Giugno 24 2017

Jihadismo: comprendere il fenomeno dai suoi stessi termini

jihadismo

L’obiettivo è quello di spiegare il jihadismo come fenomeno in se stesso, esaminando attentamente la natura e i contorni di tale movimento così come si è sviluppato nel corso del tempo e continua a svilupparsi. Per fare ciò è necessario conoscere il jihadismo nei suoi stessi termini, non in quelli di qualche altra rappresentazione.

L’etichetta “jihadista” è indicativa di un movimento riconoscibile nel moderno Islam sunnita. Lo “Stato islamico” ed Al Qaeda sono le sue principali espressioni organizzative, ma il movimento jihadista è molto più grande della somma di queste parti.

Il jihadismo è principalmente un’ideologia distinta da una particolare serie di idee elaborate da rinomati studiosi e ideologhi. È anche una cultura con la sua poesia, musica, interpretazione dei sogni.

Il principio cardine del jihadismo è abbastanza semplice: i regimi del Medio Oriente sono governati da apostati non credenti che devono essere rovesciati e rimpiazzati con un vero governo islamico.

Tuttavia l’ideologia va molto più in profondità di questo:

è un sistema di pensiero grandemente sviluppato con radici che affondano in alcuni aspetti della tradizione islamica. Gli jihadisti sono profondamente intolleranti verso i musulmani che non condividono le loro visioni, inclusi gli islamisti sunniti come i Fratelli Musulmani e Hamas.

Dagli attacchi dell’11 settembre 2001, la tendenza in occidente è stata di parlare di jihadisti in termini che non sono i loro propri. I dibattiti si sono concentrati su “terroristi” ed “estremisti violenti”, “islamisti”, “islamisti estremisti”.

L’errore occidentale

Vediamo quali sono i risvolti negativi nel concentrarsi nell’utilizzo di termini come “guerra al terrore” e di tutte le sue derivazioni.

Prima di tutto, il terrorismo non è un avversario nel senso militare. È una tattica violenta utilizzata da tanti tipi di attori. Un paese può essere in guerra con i terroristi ma non con il terrorismo, e sicuramente non con il terrore.

Un secondo lato negativo è che il terrorismo è difficile da definire e incline alla politicizzazione. Mentre il significato basilare potrebbe essere “una violenza politicamente motivata condotta da attori non-statali e intesa a infondere la paura”, non esiste una definizione univoca basata sul consenso della comunità internazionale.
A titolo di esempio il Routledge Handbook of Terrorism Research elenca 250 definizioni proposte da vari ricercatori, governi e organizzazioni. Come si nota nel manuale, il concetto di terrorismo è stato politicizzato a un tale grado che è praticamente senza significato. È evocato da governi per delegittimare un nemico, per radunare membri attorno ad una causa, per mettere a tacere o plasmare il dibattito politico e raggiungere agende differenti. Questo è assolutamente vero nel Medio Oriente. Bashar al-Assad, come è noto, si riferisce a tutti i suoi oppositori locali nella guerra civile con il termine “terroristi”.

Nel contesto del jihadismo, l’idea di terrorismo porta con sé altri due importanti aspetti negativi.

Il primo è che il terrorismo non è la ragione d’essere dei jihadisti. Il terrorismo è meramente una tattica nel paniere degli strumenti dei jihadisti per raggiungere i loro obiettivi più ampi. (paniere che include la conquista di territori e la formazione di uno Stato).

In secondo luogo, i jihadisti alle volte sono orgogliosi della parola terrorismo (tradotta in arabo irhab), dal momento che si presenta nel Corano in un passaggio a proposito della guerra. Nel verso pertinente (8:60), Dio incoraggia i primi musulmani ad inspirare timore nei loro nemici: “e siate pronti per loro con qualsiasi forza e serie di cavalli che potete per terrorizzare in tal modo il nemico di Dio e il vostro nemico, e altri tra loro di cui voi non sapete, ma che Dio conosce”. I jihadisti sostengono che perciò l’Islam non solo permette il terrorismo, ma che lo incoraggia. L’etichetta terrorista può essere indossata come un distintivo d’onore.

Estremismo violento

Cosa vuol dire estremismo violento?
Concettualmente, “estremismo violento” patisce la genericità. Mentre i suoi promotori correttamente pongono l’enfasi sull’ideologia, sono stati sempre riluttanti nel concentrarsi su un’ideologia in particolare. In questo modo il concetto di “estremismo violento” comprende una vasta gamma di attori sgraditi, dagli estremisti di estrema destra agli eco-terroristi, ai jihadisti. Spesso questo concetto suggerisce che coloro che sono stimolati all’estremismo violento siano mentalmente instabili, socialmente disconnessi o delusi. Sebbene questi fattori siano importanti, in linea di massima il jihadismo non dovrebbe essere visto come un movimento deteriorato razionalmente. Esso ha una ideologia coerente e logica e richiama ampiamente i sani. Non è irrazionale, un radicalismo amorfo.

Islamismo

Islamismo è un termine onnicomprensivo di una varietà di movimenti politici islamici moderni. Non può essere messo allo stesso livello con il jihadismo.

Tutti i jihadisti sono islamisti, ma pochi islamisti sono jihadisti.

Islamismo si riferisce a quei movimenti che cercano di accrescere in una qualche maniera il profilo politico dell’Islam, solitamente attraverso l’ “implementazione della sharia” o legge islamica. Malgrado l’accordo su questo obiettivo generale, gli islamisti discordano ampiamente.

La maggior parte, per esempio, sono favorevoli a lavorare nel moderno quadro di nazione-stato, che solitamente significa partecipare alle elezioni. I Fratelli Musulmani egiziani e il partito giustizia e sviluppo turco sono esempi di movimenti sunniti islamisti che hanno avanzato i loro interessi attraverso il mezzo delle urne elettorali. Ci sono anche esempi di tendenze autocratiche di questi movimenti.

Il punto basilare è che islamismo non è un fenomeno indifferenziato.

Il Jihadismo è una  sotto-categoria dell’islamismo sunnita con un approccio unico alla religione e alla politica.

L’identità jihadista è definita in opposizione all’islamismo convenzionale dei Fratelli Musulmani e del AKP. I jihadisti considerano questi gruppi profondamente fallaci nella metodologia e nella fede, troppo tolleranti nei confronti dei musulmani “ribelli” come gli sciiti e i governanti autocrati ritenuti eretici e troppo favorevoli a lavorare nelle strutture statali per raggiungere i loro obiettivi.

L’approccio dei jihadisti è fissato proprio in contrapposizione a queste imperfezioni: un monoteismo rigido, con un impegno incrollabile per la lotta armata, o jihad, contro lo Stato e tutti coloro che sono ritenuti non credenti. Questo rifiuto è il loro marchio, inquadrato attorno al credo del monoteismo e alla metodologia del jihad.

Breve storia della nascita del movimento jihadista

Il movimento jihadista attuale può essere tracciato a partire dal 1960, in Egitto. Una repressione nei confronti dei Fratelli Musulmani iniziata negli anni ’50 ha dato vita a spaccature radicali ispirate dagli scritti di uno dei leader della Fratellanza: Sayyd Qutb.

Prima della sua esecuzione nel 1966, Qutb formula una versione più rivoluzionaria ed elitaria del pensiero della Fratellanza. Influenzato dalle idee dell’indo-pakistano Abu al-A’la Mawdudi, Qutb asseriva che la moderna società islamica era regredita a jahiliyya, un termine coranico che indica l’età dell’ignoranza e dell’idolatria che prevaleva in Arabia prima della crescita dell’Islam nel diciassettesimo secolo. I musulmani hanno cessato di essere veri musulmani per aver fallito di attribuire la sovranità a Dio e, secondo Qutb, hanno attribuito la sovranità ad altri esseri umani, impegnandosi in pratiche innovative come tenere elezioni, formare parlamenti e approvare leggi non rivelate da Dio.
La corrente principale dei Fratelli Musulmani si distanziò dalle visioni di Qutb, ma il pensiero di quest’ultimo influenzò le formazioni che si erano staccate dalla Fratellanza negli anni ’60 e ’70. Una di queste fu il Gruppo Jihad che assassinò il presidente Anwar Sadat nel 1981 in un atto che segnò un altro importante cambiamento ideologico.

Assassinio del presidente egiziano Anwar Sadat come cambiamento ideologico.

Questo accadimento segnò l’inizio dello sviluppo di una dottrina di jihad come ribellione contro governanti del tipo di A. Sadat, delineata dal leader del “gruppo jihad” Abd al-Salam Faraj. In un suo breve libro “l’assenza dell’impegno”, Faraj articola un razionale giuridico per il jihad rivoluzionario radicato nella nozione tradizionale del jihad difensivo.

Nel discorso giuridico tradizionale sunnita islamico, il jihad si articolava in due tipologie: jihad offensivo (jihad al-talab) e difensivo (jihad al-daf’). Il jihad offensivo era inteso come un dovere collettivo; fin quando alcuni sono impegnati in esso, il resto è esentato dall’esserlo.

In circostanze ideali, un califfo procedeva al jihad offensivo almeno una volta all’anno allo scopo di espandere le frontiere della fede.

Il jihad difensivo era considerato un dovere individuale che spettava a tutti i musulmani di robusta costituzione; quando il regno dell’Islam era sotto attacco esterno, tutti erano obbligati ad andare in difesa della comunità.

Faraj presentò la resistenza al governo egiziano come jihad difensivo, asserendo che dal momento che il presidente non governava attraverso la legge di Dio, il suo stato era quello di un aggressore infedele. Si affidava ad una serie di fatwa dello studioso Ibn Taymiyya, che famosamente giudicò i leader mongoli che invasero il Medio Oriente come non credenti per non essere riusciti a governare in armonia con la legge di Dio.

Faraj applicò la stessa logica all’Egitto moderno e questa è stata la base per la violenza jihadista contro i governi locali da allora in poi.

L’ultimo sviluppo ideologico è stata l’adozione da parte dei jiahdisti dei principi del salafismo, un movimento purista nell’Islam sunnita associato con Ibn Taymiyya e con il movimento wahhabita in Arabia, che risale alla metà del diciottesimo secolo. Il salafismo ha portato al movimento jihadista un punto fondamentale sul credo corretto: monoteismo stretto e intollerante, elaborato da Ibn Taymiyya e dai wahhabiti. Con questo movimento purista giunge il requisito della scomunica (takfir) dei musulmani che hanno visioni in contrasto con la teologia salafita.

Il salafismo jihadista fornì il quadro all’interno del quale il terrorismo contro l’occidente fu teorizzato e giustificato. Cospirazioni e attacchi come quello del 9/11 erano concepiti come parte di un piano più grande per rimuovere i governanti “apostati” nella regione.

La spaccatura all’interno del movimento jihadista.

Il movimento jihadista è sembrato piuttosto unito prima della crescita dell’IS nel 2013. Organizzativamente, al-Qaeda sembrava al commando con un sostegno ampio nel movimento con il controllo di rami locali dal Nord Africa allo Yemen.
La spaccatura tra AQ e IS iniziò nel 2014  anticipata da dispute precedenti tra i jihadisti.
La divisione basilare appare nella prima decade del 2000 in Iraq. Abu Mus’ab al-Zarqawi  con una rigida inclinazione dottrinale, era a capo del gruppo che nel 2004 diventa al Qaeda in Iraq. Malgrado il giuramento di fedeltà ad AQ, Zarqawi era in contrasto con esso in molte maniere. Il suo più grande rigore dottrinale era la visione degli sciiti iracheni come politeisti, concezione che alimentò una guerra civile sunnita-sciita attraverso una violenza settaria di massa.

Malgrado la leadership di AQ redarguì più volte Zarqawi egli ignorò gli ordini e proseguì nella sua strada.

Le stesse questioni di teologia e violenza ricomparvero pochi anni più tardi quando l’IS in Iraq annuncia l’espansione in Siria, nella primavera del 2013. L’annuncio del suo leader Abu Bakr al-Baghdadi di proclamare lo Stato Islamico di Iraq e Siria e l’intenzione di incorporare il gruppo jihadista siriano Jabhat al-Nusra fece accelerare la frattura con AQ. Benchè Zawahiri (leader di AQ) avesse impartito precise istruzioni a Baghdadi di restare in Iraq, il leader del IS rispose che Zawahiri non aveva autorità sulla sua organizzazione e non l’avrebbe mai avuta. L’anno successivo Baghdadi annuncia il ritorno del califfato rinominando il suo gruppo “Stato islamico” e affermando la giurisdizione globale su tutto il mondo musulmano.
Nel 2014 e 2015 le divergenze tra i due gruppi crescono. Con l’aumento dei livelli di violenza dell’IS, alcuni di essi diretti contro AQ stessa, Zawahiri – assieme a molti studiosti jihadisti, denunciano l’IS come estremisti o Kharijites, in riferimento alle prime sette radicali nell’Islam. L’IS risponde etichettando AQ e i suoi sostenitori come “gli ebrei del jihad”. La divisione diventa incolmabile.

Contrastare il jihadismo

Il jihadismo non può e non deve essere confuso con l’Islam in generale. Neppure dovrebbe essere confuso con il più grande fenomeno dell’Islamismo. È un movimento distinto, non solo discernibile, ma anche cosciente e orgoglioso della sua separazione. Sebbene i jihadisti ammettano adesso delle divisioni, il jihadismo pone ancora una sfida unica e pressante. Esso è rivoluzionario, sostenuto da un fervore ideologico, è ha visto una tremenda crescita nella passata decade e mezza.
In termini di seguito numerico, i progressi del jihadismo sono veramente sorprendenti.
I numeri esatti sono difficili da determinare, ma gli aderenti al jihadismo si possono contare in decine di migliaia concentrati negli Stati arabi. Questi numeri includono anche coloro che scelgono di non imbracciare le armi da subito, preferendo un ruolo di sostegno da casa, ad esempio.

Sarà una lunga lotta quella contro il jihadismo, ma è necessario avere come punto di partenza la comprensione del nemico nei suoi stessi termini.

Aprile 29 2016

Boko Haram: l’erba cattiva non muore mai

Boko Haram

Boko Haram, come altre organizzazioni simili, ha in sé una sorta di genialità: avanzare verso obiettivi politici attraverso il raggiungimento di enormi effetti psicologici con il minor investimento di risorse possibile.

In realtà quello che aiuta questi gruppi nel recuperare dalle sconfitte militari è la mancanza di attenzione che si dedica alle questioni principali che li sottendono e li fanno crescere.

Verso la fine del marzo di quest’anno, in Italia, rimbalza su tutti i mezzi d’informazione un video in cui Boko Haram dichiara di arrendersi. Chiaramente malgrado la stampa internazionale abbia deciso di non diffondere il video in attesa della conferma dell’autenticità dello stesso, in Italia si dice sempre di tutto. Il gruppo estremista però non tarda a diffondere un video in cui dichiara che non si arrenderà mai. Quest’ultimo video non viene peraltro diffuso in Italia, tanto per lasciare il pubblico nella confusione.

Chi è Boko Haram?

Eccovi una scheda riassuntiva.

Boko Haram

 

Boko Haram è ancora una minaccia

Malgrado i rapporti che dicono che Boko Haram sia stato allontanato da tutti i territori che controllava all’inizio del 2015, il gruppo continua a porre una seria minaccia alla sicurezza delle popolazioni dei quattro paesi attorno al lago Chad: Nigeria, Niger, Camerun e Ciad. Le organizzazioni internazionali hanno difficoltà ad accedere alle aree dei 26 governi locali nel nord Adamawa, sud Borno e est Yobe, più del 30%  della nord est rurale della Nigeria, a causa della persistente presenza dei militanti di Boko Haram.

Oggi Boko Haram assomiglia più ad un’impresa criminale piuttosto che a un gruppo jihadista. Coloro che vivono nei territori controllati dal gruppo, dichiarano che molti degli appartenenti all’organizzazione estremista conoscono solo in maniera rudimentale l’ideologia del gruppo stesso. Radicato nell’influenza, sin dal 2009, del nuovo leader Abubakar Shekau, questa metamorfosi è iniziata con l’espulsione nel 2013 di jihadisti dalle roccaforti urbane a Borno ad opera del personale di sicurezza nigeriano e di vigilanti indigeni conosciuti come Civilian Joint Task Force. In risposta Boko Haram ha iniziato a lanciare raid punitivi sulle comunità che sospettava appoggiassero i vigilanti. Boko Haram si è trovato ad operare in città e villaggi le cui popolazioni non erano musulmane e neanche mosse da visioni di un violento Islam come quelle del gruppo. Per cui Boko Haram ha dovuto ricorrere sempre di più a incentivi materiali, coercizione, rapimento dei minori per riempire i suoi ranghi, cambiando fondamentalmente la composizione del movimento. Malgrado il loro territorio invaso e le linee di comunicazione compromesse, le figure più anziane del gruppo sopravvissute sono ancora attive e per la maggior parte si sono ritirate nei boschi. Lì pare che abbiano abbandonato tutte le pretese di essere impegnati in una guerra santa, saccheggiando le comunità rurali lasciate senza la protezione dell’esercito nigeriano.

La visibile assenza di un fervore ideologico tra i combattenti di Boko Haram non presagisce necessariamente la caduta del gruppo. Esiste ancora un cuore jihadista determinato a portare avanti la sua lotta contro la Nigeria ed i suoi vicini. Al di là di questi fanatici ci sono numerosi ribelli che, mentre forse non sono interessati nel condurre il jihad, restano fedeli all’alto comando di Boko Haram. Le unità individuali di Boko Haram godono di un grado di autonomia operativa che gli permette di conservare la loro coesione e le capacità militari anche quando isolate da gruppi militanti. La distruzione delle linee di rifornimento di Boko Haram ha creato delle sfide logistiche per il gruppo, anche se saccheggiare le comunità vulnerabili ha in qualche modo mitigato questo fatto. E malgrado le recenti sconfitte, Boko Haram non ha sofferto di defezioni in larga scala. Questo ci suggerisce che i militanti di Boko Haram conservano un senso di solidarietà di gruppo oppure che hanno paura di violente rappresaglie da i loro compatrioti o dalle forze di sicurezza nigeriane.

La locazione dei rifugi di Boko Haram, particolarmente la foresta Sambisa, lago Ciad, le montagne Mandara lungo la parte nord della frontiera Cameroon – Nigeria, presenta un grande ostacolo alle operazioni per contrastarli ed eliminarli. Nel loro inaccessibile territorio, queste aree hanno ospitato a lungo gruppi che cercano di evitare il controllo dello stato, sette islamiche dissidenti, tribù, banditi.

A pagare il prezzo sono le comunità distrutte

Per le comunità distrutte, abbandonate a sé stesse nel migliorare i fattori socio – economici, sarà impossibile ricostruire la loro vita, soprattutto se continua la depredazione ad opera di Boko Haram.

La presidenza Buhari è appesa a due minacce: Boko Haram e la corruzione che sottrae linfa vitale alle fondamenta del governo nigeriano e alla società.  Tuttavia, avendo fallito nel riconoscere i due fenomeni e le loro connessioni ci sembra che abbia esigue possibilità di successo.

Mettere in sicurezza il nord – est richiede un livello di presenza dello stato senza precedenti nella regione. Presenza che l’amministrazione Buhari non sembra dare, a parte aver dichiarato che Boko Haram è stato sconfitto, ed esprimere il desiderio di iniziare a ricollocare più di 2 milioni di Internally Displaced Persons, anche se molto del nord est non è colpito dal conflitto. Buhari con la sua pressione sugli aspetti militari del contro – estremismo sta facendo lo stesso errore degli americani che uccidono i combattenti, che sono il sintomo e non la malattia.

Curare il sintomo e non la malattia

Il principale elemento chiave sottostante a Boko Haram è la corruzione.  Un decennio di ricerca sulle motivazioni dei gruppi estremisti dimostra che la povertà non è correlata alla probabilità di unirsi a queste tipologie di gruppi. Una governance inefficiente, l’ingiustizia, specialmente quando combinate con profonde fratture sociali, sono invece motivazioni che spingono gli individui a far parte di queste organizzazioni.

A marzo 2016, il Benin annuncia che contribuirà con 150 soldati alla Multinational Joint Task Force (MJTF), una coalizione dell’Africa occidentale la cui missione è quella di combattere Boko Haram. La Task Force ha approssimativamente un totale di 9,000 truppe, ciononostante è un appoggio primariamente politico piuttosto che un gruppo militare integrato. Le forze armate nazionali perseguono le loro campagne: esplicitamente supportano la narrativa della cosiddetta “soluzione africana ai problemi dell’Africa”, ma implicitamente facilitano il coinvolgimento occidentale nella battaglia contro Boko Haram, spesso su base bilaterale. L’approccio regionale rafforza anche le posizioni politiche di governanti autoritari nella regione.

La MNJTF resta una buona idea in principio: Boko Haram è diventato un problema regionale; tuttavia da un punto di vista politico rimane un’ennesima distrazione rispetto alle situazioni e problematiche oggettive dell’Africa Occidentale.