Novembre 29 2024

Conflitto israelo-palestinese si risolverà?

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Chi studia strategia, conflitti, ha una responsabilità non solo verso gli studenti nell’offrirgli strumenti validi ed utili per essere i futuri decisori politici, ma verso tutti quelli che non sono del settore perchè i conflitti contemporanei sono composti anche dalla sfera della società civile che non può sempre approfondire come facciamo noi analisti di politica internazionale ed è necessario che abbia a disposizione un quadro, un contesto, per potersi orientare e contribuire (sì anche se si è fisicamente lontani dal conflitto) alla trasformazione del conflitto, vale a dire che la contraddizione che ha innescato il ciclo di conflitto sarà affrontata e riconciliata in maniera tale che non sarà più l’innesco della polarizzazione e quindi della violenza.

La teoria dei conflitti, degli studi strategici, si avvale di anni di lavoro di studiosi provenienti da tutte le parti del mondo e non raramente sento dire: “eh la teoria…a che serve se poi in pratica non si realizza niente“… “eh la teoria è per insegnare, per lavorare serve la pratica“…“eh la teoria è per quelli che stanno seduti non per quelli che stanno sul posto a sporcarsi le mani“.

Per non ricalcare i discorsi (che io non sopporto) di quelli che elencano le missioni sul campo, mi limito a dire che:

nella mia esperienza professionale ho potuto constatare “sporcandomi le mani o i piedi” che senza la teoria che offre contesto e strumenti, la pratica risulta in qualcosa che, al meglio, è inefficace se non addirittura sortire l’effetto contrario a quello desiderato. Il punto è che se non sono consapevole delle dinamiche dei conflitti così come sono, non per quello che io immagino o percepisco in maniera soggettiva, non sarò in grado di individuare uno scenario che mi porti verso la risoluzione del conflitto stesso. Oppure ne individuerò uno che fallirà, o peggio non farò nulla perchè “non mi riguarda”. Anche solo veicolare una informazione adeguata, corretta e scientifica (eh si la strategia, la risoluzione dei conflitti, sono scienze) metterà in moto una serie di dinamiche e processi che altrimenti non troveranno spazio. La consapevolezza è una parte della risoluzione dei conflitti per quanto leggerlo potrà sembrarvi strano.

Il conflitto israelo-palestinese è un conflitto intricato.

I conflitti intricati sono quelli in cui tentativi di un contenimento pacifico, accordo e trasformazione hanno fallito (nei conflitti cosiddetti bloccati – frozen – vi è una qualcosa di simile ad una gestione pacifica, ma essa è superficiale ed è soggetta a collassare di nuovo).
I conflitti intricati sono stati oggetto per anni di studio da parte degli specialisti.
Nella risoluzione dei conflitti vi sono degli approcci sovrapposti :
– la negoziazione per un accordo politico;
– la risoluzione dei problemi interattiva;
– il dialogo per una comprensione reciproca;
La negoziazione per un accordo politico è associata con accordo di composizione di conflitto, il dialogo per una comprensione reciproca con la trasformazione del conflitto e la risoluzione dei problemi interattiva – storicamente il fulcro dell’approccio di risoluzione dei conflitti – costruisce un ponte tra le altre due.
Evidentemente la quintessenza di questo conflitto intricato è composta da molti elementi a diversi livelli ed è il punto fondamentale, primario della complessità sistemica di un conflitto transnazionale. Se deve essere fondamentalmente trasformato richiederà cambiamenti tra i settori – economico, politico, sicurezza, sociale, psicologico – e livelli – domestico, regionale, globale.

Consapevolezza del disaccordo radicale

Invece di licenziare dall’inizio il disaccordo radicale come un mero superficiale “dibattito antagonistico” , “dibattito competitivo”, dovremmo considerarlo seriamente come il principale impedimento alla complessiva risoluzione dei conflitti.
Dovremmo riconoscere che nei conflitti intricati, malgrado le considerevoli trasformazioni raggiunte con i gruppi di dialogo, con i workshop sul dialogo e la risoluzione dei problemi, non si è verificato un cambiamento sostanziale, vale a dire la contraddizione tra le parti in conflitto è rimasta tale.
La maggior parte degli israeliani e la maggior parte dei palestinesi hanno perso fiducia in questi approcci e nel dialogo per una comprensione reciproca, lasciando ampio spazio per una normalizzazione dell’oppressione che ignora l’asimmetria del potere.
Molti israeliani considerano tali approcci privi di scopo in ragione, dal loro punto di vista, della passata inaffidabilità dei palestinesi e in ragione di una più grande urgenza nell’affrontare altre questioni sia domestiche che estere.

Nei conflitti intricati la norma è la resistenza al contenimento, all’accordo e alla trasformazione, averne consapevolezza è il primo passo per individuare alternative.

Il dialogo agonistico come lo definisce lo studioso Ramsbotham, ovvero dialogo tra avversari è parte del disaccordo radicale in cui le parti in conflitto direttamente si impegnano nelle affermazioni reciproche. Il dialogo antagonistico non è altro che la guerra delle parole ad un livello più profondo.


Uno degli impedimenti più debilitanti è il gap tra le élite del processo decisorio e i livelli di società popolare. Ancora ed ancora accordi stipulati a porte chiuse a livelli di élite.
In direzione opposta, possibilità e visioni, idee al livello base della società con le sue radici che non penetra nelle gerarchie politicizzate di partiti o nelle istituzioni politiche ufficiali e di sicurezza. Questa è una delle principali ragioni del perché il processo di Oslo ha iniziato a perdere il momentum a metà degli anni 1990.

Si discute spesso di approcci dal basso, ecco se ne discute, senza la consapevolezza che il dialogo agonostico avviene tra le parti in conflitto, tra élite al potere. Il livello della società è tagliato fuori. La società è il livello base dove del resto il conflitto accade.

Sempre perchè la teoria deve necessariamente essere il ponte con la pratica, le persone che sono colpite da una bomba, sono parte di questo livello base che non penetra nelle gerarchie delle élite politiche. Le persone che devono spostarsi e poi sperare di tornare. Le persone che hanno perso tutto compreso i familiari. Anche le persone che non sono vittime della guerra, ma compongono il resto della società di una delle parti in conflitto, sono state ascoltate? Siamo sicuri che siano d’accordo con le élite al governo? Le abbiamo ascoltate, entrano negli scenari di risoluzione dei conflitti o sono solo notizie che poi vengono manipolate per il dialogo agonistico? Sono queste alcune delle domande da porsi.

La domanda a questo punto è: cosa servirebbe?

Gli studiosi hanno suggerito il “pensiero strategico”. Detto così, sembra qualcosa di estremamente bello a livello teorico, ma del tutto irrealizzabile nella pratica. Cosa ci faccio con questo impegno strategico, che vuol dire, praticamente che si deve fare?
Per iniziare tracciamo una importante differenza. La manipolazione strategica o pianificazione strategica è compiuta in segreto o in privato, accompagnata dall’esercizio controllato della persuasione del pubblico. Essa è caratteristica di versioni di “strategia” ideologica, partitico-politica e commerciale.

Un confronto tra possibili scenari che elencano tutti i vantaggi da una parte e tutti gli svantaggi dall’altra è chiaramente un segno caratteristico della manipolazione strategica perché le situazioni non sono quasi mai così nette.

Il pensiero strategico, in contrasto, valuta, confronta le opzioni strategiche e paragona i pro e i contro. Incoraggia in modo deliberato una critica dallo stile “avvocato del diavolo” delle strategie favorite, allo scopo di verificarle per debolezza e incoraggia la creatività conservando la flessibilità strategica.
Invece di iniziare tra le parti in conflitto iniziamo all’interno delle parti in conflitto.

Invece di iniziare dove terze parti vogliano che il conflitto sia, iniziamo dal punto in cui le parti in conflitto chiedono dove sono, dove vogliono andare e come vogliono arrivare lì.
Impegno strategico può aiutare a portare a galla questioni che altrimenti sarebbero scomparse dal radar pubblico.
Spesso il punto critico sia nella perpetuazione del conflitto che nel fallimento dei tentativi di risoluzione e nel suggerire possibili nuove configurazioni è: “tutti sanno come un accordo finale sarà” ed è ciò che si sente comunemente affermare nel conflitto israelo-palestinese.

L’impegno strategico mostra che nessuno sa come sarà un accordo finale. Questo è il problema. Anche in relazione ai dossier familiari nei tentativi ripetuti nel 2000, 2001, 2004, 2007, 2014 come la determinazione delle frontiere future, il legge di ritorno (diaspora ebrea) il diritto di ritorno (diaspora palestinese), lo status di Gerusalemme, gli accordi di sicurezza, la gestione delle risorse economiche, le concezioni restano in contrasto . Non vi è accordo su cosa voglia dire “stato palestinese”.
Il pensiero strategico apre ai possibili piani B, a possibilità future che per quanto remote possano essere – la soluzione due stati, la federazione con la Giordania – non entrano nel dibattito e anche se si rivelano essere catalizzatori critici nelle percezioni tra rischi e benefici, in realtà aprono al dialogo su qualcosa di nuovo che altrimenti resterebbe assente.

In sostanza, se io non propongo altri scenari, considerando l’ “interno” di ciascuna parte, proponendo varie possibilità, non avrò mai sul tavolo quello scenario per cui le parti converanno. Quello scenario per cui la contraddizione tra le parti in conflitto che ha generato la violenza sarà affrontata in maniera significativa, vale a dire non sarà più il punto da cui si aprirà la polarizzazione e tutto il ciclo del conflitto.

Se non considero l’interno di ciascuna parte, vale a dire chi e cosa vuole ogni componente di ciascuna parte in conflitto, non potrò elaborare nuove possibilità. Evidentemente considerare le parti in conflitto come blocchi monolitici sempre uguali a se stessi, ignorando che all’interno di esse vi sono altre parti, mi renderà intrappolato in un ciclo di conflitto che si ripete.


Affrontare l’asimmetria del conflitto


L’asimmetria quantitativa (una parte del conflitto è più grande dell’altra) pone problemi, ma essa è significativamente aggravata quando vi è anche l’asimmetria qualitativa (ad esempio una parte in conflitto è un governo e l’altra no). Questo significa che queste parti in conflitto stanno perseguendo obiettivi strategici interamente differenti. Ad esempio, la fondamentale questione strategica per Israele nel conflitto israelo-palestinese è: perché Israele dovrebbe arrendersi? Laddove la fondamentale questione strategica dei Palestinesi è: come possono i palestinesi trasformare lo status quo?
Al cuore del pensiero strategico vi è la questione dell’equilibrio del potere. Chi prevale? A chi è accordata più importanza tra le parti in conflitto?
Ci facciamo aiutare dal lavoro di Kenneth Boulding e Joseph Nye che ci dicono che esistono differenti tipi di potere da essere messi a confronto. Nel conflitto israelo palestinese, Israele ha una schiacciante forza militare ed economica così come il sostegno delle più grandi potenze mondiali. Ma anche i palestinesi hanno potere, il potere della legittimità internazionale, molto rafforzata nell’ultima decade, al punto che un gran numero di paesi sostengono il principio di uno Stato di Palestina. Come risultato la Palestina è già uno stato non-membro osservatore delle Nazioni Unite. Questo è un trionfo della strategia palestinese.

Anche qui, sono davvero consapevole di queste dinamiche di potere e strategia?


Chiarire il ruolo delle terze parti

Da una prospettiva di negoziazione strategica, le terze parti non sono neutrali, imparziali o disinteressate. Le terze parti anche le cosidette parti trasformative vogliono cambiare i discorsi delle parti in conflitto in modo che siano differenti da come erano prima. Anche loro vogliono “vincere”. Questo è la ragione per cui l’intervento di terze parti anche se all’inizio è benvenuto, spesso finisce con entrare in contrasto con tutte le parti in conflitto. Le parti in conflitto si aspettano che le terze parti li sostengano, quando non lo fanno le parti in conflitto entrano in contrasto con loro o possono entrambe convenire che le terze parti non comprendono per nulla la situazione.
Alla luce di ciò occorre riconoscere di non essere neutrali, imparziali o disinteressati.

Dunque è necessario che le terze parti analizzino il sistema complesso esistente, valutandone le forze e le debolezze, paragonando possibili scenari, determinando gli obiettivi di breve e lungo termine, allo scopo di preparare strade alternative, trovare alleati strategici, adattare e valutare mezzi strategici.


Se il classico schema di cui parlavamo all’inizio della risoluzione dei conflitti ha fallito di produrre i suoi effetti per decadi e decadi, non è possibile licenziare la questione con “è lontana” o con interventi di “aiuto/sostegno” che non sono utili ad affrontare la contraddizione. In questo schema che oramai si ripete da anni, la contraddizione innescherà nuovamente la polarizzazione quindi la violenza vale a dire la guerra. Neanche vale l’affermazione: “non c’è nulla da fare”, perchè l’impegno strategico è proprio questo: individuare altri scenari, non dialogo tra le parti in conflitto. ma all’interno delle parti in conflitto. La consapevolezza che le terze parti non sono neutrali e disinteressate. Qui allora potremmo sentirci dire: e quindi? Che si fa? Si cambia schema, o meglio si inizia da un altro punto, dal dialogo all’interno delle parti in conflitto, dall’essere consapevoli che le terze parti nutrono i propri interessi, che gli spazi vuoti che lasciano i gruppi estremisti possono essere riempiti da gruppi potenzialmente più radicali di quelli precedenti, ma di questo parleremo nel prossimo post.

Dicembre 6 2023

La guerra a Gaza: un trauma generazionale

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La politica ha una dimensione fisica, il posto nella mente dove vi sono la separazione tra il bene ed il male, la proiezione della colpa inconscia nel profondo del nemico, che dapprima nutrono se stesse e poi portano i loro amari frutti.

Vi é la necessità di portare una comprensione psicoanalitica al tavolo di negoziato.

Sebbene questo conflitto sia fondamentalmente sulla terra e sulla identità politica, i demoni del passato e del presente gettano una lunga ombra sulle percezioni individuali e collettive. I fantasmi dell’Olocausto e della Nabka, le molteplici guerre arabo-israeliane, la violenta occupazione, la resistenza violenta, infestano la coscienza individuale e collettiva dei palestinesi e degli israeliani.

Il trauma che ne risulta aumenta la sfiducia reciproca, deforma le interpretazioni delle intenzioni dell’altra parte, distorce la reale dinamica di potere in gioco e rafforza gli estremisti e le opportunità di trarre vantaggio dalle paure del pubblico a vantaggio delle proprie agende, a spese del bene di lungo periodo delle persone ordinarie.

Il trauma perpetua il conflitto elevando il valore della terra sulla vita umana, attraverso l’impiego della violenza con un valore redentivo ipnotico.

Vi sono due tipologie di trauma interconnesso e intrecciato in gioco in questo contesto: il trauma individuale ed il trauma collettivo.

Un diffuso trauma individuale é composto dal trauma collettivo e storico.

Nel caso degli israeliani, il trauma collettivo, cruciale, é l’olocausto (Shoah il termine ebraico che significa distruzione catastrofica), e i massacri che lo hanno preceduto. Sebbene i palestinesi non siano responsabili per la persecuzione ed il genocidio degli ebrei, molti israeliani hanno trasferito la faccia e le sembianze dei loro precedenti tormentatori e persecutori sui palestinesi, vedendoli come aggressori guidati dall’irrazionale disprezzo per gli ebrei, piuttosto che come un popolo motivato fondamentalmente dalla perdita della loro terra e dei loro diritti. Ciò é parzialmente un prodotto del trauma e parzialmente il risultato di un desiderio di sfuggire alla responsabilità per l’occupazione ed il suo lato interiore negativo.

Per molti sionisti, questa minaccia esistenziale era la più estrema e mortale manifestazione di quello che essi percepiscono come una linea ininterrotta di persecuzione, che inizia dai tempi antichi. Decadi prima dell’Olocausto, Theodor Herzl, il padre fondatore del sionismo politico, scrive nel ” Der Judenstaat” (1986): ” abbiamo sinceramente cercato ovunque di mescolarci con le comunità nazionali in cui viviamo, cercando solo di preservare la fede dei nostri padri. Non ci é stato permesso… Nessuna nazione sulla terra ha sopportato tali lotte e le sofferenze come noi“.

Questo trauma storico é un fattore molto importante in ciò che possiamo definire come il dismorfismo di potere israeliano. Malgrado dispongano del più potente esercito nella Regione e controllino praticamente ogni aspetto della vita palestinese, molti israeliani credono genuinamente che loro siano i piú deboli o i più vulnerabili nel conflitto.

Questo senso di fragilità e vulnerabilità risale a decadi fa. Nell’Europa degli anni 1940, gli ebrei erano una minoranza indifesa perseguitata da uno Stato totalitario e potente. Nella Palestina degli anni 1940, gli ebrei sionisti erano parte di un progetto di colonizzazione facilitato da una superpotenza, la Gran Bretagna a quel tempo, sostenuta da milizie ben armate e ben addestrate messe in competizione contro una popolazione locale palestinese malamente armata e per la maggior parte non addestrata.

Un simile panico esistenziale attraversa le linee del nemico.

Il massacro che ha condotto Hamas con la sua incursione in Israele ha evocato paragoni con la Shoah, per cui molti israeliani ed ebrei – genuinamente – hanno avvertito la paura di un altro genocidio, malgrado la superiorità militare di Israele e le chiare differenze tra le due situazioni.

Il trauma dell’Olocausto vive nella coscienza collettiva degli israeliani. Ciò è simbolicamente riflesso nella prossimità nel calendario di Yon HaShoah (il giorno del ricordo dell’Olocausto) con il giorno dell’indipendenza di Israele, un’espressione del ruolo percepito dello Stato di Israele come protettore e salvatore degli ebrei. Un’altra indicazione di questa centralità è Yad Vashem a Gerusalemme, il memoriale in movimento e museo per le vittime dell’Olocausto. Ironicamente, Yad Vashem non rileva, attraverso una valle, uno dei luoghi più simbolici e struggenti del trauma collettivo palestinese: Deir Yassin. Questo villaggio tranquillo e pittoresco che aveva dichiarato la sua neutralità durante la guerra civile 1947-8 in Palestina, è stato attaccato da gruppi paramilitari ebrei di estrema destra, Irgun e Stern Gang, e molti dei residenti furono massacrati; il villaggio stesso fu spazzato via dalla mappa.

On [the Yad Vashem] side of the valley the world is taught to ‘Never Forget.’ On the Deir Yassin side the world is urged to ‘Never Mind,’”

dal sito web Zochrot, una organizzazione israeliana non governativa creata da un gruppo di attivisti ebreo-israeliani, dedicata a mantenere viva la memoria dei palestinesi espulsi dopo la fondazione di Israele nel 2002.

Deir Yassin è stato un momento centrale nella lotta palestinese.

Le notizie di esecuzioni di più di 100 abitanti del villaggio parte di una popolazione di 600 ed il corteo dei sopravvissuti per le strade di Gerusalemme ha condotto al panico di massa tra la popolazione civile araba, contribuendo ad innescare l’esodo della maggioranza della popolazione arabo-palestinese, che genuinamente temeva ulteriori massacri e credeva che sarebbero tornati dopo la fine dei combattimenti.

Più di 700,000 palestinesi fuggono terrorizzati o cacciati, a molti di loro non è mai più stato concesso di tornare alle loro case. Ciò contrassegna l’inizio di quello che poi diventa noto come Nakba o catastrofe che, nelle menti dei palestinesi, è un disastro vivente ed in corso.

Mentre i palestinesi nella diaspora hanno poche, se non alcuna, opportunità di muoversi verso la loro terra ancestrale senza che avvenga un significativo cambiamento politico, i palestinesi che ancora vivono nella storica Palestina avvertono che una Nabka, dal ritmo dilatato, é ancora in essere.

A Gerusalemme ciò é manifestato nella forma di predazione di terra, imprigionamenti, demolizione di case, attraverso la violenza, la confisca della terra che aumentano sin da quando é iniziata l’ultima guerra a Gaza.

A Gaza assume la forma di un costante ciclo di guerre e una graduale trasformazione del territorio in una terra di nessuno inabitabile, che evoca rinnovate paure di pulizia etnica.

Nella visione dei primi sionisti, una terra da chiamare propria avrebbe ancorato il popolo ebreo e protetto contro la vulnerabilità di essere una minoranza perpetua, mentre si lavorava ad una terra che avrebbe costruito apparentemente un nuovo ebreo solido e resiliente che sarebbe stato la vittima di nessuno.

Il potere salvifico della terra é tale che i massimalisti di entrambe le parti credono che la possessione di Israele/Palestina sia più importante della carne e delle ossa degli israeliani e dei palestinesi, non importa quante generazioni di sofferenza siano inflitte.

Per portare avanti questa agenda e perpetuare il conflitto, gli estremisti pongono l’accento sull’angoscia generata dal trauma collettivo degli ebrei e sul trauma che vivono quotidianamente i palestinesi così come le paure e la sfiducia che questo produce.

La relazione taciuta tra palestinesi islamisti, destra israeliana e coloni.

Per decadi, i palestinesi islamisti mantengono una relazione taciuta con la destra israeliana e i coloni. Così come l’America aveva precedentemente sostenuto gli islamisti contro i secolari, i regimi arabi non allineati durante la Guerra Fredda; Israele, discretamente, tollera la nascita del precursore di Hamas come un controbilanciamento contro l’odiato OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina), malgrado la volontà di quest’ultimo di trovare una soluzione negoziata al conflitto.

Durante il processo di pace di Oslo, fortemente fallace, gli attacchi suicida di Hamas e del Islamic Jihad, sommati all’assassinio di Yitzhak Rabin da parte di un fanatico religioso sionista, Yigal Amir, hanno contribuito ad azionare l’egocentrismo di Benjamin Netanyahu al potere. Analogamente, Netanyahu, Likud e gli altri alleati coloni di estrema destra hanno contribuito al rafforzamento della posizione di Hamas agli occhi dell’elettorato palestinese, distruggendo il processo di pace, screditando la ricerca di pace dell’Autoritá Palestinese e costruendo fatti sul terreno destinati ad assicurare che lo Stato palestinese non diventasse mai una realtà.

Fin da quando Hamas é salito al potere a Gaza, Netanyahu ha considerato il movimento di resistenza islamico sia come un nemico, sia come un alleato de facto con un nemico in comune: il processo di pace, il fronte di pace e la soluzione due Stati. Netanyahu ha visto il movimento come uno strumento utile sia per guadagno personale che ideologico

Malgrado o in ragione della paura di Hamas e dei suoi razzi inflitta nel cuore dei cittadini israeliani, “la concezione”, il nome che Netanyahu assegna alla sua strategia di impedire le aspirazioni palestinesi mentre gestisce il conflitto a vantaggio del movimento dei coloni israeliani, va in frantumi il 7 ottobre, quando viene meno tutta la cornice di sicurezza di cui si e’ vantato verso l’elettorato.

Il trauma collettivo che Netanyahu ha sfruttato per mantenersi al potere, per cercare di evitare le procedure penali e portare avanti la sua agenda con i suoi alleati coloni é sorretto da una fondamentale sopravvalutazione di quanta violenza può raggiungere il conflitto israelo-palestinese, una sottostima della determinazione dell’altra parte e una accresciuta risolutezza generata dalla violenza.

Nei fatti, quello che Israele sta compiendo adesso a Gaza corre il rischio di creare le condizioni per cui movimenti radicali emergeranno dalle macerie, specialmente dal momento che i pilastri sociali che mantengono la comunità assieme si sgretolano in mezzo alla distruzione. Il dolore intenso ed il trauma causato dalla continua distruzione di Gaza potrebbe fornire un nuovo quadro di estremisti con le relative reclute.

L’estremo militarismo di Israele e la sua eccessiva dipendenza dall’apparato militare é un prodotto secondario del trauma storico, sfruttato da falchi ed estremisti per mantenere il sostegno del pubblico, ovvero tenerlo in ostaggio, per il progetto di insediamenti e la continua sottrazione di potere ai palestinesi. Il potere, la spavalderia dell’esercito piu’ potente della Regione, parzialmente compensa, nella psiche collettiva, il senso di una passata debolezza e impotenza.

Una non dissimile dinamica di sopravvalutazione dell’utilitá della violenza e una sottostima della risolutezza e determinazione dell’altra parte é in gioco anche tra i palestinesi, ma per ragioni contemporanee piuttosto che storiche. Il trauma collettivo continuo, l’espropiazione, ha creato non solo un’infinitá di dolore, ma anche una profonda vergogna, unita alla collettiva debolezza del popolo palestinese e alla loro incapacità di difendere se stessi.

Questo ha l’effetto paradossale sulle fazioni palestinesi armate di rendere il fascino della violenza crescente, anche se la sua futilità é ripetutamente e dolorosamente dimostrata. L’incursione sanguinosa di Hamas il 7 ottobre é un esempio tipico. Non c’é modo che Hamas non avesse previsto la ferocità della odierna campagna militare israeliana, ma ha proceduto comunque a condurre l’azione.

The pain of this conflict is well known. Yet we are only at the start of learning how that manifests itself — and even further from finding a way out of it,

scrive Arwa Damon

Una parte della comprensione del “perché'” ci troviamo in una tale circostanza non include solo le decisioni e gli eventi, ma anche le emozioni che guidano queste decisioni e questi eventi.

Se osserviamo la storia della popolazione palestinese e la storia del sionismo, gli eventi orribili dell’Olocausto, quello a cui hanno resistito i palestinesi per più di 75 anni, vediamo una ri-traumatizzazione ripetuta in cui le due popolazioni al centro, hanno già tramandato, di generazione in generazione, profondo, intenso trauma.

Mark Wolynn, nel suo libro: “It didn’t start with You: how inherited family trauma shapes who we are and how to end the cycle,” afferma che non siamo nati meramente come un prodotto del DNA che ci assegna capelli e colore degli occhi, tratti fisici o anche tratti di personalità dei nostri genitori. Noi siamo anche un prodotto delle esperienze vissute dei nostri genitori, nonni e bisnonni. Il DNA cromosomale – il DNA responsabile della trasmissione dei tratti fisici compone meno del 2% del nostro DNA totale, l’altro 98% é ciò che è chiamato DNA non codificante ed è responsabile per molti dei tratti emotivi, comportamentali e di personalità che ereditiamo.

Il DNA non codificante è noto che sia influenzato, da fattori stressanti ambientali, come le tossine, da una inadeguata nutrizione così come da emozioni stressanti. Il DNA colpito trasmette l’informazione che aiuta a prepararci per la vita fuori dell’utero assicurandoci i tratti particolari di cui abbiamo bisogno per adattarci al nostro ambiente.

Il settore scientifico che si occupa di tutto ciò, l’epigenetica, studia come i nostri comportamenti e l’ambiente possono causare dei cambiamenti che incidono sul modo in cui i nostri geni lavorano. Diversamente dai cambiamenti genetici, i cambiamenti epigenetici sono reversibili e non cambiano la sequenza del nostro DNA, ma possono cambiare come il nostro corpo legge la sequenza del DNA.

In altre parole, mentre il trauma potrebbe non cambiare la composizione fisica del nostro DNA, esso cambia il modo in cui le cellule interagiscono l’una con l’altra. Esso può pre-programmare noi a prepararci all’ambiente in cui nasceremo. Noi non siamo nati come dischi emozionalmente fissi .

Israeliani e palestinesi sono nati con il trauma delle generazioni che sono venute prima di loro. Entrambi sono nati già con una modalità di sopravvivenza turbata. Chi è venuto prima, chi ha causato cosa, di chi è la colpa, niente di ciò ha cambiato la realtà che entrambi discendono da linee di generazione di trauma intenso e severo, entrambe tramandate e vissute.

Se non iniziamo a riconoscere e affrontare la nostra epigenetica e i traumi vissuti, continueremo a passarli di generazione in generazione, contribuendo a perpetrare questo tipo di violenza a cui assistiamo oggi: la polarizzazione, l’intolleranza, il razzismo, le faziosità.

Io, dall’altra parte del mondo, che ci posso fare?

La paura é molto reale ed é incredibilmente importante realizzare che si ha una scelta di come rispondere, e deve esserci una relazione sana tra la mente, le emozioni ed i pensieri. Il cervello ha un meccanismo molto semplice, evita il dolore. É logico. É molto comprensibile che le persone che avvertono qualcosa che non le faccia sentire a proprio agio, cercheranno di evitarla. Ad esempio smetteranno di ascoltare e parleranno.

Inevitabilmente, quando parliamo, perdiamo la capacità di ascoltare, che ci permette di evitare la sofferenza. Forse é per questo che sentiamo così tante persone solo urlarsi l’una contro l’altra.

L’equivalente interno di ascoltare é sentire, l’equivalente interno di parlare é pensare. I nostri cervelli, corrono, girano e masticano pensieri per evitare il dolore ed il malessere. Potrebbe sembrare controintuitivo, ma sostanzialmente vi é bisogno che ci sia un equilibrio sano tra i pensieri e le sensazioni.

La tendenza umana é quella di credere che tutto ci renda felici. Noi siamo cablati per allontanare ogni cosa, che sia una prospettiva differente, una nuova informazione, che puó scuotere i pilastri della sicurezza delle nostre convinzioni.

Inevitabilmente tramandiamo tanto dei nostri traumi personali e collettivi nella successiva generazione.

Quello che sta accadendo in Israele e Palestina ha radici che sono tragicamente collettivamente umane. Non abbiamo bisogno di essere condotti da questi traumi, ma continuiamo ad incolpare il passato o a darci la colpa l’un l’altro.

Ottobre 19 2018

Il peacekeeping è sull’orlo del baratro?

peacekeeping

Il 70° anniversario delle missioni di peacekeeping non ha, comprensibilmente, destato particolare entusiasmo (e neanche tanto risalto).
Nel lontano 1948 il Consiglio di Sicurezza inviò osservatori militari in Medio Oriente come supervisori della fine della prima guerra arabo-israeliana, dando il via a più di 70 missioni delle Nazioni Unite (NU), diventate un vero e proprio tratto distintivo dell’Organizzazione.
Le operazioni NU sembra che stiano entrando in una nuova, difficile, fase. Nelle due passate decadi, le forze di peacekeeping hanno svolto un lavoro solido, sebbene raramente citato, allo scopo di stabilizzare Paesi di piccole e medie dimensioni come la Sierra Leone o Timor Est. Agli inizi di quest’anno, hanno portato a conclusione un’altra, ampia, missione di successo in Liberia. Con la chiusura di queste operazioni, le NU adesso si trovano a concentrare in maniera maggiore i propri sforzi di peacekeeping su 5 grandi e problematiche operazioni in Africa. In ogni caso, gli elmetti blu restano sparsi in contesti dove si trovano di fronte ad una violenza endemica.
Gli esperti delle NU sono avvezzi alle regolari crisi che scuotono l’organizzazione, pur non sovvertendola. Dal Mali alla Siria, le NU rivelano  serie difficoltà non solo a porre fine ai conflitti, ma a mantenere la pace. Tuttavia, malgrado gli attacchi all’Organizzazione, che indicano una frustrazione diplomatica, il Consiglio di Sicurezza persiste nel portare avanti questi processi. Non ci sembra di poter escludere in maniera definitiva che le NU siano, al momento, sull’orlo di una batosta nel Medio Oriente e ciò potrebbe creare una rottura decisiva a New York.
Dieci anni fa, storie di violenza endemica nella Regione del Darfur del Sudan spesso erano, in Occidente, i titoli di stampa, le notizie con cui si aprivano i telegiornali. Sebbene questo conflitto continui in maniera sporadica, oggi esso è del tutto dimenticato. A luglio, il Consiglio di Sicurezza ha deciso di tagliare il numero delle forze di peacekeeping nella missione UNAMID (missione africana delle Nazioni Unite in Darfur), di circa la metà, con l’idea di chiudere completamente la missione nel 2020. La decisione ha creato un mormorio intorno al Consiglio. Nondimeno, la riduzione di UNAMID potenzialmente segna un punto di svolta per le operazioni di peacekeeping.

Dalla Siria al Burma (Myanmar) le forze armate stanno perseguendo campagne militari inarrestabili e, nella loro ricerca di vittoria, puniscono indiscriminatamente i civili. In entrambi i casi la “pace” che ne risulterebbe sarebbe caotica.

Queste crisi minacciano di turbare alcune delle norme basilari che sono maturate attorno alla risoluzione delle guerre civili nel periodo post-Guerra Fredda. Per restare rilevanti, le operazioni di peacekeeping, si dovranno senz’altro adattare ai nuovi scenari di post-conflitto. Se i “peacemakers” vogliono avere una qualsiasi possibilità di porre fine alle guerre odierne, essi devono imparare a ragionare come degli assassini a sangue freddo.
Le tre passate decadi sono state un periodo di raro successo per il peacemaking internazionale. Nel periodo della Guerra Fredda, gli sforzi diplomatici e di mediazione significavano che la maggior parte dei conflitti si concludeva in accordi negoziati piuttosto che in vittorie decisive di una parte o dell’altra.
Sebbene molti di questi accordi siano stati fragili e non sostenibili, essi hanno contribuito ad un declino complessivo delle guerre e delle morti che hanno causato.

Le principali potenze nel sistema internazionale del post-Guerra Fredda, guidate dagli Stati Uniti, hanno deciso di adottare “un trattamento standard” all’insorgere della violenza, caratterizzato dalla convinzione che un accordo mediato e negoziato, l’uso delle forze di peacekeeping e l’aiuto estero fosse la strada giusta per risolvere i conflitti futuri.

Anche i governi e i gruppi di ribelli che erano desiderosi di utilizzare la violenza di massa per raggiungere i loro obiettivi si sentivano obbligati a lavorare con mediatori esterni e permettere alle agenzie umanitarie di assistere i civili che soffrivano.
Anche gli Stati Uniti, pur essendo intervenuti in Iraq e in Afghanistan, alla fine hanno riconosciuto che non possono utilizzare solamente la forza per pacificare entrambi e hanno investito di più nella ricerca di accordi politici.

L’odierna decade ha visto un’importante inversione quando gli sforzi politici per porre fine alle ondate di conflitti nel mondo arabo hanno iniziato a vacillare.

Dall’altra parte, uomini forti come Assad e i suoi sostenitori internazionali hanno generato un aumento degli sforzi militari, utilizzando le campagne internazionali contro l’IS per giustificare il loro approccio senza regole ignorando sistematicamente le condanne esterne alle loro azioni. I sostenitori di Assad adesso, presumibilmente, pur considerando le accuse di oltraggio alle regole internazionali come inevitabili, sono persuasi che non avranno né alcun effetto e né alcun costo sulle loro operazioni.
Per fare un esempio tra i tanti: lo scorso anno l’offensiva in Myanmar lanciata contro i Rohingya conteneva in maniera inequivocabile la convinzione che ci sarebbe stato un criticismo esterno, ma che esso non avrebbe avuto alcun effetto sulla tempistica delle operazioni.

Resta chiaro che i leader politici e militari nelle zone di guerra si curano sempre meno delle condanne per il loro comportamento, considerandole come un piccolo prezzo da pagare per ottenere delle decisive vittorie.

Oggi, le guerre civili durano più a lungo ed è sempre più probabile che si concludano con la vittoria di una parte piuttosto che con un accordo negoziato.
Pur tuttavia gli accordi negoziati non si sono ancora estinti definitivamente. Recenti storie di successo come il processo di pace colombiano mostrano che c’è ancora uno spazio politico per i peacemakers per creare accordi complessi.

In molti casi i mediatori dovrebbero accettare un ruolo meno ambizioso ma ugualmente urgente, vale a dire quello di ridurre i rischi in cui incorrono le comunità e i ribelli nel processo di disarmo o di dislocamento.

Luglio 3 2018

Giovani smarriti: il prodotto dei conflitti protratti

giovani

Ad oggi l’unico tema che sembra essere rilevante è il flusso migratorio dal Nord Africa e dal Medio Oriente verso l’Europa.

Chiariamo subito un punto: nell’ambiente di sicurezza contemporaneo, un accordo di pace ovvero la rimozione di un dittatore non rappresenta più la fine di un conflitto, ma solo il suo spostamento verso una forma differente.

La violenza protratta, particolarmente nelle dittature, sfregia profondamente una società: collassano i sistemi esistenti di autorità e ordine. Reti grigie ed economie occulte si fondono mano a mano che il disordine politico e il crimine emergono. Gli equilibri psicologici ed etici si indeboliscono e cedono. Regna l’anomia.

Per i combattenti e le loro vittime, lo spargimento di sangue diventa normale. Molte persone acquisiscono le abilità necessarie per uccidere, imparando come ottenere ed utilizzare armi, esplosivi.

La violenza diventa radicata: i bambini conoscono talmente tante persone violente che semplicemente assumono che anche loro lo diventeranno.

In un conflitto protratto, questa tragica situazione diventa auto-perpetuante, creando una generazione che non è istruita o che lo è molto poco, profondamente diffidente dell’autorità e abituata a reti ed economie grigie.

Per questa gioventù, la violenza non è un’aberrazione che interrompe la pace, ma la prassi, la consuetudine.

La storia recente è piena di esempi della nocività di generazioni smarrite.

Il Kosovo deve ancora ottenere la stabilità politica e, dopo molti anni dalla fine della guerra, è pieno di gruppi criminali.

Nel mondo interconnesso di oggi questi mali si diffondano anche molto lontano dalla loro fonte.

I gruppi criminali albanesi sono cresciuti  nelle guerre dei Balcani degli anni ’90 e adesso giocano un ruolo centrale, e violento, nel traffico internazionale di armi, di droghe e prostituzione.

Nel Sud Africa, decadi di conflitti tra i cittadini di colore e il regime della minoranza bianca hanno distrutto il rispetto della legge in grandi parti della società e prodotto centinaia di migliaia di uomini e donne senza istruzione.

Il rallentamento dello sviluppo economico e l’instabilità politica del Sud Africa, che hanno portato all’esodo di professionisti in cerca di uno stile di vita più sicuro, è il costo di un conflitto che sembrava concluso e che il Sud Africa continua a pagare.

In questo momento, ora, siamo di fronte a giovani smarriti; prodotti dai conflitti in Libia e Siria.

In Libia, la caduta di una dittatura patologica non ha dato vita alla riconciliazione e alla ripresa, ma ad una violenza intestina paralizzante. Il governo di unità nazionale fortemente voluto dall’esterno, da Europa e Stati Uniti, non ha il pieno controllo del territorio e delle regole di legge, anzi milizie e gruppi violenti continuano a riempire il vuoto di effettività.

Se possibile la Siria è in una situazione peggiore: più di 4 milioni di cittadini siriani sono rifugiati: “la più grande popolazione di rifugiati di un singolo conflitto in una generazione”, l’ha definita l’UNHCR.

Sia la Libia che la Siria hanno raggiunto un punto dove anche un accordo politico miracoloso non potrà guarire l’acredine.

La frattura dell’autorità, la normalizzazione della violenza, la creazione di reti grigie e l’inabilità di molti giovani siriani e libici di operare in un’economia stabile e moderna, lasceranno questi giovani smarriti con poche opzioni rispetto al crimine o al diventare essi stessi Signori della guerra. Saranno vulnerabili agli estremisti che gli offriranno falsi rimedi alla loro rabbia e disillusione. Come risultato, saranno una sfida di lungo termine non solo per le loro nazioni o le loro Regioni, ma per il mondo interconnesso.

Il prezzo dei conflitti libico e siriano sarà pagato per decadi.

Tragicamente, niente può  prevenire completamente ciò, il danno è già fatto. Al meglio, l’Europa e altre nazioni possono sanare alcune porzioni delle generazioni smarrite della Libia e della Siria.

Individuare una via per porre fine ai conflitti che stanno distruggendo le loro terre dovrebbe essere la priorità numero uno della comunità internazionale. Investire in programmi di state-building in Libia, allontanare queste generazioni smarrite dalla violenza attraverso assistenza economica mirata, programmi efficaci, istruzione e aiuto psicologico. Questo dovrebbe essere quello che i leader politici ritengono che sia non solo eticamente giusto, ma l’unico investimento necessario in sicurezza.

 

Febbraio 14 2016

Guerra ibrida: cos’è e perché ci interessa

Cos’ è la guerra ibrida. Quali componenti la caratterizzano come fattore che complica, non come sostituto della guerra convenzionale o della “guerra vecchio stile”.

Il mondo è pieno di conflitti, si chiamano così, poco importa di che natura siano. Troppo spesso si sorvola sulla natura della guerra, su quali tattiche vengono impiegate da attori diversi. Allora per oggi torniamo tra i banchi di scuola e vi propongo delle pagine di appunti del mio quaderno, dove cercherò di spiegare gli elementi essenziali di questo termine, che non è un concetto scientifico nuovo, ma semplicemente un fattore in più che complica le pianificazioni di difesa. Il segretario generale della NATO  Jens Stoltenberg ha dichiarato: “non c’è niente di  nuovo sulla guerra ibrida“. Viene da chiedersi se sa cosa è questo fattore “ibrido” o se lo usa anche lui come un asso piglia tutto quando non si riesce a prevedere la mossa del nemico.

Prima di arrivare al “fattore ibrido”, vale la pena soffermarsi su concetti scientifici che hanno caratterizzato all’incirca gli ultimi 25 anni.

Compound war

Quando, in un conflitto si verifica un significativo grado di coordinazione strategica tra forze separate, regolari o irregolari si può parlare di “compound war“. Un grafico ci aiuta a visualizzare meglio cosa vuol dire.

guerra ibrida

Un caso classico della “compound war” è il Vietnam: contrapposizione di tattiche irregolari dei Viet Cong con le capacità più convenzionali dell’esercito del Nord Vietnam.

Unrestricted warfare

Due colonnelli cinesi: Qiao e Wang,  sono noti per il loro concetto di: “unrestricted warfare” o “guerra al di là dei limiti“. Molto avanti per il loro tempo, riconobbero le potenziali implicazioni della globalizzazione. Pensarono quindi di espandere la definizione e la comprensione della guerra al di là del settore militare tradizionale. Scrivevano: “i futuri grandi capitani devono essere padroni nell’abilità di “combinare” tutte le risorse di guerra a loro disposizione e usarle come mezzi per proseguire la guerra. Queste risorse devono includere: guerra d’informazione, guerra finanziaria, guerra di commercio e altre forme di guerra interamente nuove“. Questo ha generato una lista di nuovi principi che riassumo in questa pagina di appunti:

guerra ibrida

Guerra ibrida

Il termine “ibrido” invece cattura sia l’organizzazione che i mezzi e in un altra pagina di appunti, vediamone i punti essenziali:guerra ibridaQuindi le guerre ibride incorporano una varia gamma di modelli di guerra, incluso le capacità convenzionali, tattiche e formazioni irregolari, atti terroristici incluso la violenza indiscriminata, la coercizione ed il disordine criminale. Nella prossima pagina di appunti si evidenza una componente fondamentale quella distruttiva:

guerra ibrida

E’ importante sottolineare che la crescita della guerra ibrida non rappresenta la sconfitta o la sostituzione della “guerra vecchio stile”o la guerra convenzionale. Rappresenta invece un fattore che complica i piani di difesa.

La combinazione della guerra nei vari settori non è nuova. Il concetto di “ibrido” è ben conosciuto ed utilizzato nei discorsi militari occidentali moderni. Il problema è che spesso è citato sotto il concetto di “guerra non convenzionale” o “guerra politica”. Nel corso del tempo guerra ibrida è diventato l’asso piglia tutto per gli elementi di potenza nazionale che la Russia sta utilizzando direttamente in Ucraina. La Russia nella “Dottrina militare di guerra moderna“, nel 2010, descrive “l’uso integrato di forze militari e forze e risorse che non hanno un carattere militare“. Ed ancora: “l’implementazione come priorità di misure di guerra d’informazione per raggiungere obiettivi politici senza l’utilizzo della forza militare“. In un commento del 2014 alla Dottrina, si sostiene la partecipazione di forze armate irregolari, elementi di compagnie militari private in operazioni militari. Mosca ha da tanto tempo riconosciuto la prevalenza di una proiezione di forza combinata in conflitti sia alle sue periferie che globalmente.

Il termine utilizzato solo per descrivere l’intervento russo in Ucraina ci sembra un utilizzo povero. Sembra come se ci fosse una reazione esagerata da parte dell’occidente per l’attenzione inadeguata che precedentemente si era concessa alla Russia. Il risultato è un tentativo sbagliato di raggruppare tutto quello che Mosca fa in una sola rubrica. L’intervento russo in Ucraina dovrebbe essere guardato in un termini più flessibili e basici: un tentativo di impiegare strumenti diplomatici, economici, militari e d’informazione in uno stato vicino dove essa percepisce che i suoi interessi vitali sono in pericolo. Concludendo, perché ci interessa comprendere in cosa si articola la guerra ibrida, non solo perché è un fattore che se non tenuto in significativa considerazione nelle pianificazioni di difesa, soprattutto quando il nemico è un’organizzazione transnazionale di natura terroristica, si rischia di lasciare molte più mosse in mano al nemico di quelle che ci si potrebbe immaginare.

Dicembre 31 2015

I quesiti lasciati in sospeso dal 2015

2015

Il 2015 ci lascia con questioni in sospeso: i giochi delle potenze a spese delle popolazioni già dilaniate da guerre civili. Africa, Medio Oriente, Europa, auguriamoci che il 2016 porti qualche risposta efficace.

I quesiti che il 2015 lascia aperti, sono purtroppo tanti. Alcuni più pressanti.

La Russia trionferà o sarà un epic fail in Siria?

Quest’anno il presidente Putin ha deciso di intervenire in Siria e questo avrà necessariamente un effetto di lungo termine sulla risposta che le grandi potenze daranno nelle prossime crisi. Se Mosca riuscirà ad aggiudicarsi un accordo di pace congeniale ai suoi interessi, i falchi dalla Cina e dagli Stati Uniti diranno che la forza militare è ancora un efficace mezzo nell’arte di governare mettendo una grande ombra sulle lezioni che si dovrebbero apprendere dal fallimento degli Stati Uniti in Iraq.
A Washington gli analisti invece prevedono che la Russia finirà per restare intrappolata in un pantano creato da essa stessa. Se questo sarà il caso allora le maggiori potenze diventeranno riluttanti nell’intervenire nelle nuove guerre.

Le coalizioni arabe sunnite riusciranno ad assumere il ruolo di “stabilizzatori” del Medio Oriente e del Nord Africa, minando ogni intervento esterno?

Uno degli interventi militari più significativi di quest’anno è stato l’incursione guidata dall’Arabia Saudita per cacciare i ribelli Houthi dallo Yemen. Riyadh è riuscita a mettere insieme una coalizione di alleati arabi sunniti, supportati da mercenari ben pagati. Questo intervento non è proprio andato liscio come l’olio, ha finito per rafforzare il potere dell’affiliato locale di Al Qaeda e gli arabi potrebbero rivolgersi alle Nazioni Unite per mandare i peacekeepers nel 2016. Tuttavia se i sauditi e i loro alleati concludono che malgrado i costi l’operazione in Yemen sia valsa la pena, potrebbero lanciare queste “missioni di stabilizzazione” nel Medio Oriente, Nord Africa negli anni a venire, minando i tentativi di incursione esterni nella regione.

L’Unione Europea sarà finalmente pronta per la gestione delle crisi?

L’Unione Europea si è sforzata di diventare una forza militare convincente per due decadi. Un po’ meglio è andata nel 2015, con le opzioni navali per gestire il traffico di migranti nel Mediterraneo. Tuttavia la crisi dei rifugiati, gli attacchi di Parigi, il disordine in Nord Africa gradualmente hanno spaccato l’Unione in cui ogni stato membro ha fatto i propri giochi di potere. Potremmo augurarci che il 2016 sia finalmente l’anno della serietà dell’Unione Europea nelle questioni di sicurezza.

Le potenze africane riusciranno a controllare il loro continente?

L’Unione Africana sta lavorando su piani di intervento per fermare la discesa verso il caos del Burundi. Se avesse successo potrebbe essere un buon passo verso la costruzione di qualcosa di meglio che le improponibili ed inefficaci missioni di stabilizzazione in Somalia ed il dispiegamento confuso nella Repubblica Centrafricana.

Il presidente della Repubblica Democratica del Congo, Kabila, riuscirà ad umiliare le Nazioni Unite?

Kabila sta cercando con grande determinazione e tenacia di aggirare la costituzione per vincere il terzo mandato al comando del più grande paese dell’Africa sub – sahariana, che ha ospitato i peacekeeper per 15 anni. Questo potrebbe rivelarsi un’enorme crisi di reputazione per le Nazioni Unite per aver “costruito” stati funzionanti che alla fine si rivelano dei grandi danni essi stessi. Tuttavia se Kabila decidesse di farsi da parte, sarebbe un segnale di successo per i caschi blu dopo le recenti battute d’arresto in Sud Sudan e Mali.

Riusciranno le grandi potenze ad eleggere come segretario generale delle Nazioni Unite, un vero manager delle crisi?

Nel 2017 ci sarà l’elezione del nuovo segretario generale ONU, in questo anno riusciranno a trovare uno diverso da Ban Ki – moon che ha sempre preferito stare nelle conferenze diplomatiche?

Ci auguriamo che il 2016 porti risposte concrete efficaci. BUON ANNO!