Una strategia efficace contro l’ISIS: come riconoscerla in 5 punti.
In Italia sentiamo dichiarazioni come queste: “no intervento senza strategia“, oppure: “la cultura è la risposta al terrorismo“. Nel nostro paese, nessuno si sbilancia a mettere nero su bianco una strategia efficace e con un chiaro obiettivo finale, per combattere l’ ISIS. Il ministro della difesa ci ripete come una poesia imparata a memoria: “l’Italia addestra i peshmerga e usa i droni“. Vorrei aprire una brevissima ed essenziale parentesi sul recente annuncio di Renzi: “450 militari italiani a difesa della diga di Mosul“. I 450 militari italiani aiuteranno un’impresa italiana, che si è aggiudicata l’appalto per la diga di Mosul, a proteggere l’infrastruttura. Mi pongo una domanda: “se l’appalto per la diga l’avesse vinto un’impresa polacca, Renzi avrebbe mandato i nostri soldati a Mosul?”.
Il Presidente Obama dal canto suo e in maniera meno teatrale, burlesca del nostro premier, insiste che la sua amministrazione ha una strategia effettiva basata su 4 componenti: attacchi aerei contro gli obiettivi dello stato islamico, supporto alle forze di sicurezza irachene e alle milizie irachene che combattono l’ISIS; miglioramento delle operazioni di contro – terrorismo e aiuti umanitari ai civili che sono scappati dal conflitto nell’est della Siria e nell’ovest dell’Iraq.
La verità è che questa potrebbe essere il contorno di una strategia, ma non una vera e propria strategia che includa tutti gli aspetti del problema, compresi i dettagli.
Allo stesso tempo, nessuno ha suggerito una strategia comprensiva alternativa; si fa affidamento sempre di più alle banalità e ad aforismi. Spesso i dibattiti più accesi raccomandano una più feroce aggressione senza spiegarne la finalità, i mezzi e il significato.
Il fallimento di sviluppare una strategia comprensiva contro l’ISIS è debilitante.
I 5 punti per riconoscere una strategia efficace
Prima di tutto, è necessario porsi questa domanda: “qual è l’obiettivo finale accettabile e fattibile?”. Sì, giacché un obiettivo finale, l’endstate, deve essere sia accettabile che fattibile e i dettagli sono importanti. Il diavolo si nasconde nei dettagli! Non è abbastanza dire: l’obiettivo è di “sconfiggere” o “eradicare” lo stato islamico, una strategia coerente deve spiegarci cosa vuol dire: l’organizzazione non avrà più il controllo effettivo di qualsiasi porzione di territorio, cioè non sarà più un “califfato”? Resterà in vita nella forma di una rete terroristica sotterranea come ha operato tra il 2008 e il 2014? Oppure non ne rimarrà traccia in nessuna forma?
La fattibilità di un obiettivo finale strategico deve riflettere una seconda questione chiave: quali sono i costi strategici? Questi costi includono il denaro, le truppe, la perdita di focus da qualche altra parte. Incorrere in questo tipo di costi è accettabile? È di vitale importanza ricordare che ogni assetto strategico, che sia militare o di intelligence, devoluto al combattimento dello stato islamico non è utilizzato per altre situazioni che restano pressanti e importanti. Una strategia inclusiva, poi, deve spiegare se il conflitto con lo stato islamico giustifica lo spostamento di risorse dall’Asia, dall’Europa o da qualche altra parte e accettare che ci sia minor deterrenza in questi posti. Il conflitto con il gruppo legittima il crescente sforzo sulla componente militare (soprattutto in relazione agli Stati Uniti) con ulteriori impegni sul campo, posponendo l’addestramento e l’ammodernamento della forza?
Il terzo punto è: chi pagherà il conto? Le guerre non sono gratis. Non si può pensare che dispiegare delle forze sul campo, piuttosto che l’uso della componente marittima o dell’aviazione sia gratis, che ci sia un grande pozzo di denaro da dove si attingono queste risorse. Ritenere ingenuamente che gli aerei volino senza carburante che non si usurino, che le navi vadano a vapore. Tutti, in ogni paese del mondo evitano accuratamente di affrontare questa complessa faccenda. Una strategia coerente deve essere chiara sui finanziamenti: le tasse verranno innalzate? Questa guerra è importante a tal punto da aggiungerla al debito nazionale? Se la strategia è basata sull’ assunto che altre nazioni affronteranno porzioni dei costi, quali sono? Chi mette cosa? Dov’è il prospetto di ripartizione finanziaria dei costi?
La quarta questione è l’arco temporale della strategia. Se qualcuno ci dice teneramente: “eh ci vorrà molto tempo”, come il Presidente degli Stati Uniti, o peggio si ometta proprio di fornire un cronogramma, beh non stiamo parlando di strategia inclusiva. Una strategia coerente divide le azioni a breve, medio e lungo termine: dove sono queste ripartizioni?
Ultimo punto: i limiti. Quali sono i limiti spaziali? Combatteranno lo stato islamico solo in Iraq e in Siria o anche in Libia, in Afghanistan in Yemen in Somalia in Nigeria ovvero ovunque?
L’esempio fallimentare della Francia
Diamo un’ occhiata ad una strategia fallimentare: la Francia nel Sahel. La punta di diamante della politica di sicurezza francese in Africa è l’Operazione Barkhane, una missione di combattimento di anti – terrorismo. Si configura come l’attuale operazione militare francese più ampia, con circa 3,500 soldati stazionati in 5 paesi: Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania, Niger. L’operazione Barkhane ci dice chiaramente che Hollande ha posizionato la stabilità regionale in cima alle priorità di politica estera, disposto a mettere soldati francesi sul terreno e supportarli. In totale circa 8,000 soldati francesi sono stati impiegati in Africa.
Contrasto assoluto con la politica di Sarkozy che nel 2008 dichiarò che la Francia non deve giocare il ruolo di poliziotto in Africa e per questo motivo ridusse la presenza militare francese nel continente è s’impegnò a ridurre l’ intenso coinvolgimento nella politica di quei paesi.
Il collasso del governo del Mali nel 2012 precipita gli avvenimenti. Prima della guerra civile e dell’avvento dei gruppi estremisti islamici in Mali, gli interessi francesi nel continente giravano attorno ad affari economici, influenza politica e sicurezza energetica. Il Niger è la principale fonte di uranio per gli impianti nucleari della Francia. Ma con il collasso del Mali subito dopo la Libia, la Francia ha paura di un’implosione dell’intero continente che può quindi minare i suoi interessi diretti. Operation Serval che dispiegò 4,000 soldati francesi in Mali nel gennaio 2013 per cacciare i militanti islamici che avevano preso il controllo del nord del paese, inizialmente fu un successo, liberando tutto il territorio in mano ai gruppi estremisti. Tuttavia quando Serval si aggiunge al più ampio dispiegamento caratterizzato da Barkhane, getta le fondamenta per un’altissima presenza militare francese in tutta la regione. Il grande problema è che la Francia non ha una strategia di uscita nel Sahel. Il focus sul contro terrorismo ha messo le truppe francesi in prima linea nella battaglia sia contro gli estremisti sia contro le reti di traffici di armi e droga nella regione (per contro i militari statunitensi per la maggior parte si limitano all’ addestramento e all’ equipaggiamento delle forze locali, così come a fornire intelligence delle comunicazioni). Con l’esercito del Mali ancora nel caos e le forze governative in Niger ed in Ciad occupate dalla minaccia di Boko Haram ora affiliato e provincia dello stato islamico, sulle loro frontiere sud, i militari francesi hanno effettivamente preso il controllo delle remote frontiere del Sahel che legano la regione alle zone di guerra in Libia.
Tuttavia l’area di operazioni dei gruppi estremisti è aumentata nei recenti mesi con attacchi di alto profilo nella capitale del Mali, Bamako. Attacchi che hanno raggiunto la frontiera con la Costa d’Avorio nel sud.
Se, uccidere i sospettati di terrorismo potrebbe essere un veloce miglioramento che soddisfa gli strateghi militari e i portavoce di governo, l’approccio potrebbe rivelarsi fatale nel lungo termine.
L’ex diplomatico francese Laurent Bigor, scrivendo su Le monde, chiama l’operazione Barkhane una “licenza per uccidere nel Sahel” che minaccia di alienare la popolazione locale. I crimini come il traffico, che sono inestricabilmente connessi al terrorismo nel Sahel, sono anche semplicemente un’alternativa alle difficili condizioni socio – economiche. Le questioni di governance e corruzione non sono affrontate, perché la priorità è la risposta militare e di sicurezza.
“Prioritizzare” la sicurezza rispetto alle riforme presenta un enorme rischio, non da ultimo per i costi di questa nuova politica estera “muscolosa”. In risposta agli attacchi di Parigi, l’ operazione Sentinelle, il dispiegamento dei soldati francesi in Francia per la sicurezza nazionale è stato aumentato a 10,000 mentre l’aviazione militare francese ha espanso le sue operazioni in Iraq e in Siria. Fatti concreti che richiedono la sostenibilità dei costi.
Se questo modus operandi decadesse, sia perché la Francia non può più permetterselo oppure perché un’altra amministrazione ha altri interessi, il Sahel diventerà quello che la Francia voleva inizialmente prevenire: un assortimento di stati fragili dove gruppi estremisti e reti criminali possono cooperare liberamente, non molto lontano dall’ Europa.
Questo è appunto l’esempio di come quei 5 punti non sono stati per nulla tenuti in considerazione e come l’effetto di azioni non coerenti tra loro, parte di una strategia più ampia senza un chiaro obiettivo finale, possano causare dei danni molto più gravi e duraturi del problema iniziale.