Dicembre 4 2024

Hamas é distrutto?

Hamas distrutto

Il futuro di Hamas, non è determinato in maniera totale, dalla capacità militare e politica, ma anche dalle posizioni degli Stati Uniti e degli attori regionali, che fondamentalmente giocano il ruolo più importante nel plasmare il futuro del movimento.

Dal pieno controllo della striscia di Gaza nel 2007, Hamas si è impegnato a consolidare il suo governo in termini di sicurezza e di governance, mentre contrasta gli sforzi israeliani tesi a indebolire e contenere il movimento. Tali sforzi israeliani includono il blocco aereo, marittimo e di terra quasi totale su Gaza, con l’eccezione di piccole forniture umanitarie controllate e le successive guerre nel 2008, 2009, 2012, 2014, 2018 e 2021 che hanno mantenuto le capacità militari di Hamas nei limiti. Politiche costruite per esacerbare le difficoltà della popolazione a Gaza allo scopo di provocare una ribellione contro Hamas.

Sebbene tali strategie abbiano raggiunto un successo parziale, esse hanno fondamentalmente fallito nell’eliminare Hamas a Gaza. Non solo il gruppo è rimasto al potere, ma ha rafforzato le sue capacità militari, migliorato la sua burocrazia di governo, rafforzato la sua presenza politica all’interno della scena politica palestinese e ha accresciuto le sue alleanze regionali.

Dopo oltre un anno di conflitto, Hamas è stato indebolito nelle aree di comando e controllo militare, nella governance e nella leadership politica non solo perché ha perso Sinwar, ma anche Ismail Haniyeh il leader politico del gruppo al di fuori di Gaza assassinato dagli israeliani a Teheran.

Tuttavia, il movimento funziona ancora come una organizzazione unificata all’interno e all’esterno di Gaza, con una presenza a West Bank così come resta intatta la sua leadership politica al di fuori della Palestina.

Tutto ciò è più che significativo, dati i bombardamenti israeliani su Gaza, sostenuti da un massiccio e mai concluso rifornimento di armi e di sostegno intelligence degli Stati Uniti, che non è mai stato cosi intenso nella storia del conflitto.

Un altro aspetto importante per Hamas è il suo sostegno pubblico all’interno di Gaza, di West Bank e all’estero. Il gruppo è stato sempre vigilante a riguardo e in tutto il suo governo a Gaza ha sempre monitorato il sentimento pubblico per questa ragione.

Due dinamiche principali hanno guidato le fluttuazioni nei livelli di sostegno per Hamas:

  1. la sua posizione come movimento di resistenza contro Israele;
  2. il suo rendimento come partito al governo.

Alle volte, queste dinamiche hanno lavorato a scopi trasversali, con la resistenza che spingeva il sostegno popolare e la funzione di governo che lo minava.

Ricordo (brevemente) l’ideologia del movimento Hamas. Perchè la differenza è tutta qui. Il terrorismo è una tecnica, una tattica, un metodo di violenza politica utilizzato da gruppi estremisti violenti, di qualsiasi ideologia (estrema destra, estrema sinistra, ambientalisti, religiosi, single issue). Per contrastare tali tipologie di gruppo, si può e si deve agire sulla tecnica, vale a dire il terrorismo. Tuttavia, come abbiamo visto per altri gruppi di questo tipo, il contro-terrorismo non porta allo scioglimento del gruppo, alla fine, anzi casomai è vero il contrario anche quando gruppi si scogliono e si riformano sotto altri nomi. (Ne parlerò in un altro post). Dunque, se quello che si vuole raggiungere è l’obiettivo di sciogliere questi gruppi in modo definitivo, ciò che bisogna contrastare è l’ideologia. Essere persuasi che i gruppi estremisti violenti religiosi, come Hamas, ad esempio, non abbiano ideologia e che siano solo “terroristi” (un giorno scriverò di quando sia improprio questo termine), li lascia fiorire, splendere agli occhi di chi si identifica con quella ideologia che conosce, quindi più reclute e possibilmente più alleati e risorse.

L’ideologia di Hamas non è così significativamente diversa dagli altri gruppi islamici della regione, ad eccezione di quanto esso leghi stretto le traversie del territorio palestinese con la capacità dell’uomo di vivere in maniera retta e giusta davanti a Dio. Anche se il sistema di credo di Hamas è centrato sull’importanza della relazione tra uno Stato palestinese e la rettitudine morale, la loro ideologia non è interamente uniforme. Il territorio di cui ha bisogno non è per Hamas uno scopo strategico o politico, ma serve al compimento di un obbligo religioso, come disposto da Dio. L’intero fondamento ideologico della resistenza di Hamas è incastonato nella loro interpretazione del ruolo dello Stato. Lo Stato costruito per permettere all’Islam di fiorire, quando lo Stato è incapace di realizzare ciò, l’Islam è minacciato.

Attenzione! questa è una estrema sintesi dell’ideologia di Hamas. Se volete approfondire davanti a voi si aprono due strade: a. venire all’università nel mio corso, b. leggere una grande quantità di libri scritti da studiosi di questo gruppo che sono in vendita nelle migliori librerie.

Ogni formula politica che intenda affrontare il futuro politico di medio e lungo termine richiederà qualche forma di consenso ovvero un organo eletto. E quando il momento verrà Hamas sarà li.

Tale equazione governance-resistenza sembra aver plasmato la popolarità di Hamas durante l’odierno conflitto. Sebbene molti palestinesi abbiano ammirato la determinazione del gruppo e i risultati militari contro la forza armata più potente del Medio Oriente, hanno criticato il suo fallimento nel preparare i civili palestinesi agli effetti della guerra, incluso la loro protezione da Israele e assicurare un’adeguata fornitura di aiuto umanitario. Hamas si è battuto nell’ultimo anno per rimanere l’attore amministrativo ufficiale per la popolazione a Gaza, malgrado l’implacabile campagna militare israeliana di distruggere i suoi organi civili e la sua struttura.

Hamas non è cessato di esistere come un’entità funzionante, mentre il movimento è certamente seriamente indebolito su tutti i fronti, Israele non sarà in grado di eradicarlo completamente. La natura multipla di Hamas e la misura in cui è legato al tessuto sociale e religioso all’interno della popolazione palestinese gli fornirà spazio e ossigeno per ricostruirsi e riorientrarsi dopo la fine della guerra.

Anche se Hamas sarà totalmente neutralizzato in termini di capacità militare, rimarrà la sua presenza politica e sociale e la reputazione tra i palestinesi.

Il sostegno ad Hamas tra la popolazione palestinese cresce e decresce in diretta relazione con la disponibilità ovvero la mancanza di altre opzioni.

La mancanza di più di tre decadi di processo di pace, l’aumento dell’occupazione israeliana, le annessioni e la crescita di un sistema di apartheid, il senso di abbandono e umiliazione da parte della comunità internazionale, le difficoltà economiche sempre maggiori sia a Gaza che a West Bank, tutti questi fattori hanno portato molti palestinesi alla frustrazione, alla disperazione e alla rabbia e fondamentalmente ad Hamas. Se questa continua ad essere la realtà che travolge ed inghiottisce i palestinesi, allora la ri-nascita di Hamas, o un suo rimpiazzo radicale che prende la stessa bandiera, sarà possibile.

Mentre ogni previsione è un azzardo proviamo a delineare alcuni scenari che probabilmente possono rappresentare delle prospettive per il dopo-conflitto.

A. Un movimento disarmato. Hamas è simultaneamente un movimento (violento) religioso-politico e un partito nazionale di resistenza, con uno dei due aspetti che prende il timone a seconda del contesto e delle circostanze. Se la parte della resistenza è repressa dopo la guerra, che sia attraverso la forza, che per scelta, il movimento molto probabilmente ri-orienterà le sue energie sul lato politico-religioso unitamente alla ricostruzione della sua struttura organizzativa. In questo caso una possibile versione di Hamas potrebbe essere una organizzazione non-militare che funziona come un movimento politico religioso simile ad altri partiti islamisti nella regione. Le aree di attivismo potranno includere la partecipazione alle elezioni e ai processi politici, l’impegno nelle resistenza non violenta e popolare contro Israele e sforzi per aumentare l’appartenenza al gruppo.

B. La distruzione del movimento e la nascita di più piccoli gruppi scheggia e molto probabilmente più radicali. Questo sarebbe lo scenario più oscuro per tutti, perché trasformerebbe Gaza in un’arena di caos senza fine. In questo caso conflitto e insicurezza non solo rimpiazzerebbero Hamas, ma potrebbero ripercuotersi a livello regionale a West Bank, in Israele, in Egitto e in Giordania.

C. L’indebolimento, ma non la distruzione di Hamas, che accetta una formula di divisione del potere in una Gaza post conflitto. La parte in cui si permette ad Hamas di essere parte del futuro di Gaza garantirebbe che il gruppo non adotti il ruolo di spoiler. Non è un piccolo prezzo, anzi, anche se drasticamente indebolito e militarmente neutralizzato Hamas potrebbe mobilitare efficacemente i suoi membri e rendere la vita insopportabile ad organo governante a Gaza .

Il 1 dicembre 2024, un membro dell’Autorità Palestinese conferma di un accordo preliminare tra Hamas e Fatah raggiunto a seguito di settimane di negoziazioni al Cairo. Un comitato di 12-15 membri la maggior parte di essi proveniente da Gaza. Sulla relazione controversa tra Hamas e Fatah ne scriverò nel prossimo post.

Novembre 29 2024

Conflitto israelo-palestinese si risolverà?

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Chi studia strategia, conflitti, ha una responsabilità non solo verso gli studenti nell’offrirgli strumenti validi ed utili per essere i futuri decisori politici, ma verso tutti quelli che non sono del settore perchè i conflitti contemporanei sono composti anche dalla sfera della società civile che non può sempre approfondire come facciamo noi analisti di politica internazionale ed è necessario che abbia a disposizione un quadro, un contesto, per potersi orientare e contribuire (sì anche se si è fisicamente lontani dal conflitto) alla trasformazione del conflitto, vale a dire che la contraddizione che ha innescato il ciclo di conflitto sarà affrontata e riconciliata in maniera tale che non sarà più l’innesco della polarizzazione e quindi della violenza.

La teoria dei conflitti, degli studi strategici, si avvale di anni di lavoro di studiosi provenienti da tutte le parti del mondo e non raramente sento dire: “eh la teoria…a che serve se poi in pratica non si realizza niente“… “eh la teoria è per insegnare, per lavorare serve la pratica“…“eh la teoria è per quelli che stanno seduti non per quelli che stanno sul posto a sporcarsi le mani“.

Per non ricalcare i discorsi (che io non sopporto) di quelli che elencano le missioni sul campo, mi limito a dire che:

nella mia esperienza professionale ho potuto constatare “sporcandomi le mani o i piedi” che senza la teoria che offre contesto e strumenti, la pratica risulta in qualcosa che, al meglio, è inefficace se non addirittura sortire l’effetto contrario a quello desiderato. Il punto è che se non sono consapevole delle dinamiche dei conflitti così come sono, non per quello che io immagino o percepisco in maniera soggettiva, non sarò in grado di individuare uno scenario che mi porti verso la risoluzione del conflitto stesso. Oppure ne individuerò uno che fallirà, o peggio non farò nulla perchè “non mi riguarda”. Anche solo veicolare una informazione adeguata, corretta e scientifica (eh si la strategia, la risoluzione dei conflitti, sono scienze) metterà in moto una serie di dinamiche e processi che altrimenti non troveranno spazio. La consapevolezza è una parte della risoluzione dei conflitti per quanto leggerlo potrà sembrarvi strano.

Il conflitto israelo-palestinese è un conflitto intricato.

I conflitti intricati sono quelli in cui tentativi di un contenimento pacifico, accordo e trasformazione hanno fallito (nei conflitti cosiddetti bloccati – frozen – vi è una qualcosa di simile ad una gestione pacifica, ma essa è superficiale ed è soggetta a collassare di nuovo).
I conflitti intricati sono stati oggetto per anni di studio da parte degli specialisti.
Nella risoluzione dei conflitti vi sono degli approcci sovrapposti :
– la negoziazione per un accordo politico;
– la risoluzione dei problemi interattiva;
– il dialogo per una comprensione reciproca;
La negoziazione per un accordo politico è associata con accordo di composizione di conflitto, il dialogo per una comprensione reciproca con la trasformazione del conflitto e la risoluzione dei problemi interattiva – storicamente il fulcro dell’approccio di risoluzione dei conflitti – costruisce un ponte tra le altre due.
Evidentemente la quintessenza di questo conflitto intricato è composta da molti elementi a diversi livelli ed è il punto fondamentale, primario della complessità sistemica di un conflitto transnazionale. Se deve essere fondamentalmente trasformato richiederà cambiamenti tra i settori – economico, politico, sicurezza, sociale, psicologico – e livelli – domestico, regionale, globale.

Consapevolezza del disaccordo radicale

Invece di licenziare dall’inizio il disaccordo radicale come un mero superficiale “dibattito antagonistico” , “dibattito competitivo”, dovremmo considerarlo seriamente come il principale impedimento alla complessiva risoluzione dei conflitti.
Dovremmo riconoscere che nei conflitti intricati, malgrado le considerevoli trasformazioni raggiunte con i gruppi di dialogo, con i workshop sul dialogo e la risoluzione dei problemi, non si è verificato un cambiamento sostanziale, vale a dire la contraddizione tra le parti in conflitto è rimasta tale.
La maggior parte degli israeliani e la maggior parte dei palestinesi hanno perso fiducia in questi approcci e nel dialogo per una comprensione reciproca, lasciando ampio spazio per una normalizzazione dell’oppressione che ignora l’asimmetria del potere.
Molti israeliani considerano tali approcci privi di scopo in ragione, dal loro punto di vista, della passata inaffidabilità dei palestinesi e in ragione di una più grande urgenza nell’affrontare altre questioni sia domestiche che estere.

Nei conflitti intricati la norma è la resistenza al contenimento, all’accordo e alla trasformazione, averne consapevolezza è il primo passo per individuare alternative.

Il dialogo agonistico come lo definisce lo studioso Ramsbotham, ovvero dialogo tra avversari è parte del disaccordo radicale in cui le parti in conflitto direttamente si impegnano nelle affermazioni reciproche. Il dialogo antagonistico non è altro che la guerra delle parole ad un livello più profondo.


Uno degli impedimenti più debilitanti è il gap tra le élite del processo decisorio e i livelli di società popolare. Ancora ed ancora accordi stipulati a porte chiuse a livelli di élite.
In direzione opposta, possibilità e visioni, idee al livello base della società con le sue radici che non penetra nelle gerarchie politicizzate di partiti o nelle istituzioni politiche ufficiali e di sicurezza. Questa è una delle principali ragioni del perché il processo di Oslo ha iniziato a perdere il momentum a metà degli anni 1990.

Si discute spesso di approcci dal basso, ecco se ne discute, senza la consapevolezza che il dialogo agonostico avviene tra le parti in conflitto, tra élite al potere. Il livello della società è tagliato fuori. La società è il livello base dove del resto il conflitto accade.

Sempre perchè la teoria deve necessariamente essere il ponte con la pratica, le persone che sono colpite da una bomba, sono parte di questo livello base che non penetra nelle gerarchie delle élite politiche. Le persone che devono spostarsi e poi sperare di tornare. Le persone che hanno perso tutto compreso i familiari. Anche le persone che non sono vittime della guerra, ma compongono il resto della società di una delle parti in conflitto, sono state ascoltate? Siamo sicuri che siano d’accordo con le élite al governo? Le abbiamo ascoltate, entrano negli scenari di risoluzione dei conflitti o sono solo notizie che poi vengono manipolate per il dialogo agonistico? Sono queste alcune delle domande da porsi.

La domanda a questo punto è: cosa servirebbe?

Gli studiosi hanno suggerito il “pensiero strategico”. Detto così, sembra qualcosa di estremamente bello a livello teorico, ma del tutto irrealizzabile nella pratica. Cosa ci faccio con questo impegno strategico, che vuol dire, praticamente che si deve fare?
Per iniziare tracciamo una importante differenza. La manipolazione strategica o pianificazione strategica è compiuta in segreto o in privato, accompagnata dall’esercizio controllato della persuasione del pubblico. Essa è caratteristica di versioni di “strategia” ideologica, partitico-politica e commerciale.

Un confronto tra possibili scenari che elencano tutti i vantaggi da una parte e tutti gli svantaggi dall’altra è chiaramente un segno caratteristico della manipolazione strategica perché le situazioni non sono quasi mai così nette.

Il pensiero strategico, in contrasto, valuta, confronta le opzioni strategiche e paragona i pro e i contro. Incoraggia in modo deliberato una critica dallo stile “avvocato del diavolo” delle strategie favorite, allo scopo di verificarle per debolezza e incoraggia la creatività conservando la flessibilità strategica.
Invece di iniziare tra le parti in conflitto iniziamo all’interno delle parti in conflitto.

Invece di iniziare dove terze parti vogliano che il conflitto sia, iniziamo dal punto in cui le parti in conflitto chiedono dove sono, dove vogliono andare e come vogliono arrivare lì.
Impegno strategico può aiutare a portare a galla questioni che altrimenti sarebbero scomparse dal radar pubblico.
Spesso il punto critico sia nella perpetuazione del conflitto che nel fallimento dei tentativi di risoluzione e nel suggerire possibili nuove configurazioni è: “tutti sanno come un accordo finale sarà” ed è ciò che si sente comunemente affermare nel conflitto israelo-palestinese.

L’impegno strategico mostra che nessuno sa come sarà un accordo finale. Questo è il problema. Anche in relazione ai dossier familiari nei tentativi ripetuti nel 2000, 2001, 2004, 2007, 2014 come la determinazione delle frontiere future, il legge di ritorno (diaspora ebrea) il diritto di ritorno (diaspora palestinese), lo status di Gerusalemme, gli accordi di sicurezza, la gestione delle risorse economiche, le concezioni restano in contrasto . Non vi è accordo su cosa voglia dire “stato palestinese”.
Il pensiero strategico apre ai possibili piani B, a possibilità future che per quanto remote possano essere – la soluzione due stati, la federazione con la Giordania – non entrano nel dibattito e anche se si rivelano essere catalizzatori critici nelle percezioni tra rischi e benefici, in realtà aprono al dialogo su qualcosa di nuovo che altrimenti resterebbe assente.

In sostanza, se io non propongo altri scenari, considerando l’ “interno” di ciascuna parte, proponendo varie possibilità, non avrò mai sul tavolo quello scenario per cui le parti converanno. Quello scenario per cui la contraddizione tra le parti in conflitto che ha generato la violenza sarà affrontata in maniera significativa, vale a dire non sarà più il punto da cui si aprirà la polarizzazione e tutto il ciclo del conflitto.

Se non considero l’interno di ciascuna parte, vale a dire chi e cosa vuole ogni componente di ciascuna parte in conflitto, non potrò elaborare nuove possibilità. Evidentemente considerare le parti in conflitto come blocchi monolitici sempre uguali a se stessi, ignorando che all’interno di esse vi sono altre parti, mi renderà intrappolato in un ciclo di conflitto che si ripete.


Affrontare l’asimmetria del conflitto


L’asimmetria quantitativa (una parte del conflitto è più grande dell’altra) pone problemi, ma essa è significativamente aggravata quando vi è anche l’asimmetria qualitativa (ad esempio una parte in conflitto è un governo e l’altra no). Questo significa che queste parti in conflitto stanno perseguendo obiettivi strategici interamente differenti. Ad esempio, la fondamentale questione strategica per Israele nel conflitto israelo-palestinese è: perché Israele dovrebbe arrendersi? Laddove la fondamentale questione strategica dei Palestinesi è: come possono i palestinesi trasformare lo status quo?
Al cuore del pensiero strategico vi è la questione dell’equilibrio del potere. Chi prevale? A chi è accordata più importanza tra le parti in conflitto?
Ci facciamo aiutare dal lavoro di Kenneth Boulding e Joseph Nye che ci dicono che esistono differenti tipi di potere da essere messi a confronto. Nel conflitto israelo palestinese, Israele ha una schiacciante forza militare ed economica così come il sostegno delle più grandi potenze mondiali. Ma anche i palestinesi hanno potere, il potere della legittimità internazionale, molto rafforzata nell’ultima decade, al punto che un gran numero di paesi sostengono il principio di uno Stato di Palestina. Come risultato la Palestina è già uno stato non-membro osservatore delle Nazioni Unite. Questo è un trionfo della strategia palestinese.

Anche qui, sono davvero consapevole di queste dinamiche di potere e strategia?


Chiarire il ruolo delle terze parti

Da una prospettiva di negoziazione strategica, le terze parti non sono neutrali, imparziali o disinteressate. Le terze parti anche le cosidette parti trasformative vogliono cambiare i discorsi delle parti in conflitto in modo che siano differenti da come erano prima. Anche loro vogliono “vincere”. Questo è la ragione per cui l’intervento di terze parti anche se all’inizio è benvenuto, spesso finisce con entrare in contrasto con tutte le parti in conflitto. Le parti in conflitto si aspettano che le terze parti li sostengano, quando non lo fanno le parti in conflitto entrano in contrasto con loro o possono entrambe convenire che le terze parti non comprendono per nulla la situazione.
Alla luce di ciò occorre riconoscere di non essere neutrali, imparziali o disinteressati.

Dunque è necessario che le terze parti analizzino il sistema complesso esistente, valutandone le forze e le debolezze, paragonando possibili scenari, determinando gli obiettivi di breve e lungo termine, allo scopo di preparare strade alternative, trovare alleati strategici, adattare e valutare mezzi strategici.


Se il classico schema di cui parlavamo all’inizio della risoluzione dei conflitti ha fallito di produrre i suoi effetti per decadi e decadi, non è possibile licenziare la questione con “è lontana” o con interventi di “aiuto/sostegno” che non sono utili ad affrontare la contraddizione. In questo schema che oramai si ripete da anni, la contraddizione innescherà nuovamente la polarizzazione quindi la violenza vale a dire la guerra. Neanche vale l’affermazione: “non c’è nulla da fare”, perchè l’impegno strategico è proprio questo: individuare altri scenari, non dialogo tra le parti in conflitto. ma all’interno delle parti in conflitto. La consapevolezza che le terze parti non sono neutrali e disinteressate. Qui allora potremmo sentirci dire: e quindi? Che si fa? Si cambia schema, o meglio si inizia da un altro punto, dal dialogo all’interno delle parti in conflitto, dall’essere consapevoli che le terze parti nutrono i propri interessi, che gli spazi vuoti che lasciano i gruppi estremisti possono essere riempiti da gruppi potenzialmente più radicali di quelli precedenti, ma di questo parleremo nel prossimo post.

Agosto 19 2024

L’ASSE DELLA RESISTENZA: CHI SONO?

Asse Resistenza

Nel conflitto Hamas-Israele alcuni degli attori coinvolti si trovano bel al di fuori di Gaza. Come ho sempre detto i conflitti contemporanei sono complessi, con dinamiche multiple di livelli diversi che si muovono contemporaneamente e per quanto si voglia cercare di offrire strumenti per la comprensione ad un pubblico di non addetti ai lavori c’è sempre il rischio di banalizzare nel tentativo di semplificare.

In questo caso cerco di semplificare una serie di attori che si citano spesso, ma che temo non si conoscano. Quando sentite dire o leggete “asse della resistenza” (alle volte qualcuno dice “asse del male” citando a casaccio visto che si riferisce a tutt’altro spazio geopolitico), sappiamo davvero da quali attori è composto e chi sono? Anche in questo caso vi sorprenderete leggendo di quanto sia ancora molto più complesso di quanto si possa immaginare.

Asse della resistenza – Membri chiave
Iran
Siria
Hezbollah

A cui si aggiungono:

a) Ansarullah (Houthis) Yemen


Il movimento Houthi si è sviluppato dal gruppo rivivalista sciita Zaydi negli anni 1990, in reazione alla crescita del salafismo attorno a Saada, cosi come alla diffusa percezione che il governo centrale trascurasse la regione. In linea generale, gli Houthi promuovono una ideologia neo-zaydista che è poco definita. Probabilmente l’unica chiara espressione di questa ideologia è la credenza che i discendenti del profeta, i Sada, hanno il diritto e l’autorità per governare. Questa convinzione è riflessa nella sistematica nomina di membri del gruppo sociale nelle posizioni di alto rango nel governo e nell’apparato militare. Mentre gli Houthi alle volte esprimono un desiderio di stabilire uno Stato moderno e repubblicano, come pubblicato nel 2018 nella “visione nazionale per lo stato moderno dello Yemen“, la loro recente imposizione di tasse, la segregazione di genere e la loro preferenza per gli Hashemiti nelle posizioni di leadership, suggerisce il loro obiettivo di ripristinare una dominanza storica socio politica saadazaydista nello Yemen.
Ad oggi vi sono due principali elementi nella strategia e nel pensiero Houthi.

  • Gli integralisti, che sono riluttanti nel contenere il dissenso e sono più inclini all’uso della violenza per raggiungere le loro ambizioni politiche. Sono in ascesa per via del loro successo militare. Il loro obiettivo è di governare tutto lo Yemen e di continuare a dare battaglia, dove è possibile, all’Arabia Saudita.
  • I moderati che sono di gran lunga più deboli; si concentrano sul controllo del territorio dall’ex Repubblica araba dello Yemen nel nord del Paese. Sono più aperti ad un impegno con l’Arabia Saudita e a lavorare con gli accordi proposti dalle Nazioni Unite.

Gli Houthi hanno ereditato molta della loro esperienza, tecnologia e armi dall’apparato di sicurezza dello Yemen quando hanno preso il controllo del governo nel 2014, lo sviluppo di capacità tattiche è giunto attraverso l’assistenza tecnica dell’Iran.

La relazione Iran-Houthi è basata in interessi e obiettivi condivisi piuttosto che in una ideologia comune.

Gli Houthi continueranno a partecipare nella campagna dell’Iran per indebolire l’Arabia Saudita fino a quando ciò aiuterà il gruppo a consolidare il suo governo nello Yemen.

Piuttosto che proxies, come sono spesso descritti, gli Houthi sono partner eguali in un condiviso progetto militare che beneficia entrambe le parti.

Gli Houthi restano soprattutto un attore yemenita con obiettivi locali.

Sarebbe un errore assumere che l’Iran possa dirigere il comportamento Houthi.

La visione del mondo è cospiratoria: essi vedono l’Unione Europea ed i suoi Stati membri come servili agli Stati Uniti e la cospirazione israeliana realizzata dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti. Pur tuttavia, gli Houthi vogliono il riconoscimento internazionale. In questo senso, sono desiderosi di impegnarsi diplomaticamente con l’UE che considerano meno concentrata nella campagna contro di loro rispetto agli Stati Uniti, la Gran Bretagna o l’Arabia Saudita.

b) Asaib Ahl al-Haq (AAH) – Iraq

L’Islamic Revolutionary Guard Corp (IRGC) crea AAH nel 2006, reclutando al-Khazali (leader del gruppo), che allo stesso tempo comandava un brigata militare: Jaysh al-Mahdi. Una milizia formata nel 2003 da un religioso sciita influente iracheno: Muqtada al-Sadr, per combattere l’occupazione degli Stati Uniti. Inizialmente al-Khazali era un membro leale di Jaysh al-Mahdi anche nota come Mahdi Army, studia negli anni 1990 giurisprudenza islamica sotto la tutela del padre di Sadr, Grand Ayatollah Mohammad al-Sadr a Najaf .
L’Iran sfrutta questa spaccatura offrendo vasti finanziamenti e addestramento ad al-Khazali per formare AAH con l’obiettivo di aggiungere questo gruppo alla sua lista di proxies in Iraq.

c) Harakat Hezbollah Al-Najuba (HHN) – Iraq

Creata nel 2013 subito dopo la guerra civile siriana capeggiata dal Akkram al-Kaabi fino ad oggi. Al momento è composta da tre brigate: Liwa Ammar Ibne Yasir, Liwa Al-Hasan Al-Mujtaba e Liwa Al-Hamd. Al-Kaabi era membro di Mahdi Army di Muqtada Sadr Mujtaba che aveva combattuto contro le forze americane in Iraq tra il 2003 ed il 2008. Tuttavia, lo sgretolamento dell’accordo di cessate il fuoco tra Mahdi Army e le forze militari americane ha avuto come conseguenza che molti dei suoi membri di alto rango defezionano. Al-Kaabi, una di queste figure di spicco, rompe con Sadr e si unisce a AAH. In AAH gli é affidato il compito di creare una organizzazione franchise in Siria unitamente alle milizie sostenute dall’Iran.
La lotta interna per la leadership all’interno di queste milizie in Siria unitamente alla situazione disperata dovuta al collasso del governo in Iraq spinge AAH a concentrarsi sulla sicurezza in Iraq all’interno dell’ombrello delle Popular Mobilization Forces (PMF). Ciò conduce all’allontanamento di Al-Kaabi da AAH, che porta quindi alla formazione di HHN.
La divisione tra AAH e HHN concede all’Iran una opportunità strategica. Mentre AAH ha un ramo politico così come prende parte attivamente al processo elettorale, HHN è puramente militaristica in natura. Similmente AAH ha amalgamato la sua ideologia con il fervore iracheno. Dall’altra parte HHN opera in un meccanismo transtatale, sia in Iraq e Siria e le loro mutue regioni di frontiera. Questo modus operandi li avvicina a Hezbollah in Libano, che funziona anche in differenti regioni. Dall’altra parte, lo stretto coinvolgimento di Hezbollah nella politica nazionale non è qualcosa che HHN condivide. In Siria, HHN è diventata il gruppo più longevo e uno dei leader proxy delle milizie dell’Iran, operando attorno a Damasco, Deir ez-Zor, Aleppo e Hama. HHN è anche parte delle PMF in Iraq con la sua dodicesima Brigata. Le province di Anbar, Nineveh e Saladin sono sotto il suo controllo: cruciali perché si legano attorno alla frontiera Siria-Iran. Inoltre sono zone a dominanza sunnita. Questi due aspetti accordano ad HHN un ruolo delicato e significativo nel calcolo complessivo della strategia proxy iraniana.

d) Kataib al-Imam Ali (al-Imam Ali Battalions), o KIA Iraq

Creato nel giugno del 2014 come ramo militare del partito Harakat al Iraq al Islamiyah (Movimento islamico in Iraq). Il gruppo si è mobilitato per la prima volta quando il Grand Ayatollah Ali al-Sistani emana una fatwa chiamando volontari ad unirsi ai servizi di sicurezza, pur inviando volontari nelle PMF formando la 40° Brigata delle PMF.
Nei combattimenti contro lo Stato Islamico (IS), KIA dispiega forze in Iraq all’inizio del 2014 e in Siria nel 2015, l’ultima campagna presentata come una misura difensiva per proteggere il sito sacro Sayyeda Zainan, il sito sacro più importante in Siria. KIA combatte in battaglie a Tikrit, ovest di Mosul, al-Qaim. Nel processo sviluppa un personaggio di spicco delle PMF Ayoub Falih Hasan al-Rubayie (noto con il soprannome Abu Azrael) che ottiene un profilo sociale mediatico molto vasto per le sue bizzarie sui campi di battaglia.
Nel 2020-2012 KIA diventa più silente, concentrandosi sulla costruzione di reti commerciali e sull’attività politica. Shibl Al-Zaydi, il leader ancora oggi, agisce come un coordinatore del gruppo di resistenza in competizione e come un convogliatore di messaggi per i libanesi Hezbollah e i funzionari di sicurezza iraniani.

e) Kataib Hezbollah (KH) (Battalions of the Party of God) – Iraq

Creata dalla fusione di “gruppi speciali” creati e condotti dalle IRGC-QF nel 2005-2007.
La più forte fazione individuale delle PMF irachene con il controllo di dipartimenti chiave (capo di stato maggiore, sicurezza, intelligence, missilistica)
Subordinata e parzialmente finanziata dalle IRGC-QF, conduce specifiche azioni seguendo le loro istruzioni, direzione e controllo. L’Iran fornisce a KH assistenza finanziaria, militare e condivide prodotti di intelligence, così come seleziona, sostiene e supervisiona la sua leadership. KH è nominalmente governata dallo Shura Council composto da un segretario generale, cinque deputati e almeno 33 membri, più “supervisori” provenienti dalle IRGC-QF e Hezbollah libanese.
Finanziato parzialmente dallo Stato iracheno, KH aziona la 45°, 46° e 47° Brigata delle PMF, finanziate dallo Stato (iracheno). La catena di comando, nominalmente, si dipana dalla commissione Popular Mobilization – dominata dalle KH, fino all’ufficio del Primo Ministro, e poi quindi al Primo Ministro. In pratica, le brigate KH delle PMF frequentemente disobbediscono alla catena di comando governativa mentre restano giuridicamente organi dello Stato iracheno.

f) Kataib Sayyid al-Shuhada (KSS) (Masters of the Martyrs Brigade, aka Kataib Abu Fadl al-Abbas, Kataib Karbala) – Iraq

Costruita attorno alla responsabilità e alla base di potere di Mustafa Abdul Hamid Hussein Utabi, aka Abu Mustafa al-Sheibani o Hamid Thajil Warij al-Utabi, uno dei membri fondatori di Kataib Hezbollah KH.
KSS diventa parte delle forze di sicurezza irachene quando forma la 14° brigata delle PMF.
Nell’ottobre del 2014 KSS minaccia l’Arabia Saudita, asserendo che ogni cosa umana o materiale di origine saudita sarebbe stata un obiettivo futuro, legittimo, avvertendo che il gruppo avrebbe colpito e distrutto il regno. Nel luglio del 2018 il gruppo dichiara di inviare propri militanti a combattere le forze governative in Yemen.
Nel novembre del 2021 KSS rivendica di aver arruolato 49,000 volontari in una nuova campagna di reclutamento per prepararsi ad una grande battaglia contro le forze americane in Iraq.
IRGC – QF e Hezbollah libanese forniscono a KSS l’assistenza finanziaria, militare, condivisione di prodotti di intelligence così come sostegno ed aiuto nella selezione e supervisione della leadership.
A seguito dell’uccisione mirata da parte degli Stati Uniti, nel gennaio 2020, del comandante delle IRGC-QF Qasem Soleimani, Teheran ha concesso ai visitatori KSS un trattamento di alto profilo, circostanza che ci suggerisce che hanno ottenuto uno status più alto rispetto a tutto gli altri gruppi ad eccezione di Kataib Hezbollah e Harakat Hezbollah al-Nujaba.
KSS è parzialmente finanziato dallo Stato iracheno, ed aziona la 14° Brigata delle PMF. Stesso schema di disobbedienza attuato dal KH.

g) Fatemiyoun – Afghanistan

Composto da rifugiati sciiti afgani in Iran e da membri della minoranza sciita Hazara all’interno dell’Afghanistan. Gli Hazari compongono dal 9 al 10 percento della popolazione totale afgana di 38 milioni. Considerati infedeli dai talebani sunniti e obiettivo di attacchi mortali dagli anni 1990, centinaia di migliaia di Hazari sono fuggiti in Iran, dove il governo li ha reclutati nei ranghi della milizia, in cambio di pagamenti alle famiglie, cittadinanza e altre protezioni legali.

h) Zainabiyoun – Pakistan

Costruita dalle IRCG nel 2013, quando l’Iran interviene in Siria a sostegno del presidente Bashar al-Assad. La brigata prende il nome dal sito sacro Sayyidag Zainab, un sito importante di pellegrinaggio sciita a sud di Damasco oggetto di attacchi da parte dei militanti sunniti.
Le modalità di reclutamento per i combattenti pakistan sono piuttosto complesse ed incentrate sulla città iraniana di Mashhad. Alcune delle reclute si sono spostate dall’Iran al Pakistan, mentre altre erano già in Iran verosimilmente come studenti. Un terzo gruppo apparentemente si è mosso in Iran dopo essere stato espulso dagli Emirati Arabi Uniti.
Un certo numero di queste reclute provengono dalla regione Parachinar dell’allora Kurram Tribal Agency nel nord ovest del Pakistan che confina con la provincia afgana Paktia. Il distretto a maggioranza sciita è collocato nella regione sunnita tribale ultra conservatrice, che è stata la scena di conflitto settario. Queste dinamiche hanno condotto alla formazione di identità settarie locali molto più salienti rispetto ad altre aree del Pakistan.
Agli inizi del 2020, l’Iran ufficialmente segnala i suoi legami con Zainabiyoun, la cui bandiera é issata alle spalle del comandante della forza aerea IRGC Amir Ali Hajizadeh insieme alle bandiere degli altri gruppi sostenuti dall’Iran nella regione.

Febbraio 12 2024

Gaza: la soluzione é il cessate il fuoco?

Spesso si ignora la ricerca scientifica a favore del clamore che suscita l’invocazione di un cessate-il-fuoco come la risposta fondamentale al conflitto a Gaza.

A dire il vero si ignora che “conflitti contemporanei, risoluzione dei conflitti, trasformazione dei conflitti” siano materie scientifiche che non trovano collocazione nel reame del pensiero personale, soggettivo, dello strillone da piazza o da talk show”. Per dirla nel linguaggio della strada. Se sono padrone della materia, materia che prevede uno studio quotidiano costante da lavori scientifici, archivi, posso semplificare per rendere fruibile tale argomento ad un non addetto ai lavori. Proprio perché c che ho compreso proviene da una serie infinita di ore di studio e di scrittura, di esperienze sul campo, in quel determinato settore. Diversamente, se io pretendo di essere padrone della materia perché mi leggo quelle 4/5 notizie dai giornali, mi aggiorno con Wikipedia o sono furbo abbastanza da utilizzare una registro linguistico per cui dico tutto, ma in realta’ niente, sono colui che cede alla superficialità ed alimenta confusione, il cui solo risultato é non permettere a chi non é addetto ai lavori di avere una comprensione dei conflitti contemporanei.

Sebbene i cessate-il-fuoco siano molto comuni nei conflitti violenti, tra il 1989 ed il 2000 sono stati dichiarati ben oltre 2000 cessate-il-fuoco nel mondo, il loro effetto é stato limitato.

Un primo problema e’ che non vi e’ una definizione concordata, a livello internazionale, di cosa significhi cessate-il-fuoco. Le Nazioni Unite lo definiscono in linea generale come “un accordo per sospendere i combattimenti, raggiunto dalle parti in conflitto“.

In pratica, ciò solitamente significa arrestare l’attivitá militare in una data area per un lasso di tempo concordato. I parametri della lunghezza e dell’intento di una tale pausa posso differire in maniere profondamente significative. Non esiste il consenso su come tali sforzi si colleghino agli strumenti come la “pausa umanitaria”, i “corridoi umanitari” o anche idee più ampie come “la finestra di silenzio”, le “tregue” o altre azioni.

Una ulteriore complicazione é rappresentata dalla circostanza in cui tutti questi termini vengono spesso utilizzati in maniera intercambiabile. Ciò si é manifestato in maniera evidente negli appelli per un cessate-il-fuoco a Gaza.

In linea generale, diversamente dalle pause e dai corridoi, i cessate-il-fuoco tendono ad includere un obiettivo politico di regolare le posture delle parti in conflitto, ed, idealmente, di portarle piu’ vicine verso una riconciliazione.

In pratica, le ostilita’ quasi sempre ricominciano, in alcuni casi con alti livelli di violenza e brutalita’, soprattutto quando le negoziazioni tra i belligeranti non producono un accordo di pace, e questo é il caso più frequente che si manifesta nei conflitti contemporanei.

I cessate-il-fuoco che sono prodotti senza un approccio strategico ed orientato all’obiettivo non proteggono i civili e non assicurano la distribuzione di sufficienti aiuti umanitari.

Non negando le implicite limitazioni dei cessate-il-fuoco come meccanismo fondamentale per fermare la sofferenza, vi sono alcune condizioni per le quali contengono un valore strategico, anche se non risolvono le cause alla radice del conflitto.

In alcuni casi i cessate-il-fuoco rappresentano una differenza quando sono sviluppati e realizzati con obiettivi specifici e realistici, come la costruzione della fiducia tra le Parti o la consegna di un particolare tipo di aiuto.

A Gaza entrambi gli obiettivi rappresenterebbero un valore, ma l’approccio dovrebbe essere piu’ preciso e compiuto in modo sequenziale.

Un approccio strategico si basa sulle lezioni apprese da altri conflitti e ci suggerisce che i cessate-il-fuoco che con più probabilità hanno successo sono quelli che appongono maggiore leva sugli incentivi alle parti in conflitto per placare le sofferenze, proprio quando il conflitto stesso raggiunge un punto di stallo protratto o in cui si verificano dei momenti di flessione nell’assistenza umanitaria.

Dunque, per garantire più possibilità di successo, gli sforzi per raggiungere un cessate-il-fuoco dovrebbero identificare tali contesti, perché sono quelli in cui le parti in conflitto sono maggiormente incentivate e quindi più disposte ad accettare il sostegno di terze parti per raggiungere accordi e con più probabilità a rispettare questi accordi.

Un secondo approccio strategico al cessate-il-fuoco cerca di fare leva sul loro potenziale di aiutare a costruire fiducia tra le parti in conflitto, durante il conflitto, in momenti strategici . Questo tipo di cessate-il-fuoco possono apportare benefici, anche se limitati, se sono applicati in maniera credibile e rispettati da tutte le parti. Dal momento che le violazioni possono avere l’effetto opposto di diminuire la fiducia, gli accordi intesi come parte di una agenda di costruzione della fiducia dovrebbero essere specifici e realistici.

Un esempio: la cessazione di breve termine della violenza nelle prime settimane della guerra a Gaza che ha permesso ad Israele ed Hamas di realizzare l’accordo di scambio ostaggi-prigionieri, negoziata con l’aiuto del Qatar. Approcci simili si concentrano su esercizi di piccola scala di costruzione della fiducia. Permettere ad entrambe le parti diritti di pieno controllo delle agenzie di terze parti. Questione questa che Israele ha portato all’attenzione come punto di scontro delle passate negoziazioni, aumentando lo spazio per negoziazioni più ampie dove altrimenti sarebbero state limitate.

Il punto per i decisori internazionali (e gli Stati Uniti) dovrebbe essere come le potenziali costruzioni della fiducia e altri benefici derivanti dagli accordi di cessate-il-fuoco possono e devono essere bilanciati con la realtà dei loro limiti, come possono essere appropriatamente regolati nel tempo e amministrati in considerazione di specifici interessi.

Invece, i proclami dei cessate-il-fuoco a Gaza stanno diventando una maschera che distrae dalla cristallina comprensione dei reali e potenziali limiti di questi strumenti.

Qualsiasi approccio che fallisce di affrontare in maniera diretta le lezioni della storia sui limiti dei cessate-il-fuoco, ed ignora i costi umanitari di decadi di accordi internazionali falliti nella pratica, non offre nessun aiuto alla popolazione civile che soffre a Gaza.

Dicembre 6 2023

La guerra a Gaza: un trauma generazionale

Guerra Gaza Trauma

La politica ha una dimensione fisica, il posto nella mente dove vi sono la separazione tra il bene ed il male, la proiezione della colpa inconscia nel profondo del nemico, che dapprima nutrono se stesse e poi portano i loro amari frutti.

Vi é la necessità di portare una comprensione psicoanalitica al tavolo di negoziato.

Sebbene questo conflitto sia fondamentalmente sulla terra e sulla identità politica, i demoni del passato e del presente gettano una lunga ombra sulle percezioni individuali e collettive. I fantasmi dell’Olocausto e della Nabka, le molteplici guerre arabo-israeliane, la violenta occupazione, la resistenza violenta, infestano la coscienza individuale e collettiva dei palestinesi e degli israeliani.

Il trauma che ne risulta aumenta la sfiducia reciproca, deforma le interpretazioni delle intenzioni dell’altra parte, distorce la reale dinamica di potere in gioco e rafforza gli estremisti e le opportunità di trarre vantaggio dalle paure del pubblico a vantaggio delle proprie agende, a spese del bene di lungo periodo delle persone ordinarie.

Il trauma perpetua il conflitto elevando il valore della terra sulla vita umana, attraverso l’impiego della violenza con un valore redentivo ipnotico.

Vi sono due tipologie di trauma interconnesso e intrecciato in gioco in questo contesto: il trauma individuale ed il trauma collettivo.

Un diffuso trauma individuale é composto dal trauma collettivo e storico.

Nel caso degli israeliani, il trauma collettivo, cruciale, é l’olocausto (Shoah il termine ebraico che significa distruzione catastrofica), e i massacri che lo hanno preceduto. Sebbene i palestinesi non siano responsabili per la persecuzione ed il genocidio degli ebrei, molti israeliani hanno trasferito la faccia e le sembianze dei loro precedenti tormentatori e persecutori sui palestinesi, vedendoli come aggressori guidati dall’irrazionale disprezzo per gli ebrei, piuttosto che come un popolo motivato fondamentalmente dalla perdita della loro terra e dei loro diritti. Ciò é parzialmente un prodotto del trauma e parzialmente il risultato di un desiderio di sfuggire alla responsabilità per l’occupazione ed il suo lato interiore negativo.

Per molti sionisti, questa minaccia esistenziale era la più estrema e mortale manifestazione di quello che essi percepiscono come una linea ininterrotta di persecuzione, che inizia dai tempi antichi. Decadi prima dell’Olocausto, Theodor Herzl, il padre fondatore del sionismo politico, scrive nel ” Der Judenstaat” (1986): ” abbiamo sinceramente cercato ovunque di mescolarci con le comunità nazionali in cui viviamo, cercando solo di preservare la fede dei nostri padri. Non ci é stato permesso… Nessuna nazione sulla terra ha sopportato tali lotte e le sofferenze come noi“.

Questo trauma storico é un fattore molto importante in ciò che possiamo definire come il dismorfismo di potere israeliano. Malgrado dispongano del più potente esercito nella Regione e controllino praticamente ogni aspetto della vita palestinese, molti israeliani credono genuinamente che loro siano i piú deboli o i più vulnerabili nel conflitto.

Questo senso di fragilità e vulnerabilità risale a decadi fa. Nell’Europa degli anni 1940, gli ebrei erano una minoranza indifesa perseguitata da uno Stato totalitario e potente. Nella Palestina degli anni 1940, gli ebrei sionisti erano parte di un progetto di colonizzazione facilitato da una superpotenza, la Gran Bretagna a quel tempo, sostenuta da milizie ben armate e ben addestrate messe in competizione contro una popolazione locale palestinese malamente armata e per la maggior parte non addestrata.

Un simile panico esistenziale attraversa le linee del nemico.

Il massacro che ha condotto Hamas con la sua incursione in Israele ha evocato paragoni con la Shoah, per cui molti israeliani ed ebrei – genuinamente – hanno avvertito la paura di un altro genocidio, malgrado la superiorità militare di Israele e le chiare differenze tra le due situazioni.

Il trauma dell’Olocausto vive nella coscienza collettiva degli israeliani. Ciò è simbolicamente riflesso nella prossimità nel calendario di Yon HaShoah (il giorno del ricordo dell’Olocausto) con il giorno dell’indipendenza di Israele, un’espressione del ruolo percepito dello Stato di Israele come protettore e salvatore degli ebrei. Un’altra indicazione di questa centralità è Yad Vashem a Gerusalemme, il memoriale in movimento e museo per le vittime dell’Olocausto. Ironicamente, Yad Vashem non rileva, attraverso una valle, uno dei luoghi più simbolici e struggenti del trauma collettivo palestinese: Deir Yassin. Questo villaggio tranquillo e pittoresco che aveva dichiarato la sua neutralità durante la guerra civile 1947-8 in Palestina, è stato attaccato da gruppi paramilitari ebrei di estrema destra, Irgun e Stern Gang, e molti dei residenti furono massacrati; il villaggio stesso fu spazzato via dalla mappa.

On [the Yad Vashem] side of the valley the world is taught to ‘Never Forget.’ On the Deir Yassin side the world is urged to ‘Never Mind,’”

dal sito web Zochrot, una organizzazione israeliana non governativa creata da un gruppo di attivisti ebreo-israeliani, dedicata a mantenere viva la memoria dei palestinesi espulsi dopo la fondazione di Israele nel 2002.

Deir Yassin è stato un momento centrale nella lotta palestinese.

Le notizie di esecuzioni di più di 100 abitanti del villaggio parte di una popolazione di 600 ed il corteo dei sopravvissuti per le strade di Gerusalemme ha condotto al panico di massa tra la popolazione civile araba, contribuendo ad innescare l’esodo della maggioranza della popolazione arabo-palestinese, che genuinamente temeva ulteriori massacri e credeva che sarebbero tornati dopo la fine dei combattimenti.

Più di 700,000 palestinesi fuggono terrorizzati o cacciati, a molti di loro non è mai più stato concesso di tornare alle loro case. Ciò contrassegna l’inizio di quello che poi diventa noto come Nakba o catastrofe che, nelle menti dei palestinesi, è un disastro vivente ed in corso.

Mentre i palestinesi nella diaspora hanno poche, se non alcuna, opportunità di muoversi verso la loro terra ancestrale senza che avvenga un significativo cambiamento politico, i palestinesi che ancora vivono nella storica Palestina avvertono che una Nabka, dal ritmo dilatato, é ancora in essere.

A Gerusalemme ciò é manifestato nella forma di predazione di terra, imprigionamenti, demolizione di case, attraverso la violenza, la confisca della terra che aumentano sin da quando é iniziata l’ultima guerra a Gaza.

A Gaza assume la forma di un costante ciclo di guerre e una graduale trasformazione del territorio in una terra di nessuno inabitabile, che evoca rinnovate paure di pulizia etnica.

Nella visione dei primi sionisti, una terra da chiamare propria avrebbe ancorato il popolo ebreo e protetto contro la vulnerabilità di essere una minoranza perpetua, mentre si lavorava ad una terra che avrebbe costruito apparentemente un nuovo ebreo solido e resiliente che sarebbe stato la vittima di nessuno.

Il potere salvifico della terra é tale che i massimalisti di entrambe le parti credono che la possessione di Israele/Palestina sia più importante della carne e delle ossa degli israeliani e dei palestinesi, non importa quante generazioni di sofferenza siano inflitte.

Per portare avanti questa agenda e perpetuare il conflitto, gli estremisti pongono l’accento sull’angoscia generata dal trauma collettivo degli ebrei e sul trauma che vivono quotidianamente i palestinesi così come le paure e la sfiducia che questo produce.

La relazione taciuta tra palestinesi islamisti, destra israeliana e coloni.

Per decadi, i palestinesi islamisti mantengono una relazione taciuta con la destra israeliana e i coloni. Così come l’America aveva precedentemente sostenuto gli islamisti contro i secolari, i regimi arabi non allineati durante la Guerra Fredda; Israele, discretamente, tollera la nascita del precursore di Hamas come un controbilanciamento contro l’odiato OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina), malgrado la volontà di quest’ultimo di trovare una soluzione negoziata al conflitto.

Durante il processo di pace di Oslo, fortemente fallace, gli attacchi suicida di Hamas e del Islamic Jihad, sommati all’assassinio di Yitzhak Rabin da parte di un fanatico religioso sionista, Yigal Amir, hanno contribuito ad azionare l’egocentrismo di Benjamin Netanyahu al potere. Analogamente, Netanyahu, Likud e gli altri alleati coloni di estrema destra hanno contribuito al rafforzamento della posizione di Hamas agli occhi dell’elettorato palestinese, distruggendo il processo di pace, screditando la ricerca di pace dell’Autoritá Palestinese e costruendo fatti sul terreno destinati ad assicurare che lo Stato palestinese non diventasse mai una realtà.

Fin da quando Hamas é salito al potere a Gaza, Netanyahu ha considerato il movimento di resistenza islamico sia come un nemico, sia come un alleato de facto con un nemico in comune: il processo di pace, il fronte di pace e la soluzione due Stati. Netanyahu ha visto il movimento come uno strumento utile sia per guadagno personale che ideologico

Malgrado o in ragione della paura di Hamas e dei suoi razzi inflitta nel cuore dei cittadini israeliani, “la concezione”, il nome che Netanyahu assegna alla sua strategia di impedire le aspirazioni palestinesi mentre gestisce il conflitto a vantaggio del movimento dei coloni israeliani, va in frantumi il 7 ottobre, quando viene meno tutta la cornice di sicurezza di cui si e’ vantato verso l’elettorato.

Il trauma collettivo che Netanyahu ha sfruttato per mantenersi al potere, per cercare di evitare le procedure penali e portare avanti la sua agenda con i suoi alleati coloni é sorretto da una fondamentale sopravvalutazione di quanta violenza può raggiungere il conflitto israelo-palestinese, una sottostima della determinazione dell’altra parte e una accresciuta risolutezza generata dalla violenza.

Nei fatti, quello che Israele sta compiendo adesso a Gaza corre il rischio di creare le condizioni per cui movimenti radicali emergeranno dalle macerie, specialmente dal momento che i pilastri sociali che mantengono la comunità assieme si sgretolano in mezzo alla distruzione. Il dolore intenso ed il trauma causato dalla continua distruzione di Gaza potrebbe fornire un nuovo quadro di estremisti con le relative reclute.

L’estremo militarismo di Israele e la sua eccessiva dipendenza dall’apparato militare é un prodotto secondario del trauma storico, sfruttato da falchi ed estremisti per mantenere il sostegno del pubblico, ovvero tenerlo in ostaggio, per il progetto di insediamenti e la continua sottrazione di potere ai palestinesi. Il potere, la spavalderia dell’esercito piu’ potente della Regione, parzialmente compensa, nella psiche collettiva, il senso di una passata debolezza e impotenza.

Una non dissimile dinamica di sopravvalutazione dell’utilitá della violenza e una sottostima della risolutezza e determinazione dell’altra parte é in gioco anche tra i palestinesi, ma per ragioni contemporanee piuttosto che storiche. Il trauma collettivo continuo, l’espropiazione, ha creato non solo un’infinitá di dolore, ma anche una profonda vergogna, unita alla collettiva debolezza del popolo palestinese e alla loro incapacità di difendere se stessi.

Questo ha l’effetto paradossale sulle fazioni palestinesi armate di rendere il fascino della violenza crescente, anche se la sua futilità é ripetutamente e dolorosamente dimostrata. L’incursione sanguinosa di Hamas il 7 ottobre é un esempio tipico. Non c’é modo che Hamas non avesse previsto la ferocità della odierna campagna militare israeliana, ma ha proceduto comunque a condurre l’azione.

The pain of this conflict is well known. Yet we are only at the start of learning how that manifests itself — and even further from finding a way out of it,

scrive Arwa Damon

Una parte della comprensione del “perché'” ci troviamo in una tale circostanza non include solo le decisioni e gli eventi, ma anche le emozioni che guidano queste decisioni e questi eventi.

Se osserviamo la storia della popolazione palestinese e la storia del sionismo, gli eventi orribili dell’Olocausto, quello a cui hanno resistito i palestinesi per più di 75 anni, vediamo una ri-traumatizzazione ripetuta in cui le due popolazioni al centro, hanno già tramandato, di generazione in generazione, profondo, intenso trauma.

Mark Wolynn, nel suo libro: “It didn’t start with You: how inherited family trauma shapes who we are and how to end the cycle,” afferma che non siamo nati meramente come un prodotto del DNA che ci assegna capelli e colore degli occhi, tratti fisici o anche tratti di personalità dei nostri genitori. Noi siamo anche un prodotto delle esperienze vissute dei nostri genitori, nonni e bisnonni. Il DNA cromosomale – il DNA responsabile della trasmissione dei tratti fisici compone meno del 2% del nostro DNA totale, l’altro 98% é ciò che è chiamato DNA non codificante ed è responsabile per molti dei tratti emotivi, comportamentali e di personalità che ereditiamo.

Il DNA non codificante è noto che sia influenzato, da fattori stressanti ambientali, come le tossine, da una inadeguata nutrizione così come da emozioni stressanti. Il DNA colpito trasmette l’informazione che aiuta a prepararci per la vita fuori dell’utero assicurandoci i tratti particolari di cui abbiamo bisogno per adattarci al nostro ambiente.

Il settore scientifico che si occupa di tutto ciò, l’epigenetica, studia come i nostri comportamenti e l’ambiente possono causare dei cambiamenti che incidono sul modo in cui i nostri geni lavorano. Diversamente dai cambiamenti genetici, i cambiamenti epigenetici sono reversibili e non cambiano la sequenza del nostro DNA, ma possono cambiare come il nostro corpo legge la sequenza del DNA.

In altre parole, mentre il trauma potrebbe non cambiare la composizione fisica del nostro DNA, esso cambia il modo in cui le cellule interagiscono l’una con l’altra. Esso può pre-programmare noi a prepararci all’ambiente in cui nasceremo. Noi non siamo nati come dischi emozionalmente fissi .

Israeliani e palestinesi sono nati con il trauma delle generazioni che sono venute prima di loro. Entrambi sono nati già con una modalità di sopravvivenza turbata. Chi è venuto prima, chi ha causato cosa, di chi è la colpa, niente di ciò ha cambiato la realtà che entrambi discendono da linee di generazione di trauma intenso e severo, entrambe tramandate e vissute.

Se non iniziamo a riconoscere e affrontare la nostra epigenetica e i traumi vissuti, continueremo a passarli di generazione in generazione, contribuendo a perpetrare questo tipo di violenza a cui assistiamo oggi: la polarizzazione, l’intolleranza, il razzismo, le faziosità.

Io, dall’altra parte del mondo, che ci posso fare?

La paura é molto reale ed é incredibilmente importante realizzare che si ha una scelta di come rispondere, e deve esserci una relazione sana tra la mente, le emozioni ed i pensieri. Il cervello ha un meccanismo molto semplice, evita il dolore. É logico. É molto comprensibile che le persone che avvertono qualcosa che non le faccia sentire a proprio agio, cercheranno di evitarla. Ad esempio smetteranno di ascoltare e parleranno.

Inevitabilmente, quando parliamo, perdiamo la capacità di ascoltare, che ci permette di evitare la sofferenza. Forse é per questo che sentiamo così tante persone solo urlarsi l’una contro l’altra.

L’equivalente interno di ascoltare é sentire, l’equivalente interno di parlare é pensare. I nostri cervelli, corrono, girano e masticano pensieri per evitare il dolore ed il malessere. Potrebbe sembrare controintuitivo, ma sostanzialmente vi é bisogno che ci sia un equilibrio sano tra i pensieri e le sensazioni.

La tendenza umana é quella di credere che tutto ci renda felici. Noi siamo cablati per allontanare ogni cosa, che sia una prospettiva differente, una nuova informazione, che puó scuotere i pilastri della sicurezza delle nostre convinzioni.

Inevitabilmente tramandiamo tanto dei nostri traumi personali e collettivi nella successiva generazione.

Quello che sta accadendo in Israele e Palestina ha radici che sono tragicamente collettivamente umane. Non abbiamo bisogno di essere condotti da questi traumi, ma continuiamo ad incolpare il passato o a darci la colpa l’un l’altro.

Maggio 21 2021

Israele-Palestina: osservare e non guardare

Osservare conflitto israelo-palestinese
  • Il consolidamento del controllo di Israele sui palestinesi, che ha impedito una soluzione a due stati;
  • il consenso all’espansionismo israeliano da parte della Comunità internazionale, incluso da parte di quei quattro paesi che hanno “normalizzato” le relazioni con Israele: gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein, il Marocco e il Sudan

hanno reso più facile per Israele perseguire politiche massimaliste che impediscono ogni tipo di risoluzione di lungo termine.

Tutto ciò, dall’altra parte, ha sensibilmente eroso la qualità di vita dei palestinesi sia nei territori occupati che in Israele stesso.

Mi sembra che sia opportuno ricordare che, durante le ostilità aperte, a Gaza, i civili sono coloro che vengono maggiormente colpiti dai bombardamenti israeliani a prescindere dalla circostanza che siano intenzionalmente un obiettivo.

La striscia di Gaza

Un territorio piccolo, ma altamente popolato, catturato da Israele dall’Egitto nel 1967. L’Egitto non rivendica più che sia suo territorio, ma l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina non lo considera parte dello Stato di Palestina, dal momento che esso è popolato quasi interamente da arabi e non è mai stato parte di Israele. Mentre la Striscia di Gaza era una volta divisa tra controllo palestinese e israeliano come a West Bank, nel 2005 Israele è andato via completamente lasciando questo territorio sotto la giurisdizione dell’Autorità palestinese.

Nella guerra civile del 2007 tra le fazioni palestinesi che combattevano nella striscia di Gaza, con la fazione di Hamas che aveva preso completamente il territorio dalle forze di Fatah.

Differenze tra Hamas e Fatah

Laddove Fatah – fondata da Yasser Arafat – ha un orientamento secolare e nazionalista, Hamas si definisce come un “movimento islamico palestinese nazionale di liberazione e resistenza” e utilizza l’Islam come la propria cornice di riferimento per governare. Un’altra importante differenza riguarda le loro rispettive visioni su come resistere all’occupazione israeliana. Mentre Hamas persiste nel sostenere la resistenza armata, Fatah ha adottato una strategia di negoziazione.

In ragione del rifiuto di Hamas di accettare l’esistenza di Israele ovvero di porre fine agli attacchi contro obiettivi israeliani (Israele li considera un gruppo “terrorista”), Israele e l’Egitto, alleato odierno, hanno mantenuto – da allora – un blocco nella striscia di Gaza controllando severamente chi e cosa attraversa le frontiere e alle volte chiudendo completamente tutte le uscite e tutte le entrate.

Sebbene la Striscia di Gaza sia quasi interamente sotto la governance di Hamas, l’esercito israeliano in realtà controlla una zona buffer di 100-300 metri giusto all’interno del territorio di frontiera con Israele.

I diritti umani, civili e politici?

Tra le guerre, la vita a Gaza è invivibile. Fin dalla prima intifada, o rivoluzione, nel 1987, i diritti dei palestinesi –misurati in potere politico, autodeterminazione, prospettive economiche, diritti fondamentali come la libertà di movimento – sono diminuiti in modo costante.

Uno sguardo più ampio ci suggerisce una tendenza simile per i diritti nella Regione. Ai nuovi partner arabi di Israele sembra non importare il suo approccio deumanizzante per pacificare il dissenso palestinese. Infatti, la politica israeliana s’incastra con l’approccio che le monarchie del Golfo hanno intrapreso verso i diritti politici e civili dei loro cittadini, vale a dire di privazione dei diritti.

La Regione ha subito uno spostamento geopolitico . Tre monarchie arabe: Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco, hanno “normalizzato” le relazioni con Israele tra il settembre ed il dicembre del 2020. L’Arabia Saudita sostiene lo spostamento regionale anche se non si è ufficialmente, ancora, schierata. Queste monarchie, che per lungo tempo si sono infatuate della tecnologia israeliana di droni e sorveglianza , adesso cercano di tenere salde le alleanze di sicurezza con Israele in vista della loro rivalità condivisa con l’Iran. Più importante, in aggiunta a questa visione comune che l’Iran deve essere confrontato con la forza piuttosto che essere gestito, ciò che si ricava delle recenti normalizzazioni condivide con Israele una visione elastica dei diritti civili e politici.

Il crescente autoritarismo nella Regione è in mostra anche tra coloro che rivendicano di sostenere i palestinesi. I membri del cosidetto “asse della resistenza”, che comprende Iran, Siria ed Hezbollah, oppone Israele, ma condivide una fosca storia di oppressione, violenza e autoritarismo. Tale asse afferma di voler porre fine al controllo di Israele sulla Palestina, ma è ostile ai diritti civili, giuridici e politici che permetterebbero ai palestinesi di governare essi stessi democraticamente.

La posizione degli Stati Uniti

Una differenza evidente in questo ciclo di violenza è visibile nella copertura mediatica e nei commenti negli Stati Uniti, il cui tono, non completamente critico dello status quo degli Stati Uniti in sostegno di Israele.

Israele si è costantemente insediato nei territori che ha conquistato e occupato attravero la guerra con i suoi vicini. Allo stesso tempo ha relegato i suoi cittadini arabi, che rappresentano 1/5 della popolazione israeliana in uno status di seconda classe, sempre più umiliante.

Durante la presidenza Clinton, gli Stati Uniti hanno cercato con esitazione di negare il denaro dei generosi pacchetti di aiuto annuali per Israele per evitare di sovvenzionare i suoi insediamenti a West Bank, ma, alla fine, hanno sborsato la maggior parte dei soldi per poi commentare ben poco gli insediamenti stessi.

Barack Obama ha costruito sul “congelamento degli insediamenti” una forte e centrale posizione della sua amministrazione, affinchè si giungesse ad una soluzione negoziata di due-stati, ma le sue ripetute richieste sono state respinte decisamente da Israele con nessun impatto negativo sulla magnificenza americana.

Washington ha recentemente fornito assistenza ad Israele ad un ritmo di circa 3 miliardi di dollari all’anno.

Israele riceve una così generosa assistenza malgrado il suo alto livello di sviluppo economico. Ancora più eccezionale è che gli Stati Uniti compiano così pochi sforzi per esercitare un’influenza politica.

Tutto ciò considerato, Washington, piuttosto che aiutare il suo caro amico, con le non-risposte unitamente al sostegno incondizionato per Israele, hanno solo reso questa situazione molto pericolosa, ancora peggiore.

Durante l’amministrazione Trump, Washington ha iniziato anche a pretendere che i palestinesi potessero essere immaginati fuori dalla realtà politica. Trump ha riconosciuto ufficialmente Gerusalemme come la capitale di Israele, trascurando le rivendicazioni palestinesi sulla città, e l’ha fatto senza chiedere alcun impegno da parte di Israele sui futuri insediamenti o per i diritti degli arabi, sia che vivessero nei territori occupati, sia in Israele come cittadini.

L’amministrazione Biden ha sorpreso molti osservatori per l’audacia di alcune delle sue politiche. Sulla crisi israelo-palestinese, ha agito come se sia persuasa che mettendo la testa sotto la sabia, la tensione esplosiva in qualche modo si riduca.

Washington oggi si nasconde dietro dichiarazioni stranamente cieche, o frasi di rito come “Israele ha diritto all’autodifesa”. Pretendere che il problematico comportamento di Israele, sia nelle recenti settimane, che da molti anni a questa parte, non abbia niente a che fare con l’esplosione della violenza, non aiuta nessuno.

Non esiste una chiave magica che sia in grado di risolvere questi problemi, ma sicuramente ogni tipo di soluzione, per quanto difficile, deve abbandonare un linguaggio schierato per denunciare l’estremismo impostato solo verso una parte dell’equazione. Sì, Hamas è violento e anche sconsiderato, ma così come molti degli elementi ultra-conservatori nella società israeliana che hanno giocato un ruolo sempre più grande nella politica del paese nelle due decadi passate.

La loro spinta per una infinita espansione degli insediamenti, per una graduale destituzione dei palestinesi, sia economicamente che politicamente, manca del fuoco dei razzi, ma è in ogni piccola parte come un esplosivo.

La guerra può assumure ogni tipo di forma, ma la sua ultima incarnazione del conflitto punta ad un buio sempre più profondo e ad un pericolo esistenziale. Parliamo della violenza comunitaria che è scoppiata nei giorni recenti nelle strade di posti come Haifa, Lod, Lydda per i suoi residenti arabi. Ciò differisce molto dalla violenza tra Stati e attori non-statali, perchè scorre nella vero tessuto di una società.

Maggio 18 2021

Hamas: origini e obiettivi

Hamas

Hamas (In arabo: حماس‎‎ Ḥamās, un acronimo di حركة المقاومة الاسلامية Ḥarakat al-Muqāwamah al-ʾIslāmiyyah) significa movimento di resistenza islamica – Islamic Resistance Movement-.

Hamas: le origini

Formato nel tardo 1986 all’inizio della prima intifada palestinese. Le sue radici si trovano nel braccio palestinese dei fratelli musulmani; sostenuto da una robusta struttura socio – politica  all’interno dei territori palestinesi. Il gruppo, in sostanza, fu stabilito per fornire un veicolo per i fratelli mussulmani nel violento confronto contro Israele, senza esporre la Fratellanza e le sue ampie reti sociali e istituzioni religiose alla rappresaglia israeliana.

Obiettivi

La Carta del gruppo richiama alla creazione di uno stato palestinese islamico al posto di Israele, rifiutando tutti gli accordi fatti tra il movimento di liberazione palestinese (OLP) ed Israele. La carta di Hamas definisce la storica Palestina, incluso l’Israele odierno, come una terra islamica ed esclude ogni possibilità di pace permanente con lo stato ebreo.

Hamas
foto: www.forward.com

Originariamente il gruppo aveva due obiettivi: condurre una battaglia contro Israele (attraverso il suo braccio armato) e fornire programmi di benessere sociale. Dal 2005, tuttavia, si impegna nel processo politico palestinese.
I suoi sostenitori lo vedono come un movimento di resistenza legittimo. Nel 2006, Hamas vince sorprendentemente le elezioni nel Consiglio Legislativo Palestinese, ma le tensioni con la fazione rivale: Fatah si acuiscono. Scontri mortali tra i due gruppi nel giugno del 2007, dopo che Hamas stabilisce un governo rivale, fanno sì che Fatah e l’autorità palestinese gestiscano parti di West Bank non sotto il controllo israeliano.

Perché Hamas usa gli attacchi suicidi?

Hamas si mette in rilievo dopo la prima intifada come il principale oppositore palestinese agli accordi di pace di Oslo tra Israele e l’OLP.
Malgrado numerose operazioni israeliane contro il gruppo e i provvedimenti restrittivi dell’Autorità Palestinese, Hamas crede fermamente che lanciando attacchi suicidi possa avere un efficace potere di veto su tutto il processo di pace.  Ne riportiamo un esempio: febbraio e marzo 1996: attacchi suicidi sugli autobus, con quasi 60 civili israeliani uccisi, in rappresaglia dell’assassinio nel dicembre del 1995 del fabbricatore di bombe: Yahya Ayyash. Per ciò il gruppo fu ritenuto responsabile di aver provocato un cambiamento di rotta di Israele verso una possibile uscita dal processo di pace e aver portato Benjamin Neatanyahu, grande oppositore degli accordi di Oslo, al potere.

Molti palestinesi acclamarono l’ondata di attacchi suicidi di Hamas nei primi anni della seconda intifada. Essi vedevano il martirio come vendetta per le loro perdite e per la costruzione di insediamenti israeliani a West Bank, voluto dai palestinesi come parte del loro stato.

Struttura della leadership

Hamas

Il gruppo comprende tre “cicli di leadership”. Il primo consiste di leader locali all’interno di West Bank e Gaza. I più famosi: lo sceicco Ahmed Yassin e Abdul Aziz Rantisi che sono stati uccisi da Israele negli anni recenti. Il secondo ciclo include la leadership esterna del gruppo: un bureau politico che include Khaled Mashal e Mousa Abu Marzouk. Il terzo ciclo consiste nella leadership internazionale del movimento globale dei Fratelli Musulmani, che comprende prominenti figure dei Fratelli Musulmani, come Muhammad Akef e Yusuf al – Qaradawi. Questi tre cicli hanno, ognuno, differenti sfere di responsabilità. I due circuiti interni ed esterni giocano un ruolo centrale nella determinazione della strategia di Hamas, delle operazioni terroristiche contro Israele, e il finanziamento di queste attività. Il circuito più interno è maggiormente responsabile per le questioni quotidiane della vita palestinese e costruisce la postura politica di Hamas nei territori attraverso le sue battaglie contro la corruzione ed il supporto per le attività sociali; il circuito più esterno mantiene contatti con i sostenitori internazionali e i finanziatori, incluso le leadership di altre organizzazioni  islamiche e l’Iran.

Composizione

Ha un’ala militare conosciuta come Izz al-Din al-Qassam Brigades che ha condotto molti attacchi anti israeliani sia nei territori palestinesi che in Israele. Questi attacchi hanno incluso una vasta scala di bombardamenti contro obiettivi civili israeliani, attacchi con esplosivi improvvisati sulle strade e attacchi missilistici.

Hamas è composto da elementi amministrativi, caritatevoli, politici e militari, che a loro volta si articolano in altre piccole strutture. Ogni regione è composta da “famiglie” e branche, che rispondono ad un centro amministrativo. I membri di Hamas si raggruppano attorno a quattro categorie generali: intelligentsia, sceicchi (leader religiosi), giovani candidati alla leadership ed attivisti.
Il ramo intelligence realizza sei direttive: sorveglianza degli spacciatori di droga, punisce coloro che sono colpevoli di tradimento, prostituzione o di vendere narcotici; distribuisce le informazioni del gruppo in volantini; pubblicizza le politiche di reclutamento di Israele e le politiche per la collaborazione e avverte la popolazione contro la complicità; gestisce il supporto logistico per l’organizzazione. Monitora anche i crimini nei territori: le attività criminali sono tollerate perché permettono un ampio terreno per il reclutamento di informatori.
Le unità commando hanno 4 obiettivi principali: stabilire le famiglie (usar) e cellule “segrete”; raccogliere informazioni sui militari israeliani; condurre operazioni militari, incluso il rapimento di soldati nemici. I fondatori di Hamas hanno creato, inoltre, altre branche che sono costantemente in contatto tra di loro, ma compiono le loro funzioni all’esterno. Al- Maktab al – I’lami e al – Maktab al – Siyassi: rispettivamente l’ufficio informazioni e politico.
L’ufficio informazione è situato in Giordania, responsabile per la preparazione e la disseminazione di tutti i comunicati stampa che riguardano le dichiarazioni politiche di Hamas. Diffonde anche pubblicazioni in nome di Hamas. L’ufficio politico si occupa delle relazioni estere di Hamas e rappresenta l’organizzazione alle conferenze ed incontri che hanno a che vedere con gli affari palestinesi.

Hamas dov’è?

La forza di Hamas è concentrata nella striscia di Gaza e nelle aree di West Bank.

Supporto e finanziamento

Ci sono numerosi attivisti musulmani che simpatizzano con Hamas, ma si ha una conoscenza limitata circa le loro operazioni. Alcuni di loro forniscono supporto materiale o morale al ramo politico del gruppo. La maggior parte dei fondi di Hamas e gli sforzi sono diretti verso l’assistenza alla popolazione. Hamas gestisce la miglior rete di servizi sociali nella striscia di Gaza. Strutturato e ben organizzato, il gruppo gode di fiducia perché viene percepito come meno corrotto e soggetto al clientelismo (patronage) di altre attori nazionali secolari, specialmente Fatah.  In aggiunta alle donazioni e alla zakat (una tassa obbligatoria del 2,5% dei guadagni di ogni musulmano), attraverso i comitati locali, i sostenitori del gruppo creano piccoli progetti finalizzati a generare piccoli guadagni per permettere un’auto – sufficienza. Ad esempio, la produzione di miele, di formaggio, la manifattura in casa di vestiti . Ed infine destinano una considerevole porzione delle loro risorse per assistere i giovani palestinesi.
Sebbene sia stato scritto molto sulla connessione iraniana e/o saudita con il gruppo, ci sono piccole evidenze sostanziali che corroborano queste affermazioni. Durante i primi anni della rivolta, giornalisti identificarono Hamas come un gruppo islamico appoggiato dai sauditi. L’affermazione che i fondi di Hamas arrivano primariamente da Teheran è iniziata nel 1989, quando Israele per primo decise che il gruppo era una seria minaccia alla sicurezza. Tra i gruppi che hanno esteso l’assistenza ad Hamas ci sono organizzazioni islamiche nel continente indiano, fazioni islamiche in Turchia, Malesia, Afghanistan.

Principali operazioni militari di Israele contro Hamas

Israele ritiene responsabile Hamas di tutti gli attacchi che si generano nella striscia di Gaza e conduce tre campagne militari a Gaza: Operation Cast Lead nel dicembre del 2008, Operation Pillar of Defence nel novembre del 2012 e Operation Protective Edge nel luglio del 2014.
Dai conflitti dal 2008 al 2012 il gruppo emerge militarmente degradato ma con un rinnovato supporto tra i palestinesi a Gaza e West Bank per essersi confrontato con Israele ed essere sopravvissuto.

Hamas continua la sua battaglia malgrado un blocco congiunto imposto su Gaza da Israele e dall’Egitto, diventando sempre più isolato. La caduta di un alleato chiave: il presidente egiziano Mohammed Morsi, nel luglio del 2013 costituisce un ulteriore colpo. Nell’aprile del 2014 con un accordo di riconciliazione con Fatah  forma un governo di unità nazionale.

Chi lo ha inserito nelle lista di organizzazioni terroristiche?

Hamas è designata come organizzazione terroristica da Israele, Stati Uniti, Unione Europea, Canada e Giappone.

Hamas potrà diventare un gruppo moderato?

Molti si chiedono se Hamas possa o meno diventare moderato. Hamas sicuramente mostrerà una flessibilità tattica nel suo approccio alla governance, ma è molto improbabile che cambi qualsiasi dei suoi aspetti di strategia fondamentale. Del resto Khaled Mashal ha dichiarato in diverse occasioni il principale rifiuto di Hamas del diritto di Israele di esistere, in ogni misura, in ogni frontiera.

Maggio 15 2021

Il cuore contestato dell’identità palestinese

identità palestinese

Contestare non semplicemente un’identità, ma il suo cuore, il punto più vicino al sé di ciascun individuo, non si può ridurre ad un “noi-contro-loro”, ad una netta demarcazione tra i “buoni e i cattivi”. I conflitti di identità e la violenza che ne deriva possono essere condotti alla riconciliazione, processo lento, ma capace di far convivere due identità nello stesso spazio territoriale.

Quello che sta accadendo tra le forze israeliane e militanti palestinesi nella Striscia di Gaza il più pesante scambio di fuoco dalla guerra di Gaza nel 2014.

Il conflitto accade dopo una serie di tensioni che si sono intensificate a seguito della sentenza – ora postposta – della Suprema Corte israeliana sulla circostanza per cui sei familie palestinesi possono essere sfrattate dalle loro case nello storico quartiere Sheikh Jarrah ad Est di Gerusalemme per fare posto ai coloni israeliani.

Il caso è stato la scintilla di proteste di massa quotidiane, che spesso sono diventate violente quando la polizia israeliana ha, con la forza, disperso la folla.

Così come il più ampio conflitto israelo-palestinese, la disputa che ha generato il recente picco di violenza ha delle profonde radici storiche.

Il quartiere di Sheikh Jarrah, come altri nella Gerusalemme Est, è stato oggetto di disputa tra i palestinesi e gli ebrei per secoli. Nel 1956 la Giordania, che allora governava West Bank e Gerusalemme Est, costruì delle case a Sheikh Jarrah per ricollocare 28 famiglie che erano state espulse dalle loro case dalle milizie sioniste durante la guerra del 1948 che culminò con la creazione dello Stato di Israele. I palestinesi si riferiscono alla dislocazione di massa che ne risultò con il termine nabka vale a dire catastrofe. Negli anni 1960 i giordani accordarono di garantire atti ufficiali di proprietà della terra ai palestinesi residenti a Sheikh Jarrah dopo un periodo di tre anni, ma l’accordo fu interrotto dalla guera dei sei giorni nel 1967 che vide Israele occupare West Bank e Gerusalemme Est.

Da allora, palestinesi residenti sono stati sfrattati dalle loro case a Gerusalemme Est. Alle famiglie palestinesi è stato ordinato di lasciare Sheikh Jarrah nel 2002, 2009, 2017. Lo scorso novembre, la Corte Suprema israeliana ha stabilito che 87 palestinesi dovevano essere rimossi dal quartiere Silwan, giusto fuori la vecchia città. Il caso era stato sottoposto al giudizio della Corte da un gruppo di coloni israeliani che hanno citato in giudizio i residenti palestinesi, accusandoli di vivere sulla terra ebrea.

La crisi odierna si colloca in un momento in cui sia Netanyahu che il Presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas, sono sottoposti ad un’enorme pressione politica. Il primo è parte di un processo in cui è accusato di corruzione, alla guida un governo provvisorio. I partiti di opposizione stanno cercando di formare una coalizione per sostituirlo, dopo la quarta elezione – a marzo – in due anni. Netanyahu potrebbe puntare sul fatto che una risposta eccessiva da parte di Hamas aumenterebbe le sue probabilità di vittoria e riuscirebbe a raccogliere un maggiore sostegno tra gli israeliani di destra, così come tra i moderati che non guardano di buon occhio la violenza. Un conflitto prolungato potrebbe seminare discordia tra i suoi oppositori così diversi ideologicamente.

Abbas, da parte sua, ha scatenato un putiferio nel tardo aprile quando ha sospeso le programmazioni per le prime elezioni palestinesi in 15 anni. Perseguitato da accuse di corruzione e di malgestione, può, ragionevolmente, nutrire timore che sia rimosso in favore di Hamas.

L’odierna situazione potrebbe contenere un vantaggio politico per lui: fino a quando le bombe continueranno a cadere a Gaza, i palestinesi potrebbero distanziarsi da Hamas e dalla sua posizione aggressiva verso Israele. Alternativamente, una rapida fine della violenza potrebbe promuovere l’immagine di Hamas e dipingere Abbas come non desideroso di prendere posizione contro l’aggressione israeliana. In ogni caso, il combattimento implica che il potenziale per un governo di unità palestinese si allontana sempre di più.

La geopolitica della Regione

Il supremo leader iraniano ha invitato i palestinesi a rispondere alla “brutalità” israeliana asserendo che gli israeliani “capiscono solo il linguaggio della guerra“. Questo linguaggio instigatorio potrebbe ispirare i proxy iraniani in Libano e in Siria all’azione, aggiungendo un’altra dimesione al conflitto. Potrebbe anche diventare un punto da introdurre nei colloqui iraniani con l’Arabia Saudita il cui obiettivo è di diminuire le tensioni tra i due rivali. L’Arabia Saudita stessa si è accostata, per mesi, sempre di più ad Israele, ma potrebbe ora dover affrontare una reazione interna negativa per questi sforzi.

Una domanda che ci si potrebbe porre è: cosa cerca di ottenere politicamente Hamas?

La strategia di estorcere concessioni ad Israele attraverso un uso della forza calibrato è realmente iniziata dopo il 2017, quando un ufficiale di Hamas Yahya Sinwar diventa il leader politico a Gaza. La sua guida produce una significativa deviazione della politica israeliana verso il gruppo.

Sinwar ha quasi perso il suo posto nelle elezioni interne di Hamas lo scorso marzo, un segno tangibile del malcontento verso di lui. L’uomo forte di Gaza ha bisogno di confrontarsi, attraverso le urne, con un rivale della vecchia guardia – visto come più tradizionale e radicale – per essere certo di prevalere. La perdita di consenso all’interno del gruppo è divenuta palese la scorsa settimana, quando il comandante militare – ombra – Mohammed Deif e non Sinwar diffonde gli ultimatum a Israele su Gerusalemme.


Gerusalemme, certamente, è stata sempre al cuore dell’identità palestinese, ma nelle recenti settimane lo stato della città contestata ha acquisito, se possibile, una dimensione di maggiore criticità.

Funzionari della sicurezza nazionale israeliana accusano Hamas di aver contribuito ad un’ulteriore intensificazione delle proteste a Gerusalemme nel tentativo di destabilizzare non solo il controllo di Israele sulla città, ma anche l’Autorità Palestinese di Abbas nell’attigua West Bank – un obiettivo di lungo termine del gruppo.

Gli ultimi combattimenti Hamas-Israele unitamente alla violenza comunitaria arabo-israeliana potrebbero vanificare le speranze di riconciliazione. Le fazioni islamiste arabo-israeliane hanno temporaneamente sospeso i colloqui di coalizione per la crisi di sicurezza e i leader di opposizione si sono schierati in sostegno al governo.

Quando questi ultimi cicli di violenza finiranno – e sicuramente finiranno – niente sarà cambiato eccetto il numero di morti da entrambe le parti ed il bisogno per coloro che vivono nella Terra Santa, di vivere con la consapevolezza che nessuno tenterà di contestare la loro identità più vicina al sé. Tale necessità non farà altro che crescere più acutamente, tra chi si vuole guardare solo la violenza e non la radice di essa e chi si gira dall’altra parte perché la propria identità vive al sicuro.

Settembre 21 2020

Normalizzazione Medio Oriente: siamo sicuri?

normalizzazione

La narrativa della normalità e della normalizzazione è stata presente per diverso tempo nei più ampi dibattiti di relazioni internazionali, ma si è registrata la carenza di uno sforzo esplicito di teorizzare il loro significato nella pratica. La normalizzazione difficilmente può essere considerata un contributo alle politiche di legittimazione semplicemente perché la sua stessa logica è situata su un binario: da una parte le forze che posseggono la conoscenza e l’autorità di normalizzare altri, e dall’altra i sottovalutati, gli screditati che sono anomali e che hanno bisogno di cure. Ogni pratica di normalizzazione ha come conseguenza la marginalizzazione e l’esclusione di altre pratiche giudicate anormali.

La promessa degli accordi di Oslo, agli inizi del 1990, una Palestina indipendente che coesiste con Israele, disegnava un Medio Oriente in cui le le frontiere potevano essere attraversate facilmente e i Paesi erano definiti non dalle loro barriere, ma dalla loro apertura e dalla prossimità gli uni con gli altri. L’allora re di Giordania Hussein parlava apertamente di questa speranza e geografia, in occasione della cerimonia di firma dell’accordo di pace tra Giordania ed Israele che condusse al valico di frontiera Wadi Araba con il villaggio di Eilat da una parte ed il suo omologo giordano, Aqaba, dall’altra: “Dietro a noi qui vedete Eilat e Aqaba – il modo in cui abbiamo vissuto per anni, così vicini, incapaci di incontrarci, di visitare gli uni gli altri, di sviluppare questa bellissima parte del mondo, non esiste più”. Questa visione non fu mai pienamente realizzata, ma qualcosa è cambiato.

Ciò che sta prendendo forma è quello che l’ala destra di Israele ha sempre voluto: una pace economica. Gli accordi di normalizzazione che Israele ha concluso con gli Emirati Arabi uniti lo scorso mese e con il Bahrain la scorsa settimana, ne sono la prova pratica.
Entrambi gli accordi, mediati dall’amministrazione Trump, sono pubblicizzati come accordi di pace, sebbene Israele non sia mai stato in guerra con gli Emirati Arabi Uniti e neanche con il Bahrain.

Negli ultimi anni, dietro le quinte del grande palcoscenico delle relazioni internazionali ci si è mossi verso un’alleanza de facto, unitamente alla cooperazione con l’Iran, che ha coltivato dei legami economici intesi a durare per molto più a lungo dell’accordo in sé.

Israele ha ottenuto piene relazioni diplomatiche con gli Emirati Arabi Uniti, un Paese arabo del Golfo potente e ricco di petrolio, in cambio di fermare l’annessione pianificata di West Bank.

Ma né gli israeliti né gli emirantensi sono ancora realmente d’accordo su cosa si sono accordati. Il primo ministro Netanyahu ha insistito che l’attesa per l’annessione è solo “temporanea”, probabilmente nel tentativo di tranquillizzare il movimento dei coloni di estrema destra il cui sostegno gli è ancora necessario.

Gli Emirati hanno assunto l’accordo di normalizzazione come la fine di ogni opportunità di annessione di West Bank da parte di Israele.

Come parte dell’accordo l’amministrazione Trump ha promesso agli Emirati che gli Stati Uniti non riconosceranno nessuna annessione israeliana di West Bank non prima del 2024.


Il cuore dell’accordo non è proprio su questo; é sulle aerovie (tra gli altri benefici economici).

Quando Jared Kushner, il genero di Trump incaricato per gli accordi con il Medio Oriente, capeggiava una delegazione americana ed israeliana in un volo di inaugurazione sulla compagnia area nazionale israeliana, El Al, da Tel Aviv a Abu Dhabi, il primo volo commerciale diretto tra i due Paesi, il messaggio era piuttosto ovvio.

Un Medio Oriente dove una manciata di Paesi vivono l’uno accanto all’altro, con una storia di conflitto alle spalle, l’apertura delle loro frontiere, ha lasciato il posto al profitto: nuove aerovie tra Israele e monarchie arabe del Golfo. Nuovi aerei da caccia americani e naturalmente tutti i tipi di commercio, con legami commerciali pronti a prosperare tra Israele – la nazione che avvia – gli Emirati Arabi Uniti pieni di petro-dollari e altre ricchezze che hanno reso Dubai ed i suoi autocrati dei potenti attori regionali.

L’accordo di normalizzazione con il Bahrain è molto simile, ad eccezione del fatto che Israele ha rinunciato a molto meno. Questo accordo manca persino del pretesto dello scambio di una “terra di pace”.


L’Iniziativa di Pace araba, sostenuta dalla Lega Araba nel 2002, significava offrire ad Israele la prospettiva di pace e la normalizzazione con l’intero mondo arabo, in cambio del ritiro di Israele da tutti i territori occupati dal 1967 e la creazione di uno Stato palestinese con la sua capitale a Gerusalemme est.

Oggi tutto ciò sembra solo un paragrafo di un libro di storia, invocato dai ministeri degli esteri arabi quasi fosse una reliquia.


Questa nuova visione “trumpiana” per la cosiddetta pace nel Medio Oriente – tra Paesi che non sono stati in guerra, in cui l’occupazione di Israele di West Bank sembra essenzialmente perpetua, con la benedizione americana – è fieramente articolata in ciò che l’amministrazione Trump pubblicizza con lo slogan “Pace per Prosperità”.

Questa proposta per la pace, se si può realmente chiamare così,
favorisce in modo palese Israele e la sua occupazione di West Bank come mai è stato fatto da nessuna precedente iniziativa americana.

Questo accordo si legge più come uno schema di mercato immobiliare: una promozione di miliardi in investimenti.
E i palestinesi? Non certo si sentono confortati da questa visione miope del Medio Oriente, formalizzata dalla Casa Bianca che li lascia più abbandonati che mai.

Pare proprio che ciò che sia normalizzato sia la visione miope del Medio Oriente e che la conseguenza di questo processo sia solo la marginalizzazione di ciò e di chi è visto “anormale” da altri.

Dicembre 12 2017

Gerusalemme, Trump, Israele e quel modo di riplasmare la realtà

Gerusalemme

 

Al momento non è possibile dire con certezza quanto ampio sarà  il contraccolpo  generato dalla decisione di Trump di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme e riconoscere Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele.

A livello regionale questo avvenimento sarà mitigato dai regimi che non vogliono concedere alcuna possibilità di dimostrazioni di ampia scala che possano sfuggire dal loro controllo, specialmente dopo quello che è accaduto con le Primavere arabe.

Ironicamente l’opposizione alla decisione di Trump ha posto l’Arabia Saudita e l’Iran dalla stessa parte  per la prima volta dopo molto tempo.

È possibile prevedere, ragionevolmente, che accadranno disordini e il malcontento crescerà, ma le implicazioni dell’annuncio di Trump vanno ben oltre quello che accade nelle strade.

Se ci si concentrasse su quanto le reazioni immediate siano “infiammatorie” si rischierebbe di perdere il punto:

la decisione di Trump di riconoscere unilateralmente Gerusalemme non solo danneggerà le prospettive di pace e la posizione nel mondo degli Stati Uniti, ma nuocerà al diritto internazionale e stabilirà un precedente per il futuro, negativo e con un potenziale devastatore.

Dalla dichiarazione di Trump risulta abbastanza palese che il Presidente degli Stati Uniti spera di evitare queste implicazioni allorquando concede una piccola rassicurazione: gli Stati Uniti riconoscono Gerusalemme come la capitale di Israele, ma non necessariamente le frontiere della sovranità che Israele ha definito. Trump dichiara: “non stiamo prendendo una posizione sulle questioni dello status finale, incluse le specifiche frontiere della sovranità di Israele a Gerusalemme o la risoluzione della controversia sulle frontiere contestate“.

Assume un’importanza fondamentale e non dovrebbe essere sottovalutato il fatto che Israele ha passato gli ultimi 50 anni, dalla sua occupazione militare di West Bank iniziata dopo la guerra del 1967, a plasmare la realtà in flagrante violazione del diritto internazionale e del consenso internazionale.

Ciò include l’annessione unilaterale da parte di Israele dell’est Gerusalemme nel 1967 e l’espansione delle frontiere municipali in profondità nei territori palestinesi.

Il resto del mondo ha rifiutato con decisione di riconoscere queste mosse per mezzo secolo per una buona ragione: perché implicano l’acquisizione di territori attraverso la guerra, la costruzione di insediamenti a Gerusalemme, il trasferimento di israeliani nei territori occupati e la demolizione delle case dei palestinesi. Perché riconoscere queste realtà significa essenzialmente tollerare le violazioni del diritto internazionale, incluse le Convenzioni di Ginevra e numerose risoluzioni delle Nazioni Unite.

Va comunque detto che fissarsi sulla lista delle violazioni tende ad oscurare l’insieme di ciò che ha compiuto Israele: fabbricare una nuova Gerusalemme distinta da quella che ha catturato nel 1967, una città che calza nell’immagine che sta cercando di vendere al mondo e che Trump ha giust’appunto comperato. Essa è un’immagine di una città enormemente ebrea con un diretto, ininterrotto collegamento al passato biblico di cui i palestinesi non possono rivendicarne la legittimità.

Allo scopo di sostenere una tale realtà si deve dire al mondo che le violazioni di cui abbiamo parlato poco fa, incluso il cambiamento demografico di Gerusalemme operato con la forza, sono solo sbagliate al momento, ma che una volta che sono state compiute, esse sono accettabili. E se il mondo non è attento, non si dovrà attendere molto fino a quando Israele non avrà raggiunto lo stesso obiettivo nell’intera West Bank e gli Stati Uniti mostreranno il loro consenso anche a questa “realtà”.

Chi è il più contento? Il primo ministro israeliano B. Netanyahu e la politica che egli rappresenta. L’ala destra israeliana non ha mai voluto le negoziazioni, un processo di pace o uno Stato palestinese e non ne ha mai fatto segreto. La sua ideologia sottostante, stabilita dal leader Ze’ev Jabotinsky prima della creazione dello Stato di Israele è quella di creare una realtà sul terreno tale per cui gli arabi dovranno arrivare ad accettarla, una strategia conosciuta come il “muro d’acciaio“: portare i palestinesi a capitolare e non a negoziare in nome di questo “gioco”.

Senza esercito e senza sovranità, i palestinesi non esercitano alcuna influenza al tavolo di negoziazione con Israele. Tutto ciò che hanno è il diritto internazionale da una parte e quello che si suppone sia un arbitro neutrale dall’altra. Con la sua decisione su Gerusalemme Trump ha rapidamente eliminato entrambe le opportunità. Adesso tutto ciò che i palestinesi hanno è la loro abilità di non accettare i termini che sono stati imposti loro o semplicemente andarsene.
E forse questo è il vero scopo di quello che è accaduto nella scorsa settimana: di ammorbidire le aspettative e spostare la responsabilità attorno a quello che non tanto tempo fa Trump chiamava ottimisticamente il suo “sommo accordo” tra israeliani e palestinesi.

Trump, come molti presidenti americani prima di lui, hanno sottovalutato l’importanza che Gerusalemme rappresenta per coloro che sono in Palestina e nella Regione.

Per i palestinesi, l’est Gerusalemme non è semplicemente la capitale desiderata per il loro Stato futuro, ma una componente centrale della loro identità e della loro connessione con la terra. Questo tipo di legame non può essere facilmente spezzato.

Sul terreno a Gerusalemme, la decisione sicuramente scatenerà confronto e spargimento di sangue. Quest’anno, l’idea che Israele avrebbe alterato lo status quo della moschea Al-Aqsa inserendo delle telecamere di sicurezza e dei metal detectors ha scatenato settimane di disordini e dimostrazioni che hanno portato la città sull’orlo di un nuovo confronto violento.

Se Trump si aspetta che i palestinesi nelle strade si plachino per poche linee conciliatorie del suo goffo discorso, allora ha terribilmente sottovalutato cosa significhi per loro essere spogliati del diritto che la città rappresenta per loro.

Tuttavia data la reazione dei palestinesi, il più grande fattore a cui dedicare attenzione è il progetto di Israele di ri-plasmare i fatti sul terreno e il consenso di Trump ad esso.