I limiti delle risposte al fenomeno dei foreign fighter
Prendendo spunto dall’annuale Forum sulla sicurezza tenutosi a Marrakesh, ragioniamo sul ruolo dell’intelligence rispetto al fenomeno dei foreign fighter.
Le discussioni su come prevenire il terrorismo internazionale danno luogo ad evidenti tensioni tra i governi, alla confusione sugli sforzi da compiere, esacerbata dalle politiche immigratorie discriminatorie del Presidente Trump. Inoltre, frequenti sono le liti in Europa tra paesi vicini, ma anche in Africa e nel Medio Oriente a proposito del controllo delle frontiere. Sebbene la volontà di cooperare sia forte, il disaccordo tra gli Stati verte attorno ai ruoli delle autorità giudiziarie, alle capacità che si scontrano con la natura mutevole del nemico.
Ci piaccia o no, il terrorismo internazionale è l’argomento che guida gli Stati allorquando si discute di minacce comuni alla sicurezza. Il terrorismo internazionale è il focus delle menti dei leader quando incontrano le proprie controparti, se non altro perché è il fenomeno che può distruggere più velocemente la pace e la sicurezza nazionale ed internazionale.
Mentre la guerra in Siria ed in Iraq contro lo “Stato islamico” si sta combattendo con la forza militare convenzionale, gli sforzi di contro-terrorismo, nella maggior parte dei paesi, sono guidati dall’intelligence e dall’applicazione della legge.
Perché gli Stati falliscono nella risposta alla mobilitazione dei foreign fighter? Perché essa è così difficile da contenere?
Ci sono due principali fattori che intervengono:
- la sfida della cooperazione tra le agenzie di intelligence nazionali a causa del conflitto di interessi tra Stati;
- la tensione, a livello nazionale, tra la raccolta di informazioni e il perseguimento dei crimini che si riscontrano durante le attività investigative sulle reti di foreign fighter.
Quello dei foreign fighter è un fenomeno mutevole dal punto di vista della natura e della dimensione. La dimensione di questo fenomeno, inoltre è modellata attorno da molteplici fattori: se il conflitto calza con l’ideologia jihadista o meno, la presenza di gruppi nella zona di conflitto che siano disposti e capaci di ospitare foreign fighter, connessioni transnazionali pre-esistenti oppure l’abilità di sviluppare tali connessioni e se il conflitto sia accessibile o meno.
Un rapporto del Centro sul contro-terrorismo delle Nazioni Unite diffuso a metà 2016 fornisce dati sugli Stati che sono i maggiori esportatori di foreign fighter: Tunisia, Arabia Saudita e Russia: i maggiori Stati da cui partono su base pro capite: Tunisia, Maldive, Giordania; e i più grandi Stati non a maggioranza musulmana, da cui partono: Finlandia, Irlanda e Belgio. Con un collegamento occasionale all’Asia e all’America Latina.
I timori dei governi sull’impiego dei foreign fighter sono stati irregolari nel corso del tempo, e la maggior parte dei governi cerca di affrontare i problemi relativi alla sicurezza interna che derivano dai foreign fighter piuttosto che prevenire il loro spostamento.
L’intelligence come panacea al fenomeno dei foreign fighter?
Le attività di risposta al fenomeno dei foreign fighter riguardano un’ampia gamma di attività governative che vanno dalla contro-propaganda alle misure giuridiche, attività di intelligence e in taluni casi l’uso della forza militare.
L’intelligence sembra essere per molti l’unico strumento in grado di rispondere a questo tipo di fenomeno. Se da un lato potrebbe essere uno degli strumenti efficaci in questo ambito, dall’altra parte sono diversi i fattori che lo rendono invece inefficace nel breve termine. Si parla spesso di cooperazione tra le agenzie di intelligence dei diversi Stati. La cooperazione, tuttavia, è basata su interessi personali, sull’utilità, sulla minaccia percepita e laddove vi è una convergenza è soltanto temporanea in ragione della natura fluida del sistema internazionale e del mutamento della minaccia e delle priorità.
Un foreign fighter tipicamente si muove dal suo paese di origine, viaggia attraverso uno o più luoghi di transito prima di arrivare nel paese di destinazione. Spesso vengono aiutati da cosiddetti facilitatori e frequentemente questi individui utilizzano gli Stati di transito per operare. In virtù della loro presenza, gli Stati di transito sono spesso identificati come coloro che giocano un ruolo chiave nel limitarne l’accesso alle aree di conflitto.
La riluttanza da parte degli Stati di transito di fornire una cooperazione duratura di lungo termine potrebbe essere superata se lo Stato di destinazione avesse la capacità di localizzare e degradare i traffici indiretti lungo le frontiere che servono allo spostamento dei foreign fighter.
I limiti alla cooperazione tra agenzie di intelligence:
- la differenza nella distribuzione del potere tra le agenzie che cooperano;
- i diritti umani;
- questioni legali;
- l’utilizzo dell’intelligence per obiettivi non intenzionali;
- raggiungimento di accordi su come opporsi alle strutture dei gruppi terroristici. Non tutte le agenzie d’intelligence hanno la stessa tolleranza per i rischi da correre. Ci potrebbe essere un disaccordo su quando si devono compiere gli arresti, sulle attività cinetiche da utilizzare o se un individuo debba essere catturato o farlo restare in gioco per raccogliere ulteriori informazioni.
Cosa viene condiviso
Lo scambio di informazioni di intelligence è una forma di baratto, che può manifestarsi in molti modi.
La semplice cooperazione coinvolge due agenzie di intelligence che si scambiano materiale su un obiettivo accordato.
Collegamento complesso: l’informazione d’intelligence è scambiata allo scopo di acquisire altri tipi di benefici, politici, economici o militari.
Questo tipo di relazioni possono essere simmetriche, dove le parti percepiscono lo scambio come un beneficio equo, oppure asimmetriche, cioè quando una parte trae un beneficio maggiore dallo scambio rispetto all’altra.
Relazioni avverse dove due agenzie d’intelligence cooperano malgrado i loro interessi non convergano.
Preferenza per la cooperazione bilaterale
La cooperazione tra agenzie di intelligence è complicata anche dalla preferenza per quella bilaterale rispetto alla multilaterale.
In una relazione di scambio bilaterale, gli Stati sono in grado di controllare meglio e di gestire i rischi correlati allo scambio di informazioni di intelligence, la perdita delle fonti, oppure la penetrazione nel proprio sistema da parte di un’altra agenzia di intelligence. Questo tipo di preferenza, tuttavia, risulta problematica durante il movimento dei foreign fighter quando ad essere coinvolti possono essere due Stati o centinaia.
In strutture come Europol ed Interpol, l’abilità di realizzare iniziative di risposta al movimento dei foreign fighter si sono rivelate molto più complicate. Ciò è evidenziato dalla quantità di tempo che ha impiegato l’Europol per acquisire i dati di moltissimi foreign fighter da un contingente europeo stimato di circa 5000 unità. A seguito degli attacchi in Francia e in Belgio alla fine del 2015 e agli inizi del 2016 questo numero è cresciuto a 5,353 sebbene solo circa 3000 sono stati riportati da Stati appartenenti ad Europol.
Sono 9000 i foreign fighter registrati nei sistemi dell’ Interpol malgrado le stime verso l’alto di 15000 foreign fighter che restano ancora nelle zone di conflitto.
La relazione complicata con la Turchia
Fin dall’inizio dell’impiego dei foreign fighter, tra il 2011 ed il 2012, la relazione con la Turchia si è rivelata complicata. Ci sono dei fattori che hanno contribuito a renderla tale, il primo: la protezione dei dati. Alcuni Stati dell’UE nutrono dei seri timori nel fornire alla Turchia informazioni di intelligence vista l’assenza di una legislazione nazionale che protegga i dati.
Il secondo fattore: le differenze nelle pene relative ai crimini correlati al terrorismo internazionale e nazionale.
Inoltre, un fattore che ha contribuito alla tortuosa relazione con la Turchia è rappresentato dalla sostituzione di funzionari dell’intelligence turca e della polizia a causa dei timori di Erdogan sull’infiltrazione di gulenisti. Questa “epurazione” ha avuto come risultato che alcuni Stati non possono più avvalersi di individui di cui si fidavano e che erano in grado di lavorare su questioni relative al contro-terrorismo.
Un altro elemento che rende i rapporti con la Turchia tutt’altro che fluidi è la faziosità all’interno delle agenzie di intelligence turche ed il sospetto che potrebbero aver avuto interazioni con i vari gruppi in Siria.
Contrasto, a livello nazionale, tra le risposte al terrorismo internazionale e le risposte al fenomeno dei foreign fighter.
Gli strumenti utilizzati per rispondere al terrorismo internazionale e le pratiche di raccolta e di impegno delle agenzie statali potrebbero produrre dei risultati in contrasto con quelli desiderati. La pratica del contro-terrorismo e la burocrazia degli Stati potrebbero, nel breve periodo, consentire la mobilità dei foreign fighter. Gli sforzi per rispondere a quest’ultimo tipo di fenomeno allo scopo di mitigare il rischio di violenza sul territorio dello Stato potrebbero creare spazio di movimento per i ” terroristi volontari ” .
Proprio per questo è importante creare delle risposte per ciascun tipo di fenomeno, comprensive e che non si affidino solo ai servizi di intelligence e alle autorità giudiziare.
*immagine: fonte – Worldbullettin –