva solo di una modesta missione di osservatori delle Nazioni Unite e di aiuto umanitario. Yemen e Libia erano più aperte ad un ruolo Nazioni Unite sperando per una operazione di peacekeeping di lungo termine che potesse aiutare a guidare la ricostruzione economica come la riconciliazione politica.

L’apertura alle forze di peacekeeping non è necessariamente risolutiva del conflitto.

Ci si chiede spesso perché il peacekeeping non riesca ad ottenere risultati sperati, perché in alcuni paesi le forze di peacekeeping sono rimaste impantanate senza vedere via d’uscita. Molto semplice: le organizzazioni regionali, le grandi potenze hanno un’enorme influenza nel creare le condizioni affinchè la missione di peacekeeping sia produttiva. Se potenze regionali  sentono che in qualche modo la missione mini i loro interessi, possono facilmente boicottarla, come è il caso dello Yemen e della Libia. L’Arabia Saudita considera la stabilità dello Yemen come un interesse vitale di sicurezza nazionale. Il diretto interesse e coinvolgimento degli stati regionali complica il compito delle Nazioni Unite. Non è un segreto che gli inviati delle Nazioni Unite ricevano pressioni dalle potenze regionali che vogliono proteggere i loro clienti o un particolare risultato. La conseguenza è che potrebbero quindi arroccarsi in posizioni che influenzano l’approccio che le Nazioni Unite dovrebbero intraprendere e lo scopo della missione di peacekeeping. Possono benissimo utilizzare alcune tecniche politiche che conferiscono legittimità ai ribelli piuttosto che ricreare un governo rimosso, oppure strutturare i colloqui di pace attorno ad un’artificiale simmetria di potere tra le forze contendenti.
Le grandi potenze possono anche bloccare i progressi degli sforzi di mediazione NU. Siria è l’esempio più lampante.

Vietare l’uso dell’ipocrisia quando si parla di peacekeeping

Per il nuovo anno auguriamo al Consiglio di Sicurezza di farsi un esame di coscienza. Il 31 dicembre 2015 speriamo che buttino dalla finestra le chiacchiere infinite su le missioni di peacekeeping e si dirigano senza esitazione su due vie: la riforma del Consiglio di Sicurezza e il dispiegamento delle forze di peacekeeping con un mandato preciso e attagliato al contesto, senza ricadere nell’errore di rinnovare ogni anno la missione che era nata per uno scopo e dopo 10 anni evidentemente non è neanche più lo stesso. E’ facile dire che il peacekeeping è inutile, le Nazioni Unite sono inutili, quello che è veramente inutile ed essere sempre uguali a se stessi, se il sistema è nato dopo la seconda guerra mondiale, beh è obsoleto, non si può pensare che il mondo sia lo stesso e non si può neanche pensare di combattere il terrorismo sapendo che proprio nel Consiglio di Sicurezza sia gli Stati Uniti che la Russia si oppongono ad una definizione di terrorismo univoca che acquisti rilevanza giuridica perchè temono che poi nella definizione ricadano i gruppi che proteggono ed armano.