Maggio 12 2017

Se in Afghanistan la vera minaccia non fosse lo “Stato islamico”?

minaccia

L’Afghanistan è un problema perfido, intricato e quasi incomprensibilmente complesso con una crescente e grande varietà di soggetti che giocano un qualche ruolo o che hanno degli interessi in ballo. All’interno dell’Afghanistan c’è un miscuglio di attori con obiettivi divergenti ed incompatibili.

Il Generale americano Nicholson ha chiesto, a febbraio, al senato americano truppe aggiuntive e l’amministrazione Trump sta considerando di dispiegarne 5,000 in più rispetto alle 8,400 unità già presenti nel paese. Potrebbe essere abbastanza per prevenire il collasso del governo, ma non risolverebbe i problemi chiave del paese.

All’inizio di questa settimana il Pentagono ha confermato che Abdul Hasib Logari, uno dei maggiori comandanti dello “Stato islamico” (IS) in Afghanistan è stato ucciso. Si è trattato di un’operazione congiunta tra Stati Uniti  e Afghanistan nell’est del paese condotta alla fine di aprile. In questa operazione sono stati uccisi due Rangers americani, in seguito è stata lanciata la GBU-43/B la Massive Ordnance Air Blast Bomb (MOAB) su una complessa rete di tunnel dell’IS. Questa bomba rappresenta la più grande arma convenzionale nell’arsenale americano e ha rappresentato una drammatica intensificazione delle operazioni americane contro l’IS -Provincia Khorasan.

Gli ufficiali militari americani hanno spiegato che è la deterrenza l’obiettivo di queste operazioni: impedire che la leadership dell’IS si ricollochi in Afghanistan a seguito della pressione che sta subendo in Iraq e Siria.

Il portavoce della Casa Bianca ha descritto la sconfitta dell’IS come una priorità principale della strategia dell’amministrazione Trump in Afghanistan.

La minaccia posta dal gruppo estremista al governo di unità nazionale guidato dal presidente Ashraf Ghani e agli interessi americani nella regione è relativamente bassa paragonata a quella attuale rappresentata dai Talebani, per non menzionare le fragili e deboli dinamiche politiche, la mancanza di risorse adeguate che flagellano gli sforzi del governo afgano per riprendere il controllo del paese.

Il fulcro della leadership dell’IS-Provincia di Khorasan in Afghanistan era centrata attorno ad una fazione scissionista di Tehreek-e-Taliban (TTP).  Se da un lato è verosimile preoccuparsi che l’IS-Provincia di Khorasan stia reclutando nei centri urbani dell’Afghanistan,  dall’altro molti rapporti indicano che i militanti locali spostano la loro affiliazione dai Talebani verso l’IS-Provincia di Khorasan su linee opportunistiche o di “semplice” disaffezione.

Tuttavia oggi l’organizzazione di Abu Bakr al-Baghdadi rimane accentrata nelle montagne Nangarhar, dove gli Stati Uniti e le forze afghane hanno lanciato ripetute operazioni durante lo scorso anno. La più recente valutazione della NATO, prima dell’attacco con MOAB, indica che il gruppo estremista può contare su circa 700 militanti nel paese, meno delle svariate migliaia stimate nel momento del punto più alto di capacità del gruppo stesso.

La pressione esercitata sul gruppo a Nangarhar ha avuto come risultato che l’IS-Provincia di Khorasan abbia spostato in maniera crescente  le sue azioni verso una strategia di attacchi di alto profilo, nella capitale Kabul, con moltissime vittime; prima avendo come obiettivo la minoranza sciita e più recentemente attaccando l’ospedale militare. In Pakistan il gruppo ha anche condotto un certo numero di attacchi bomba in luoghi sacri e su altri obiettivi primari civili, in alcuni casi apparentemente di concerto con gruppi secessionisti dei Talebani e altri militanti locali.

La minaccia  di lungo termine dell’IS in Afghanistan è limitata

Sebbene i militanti dell’IS-Provincia di Khorasan continuino a lottare contro le forze afgane e americane, la minaccia di lungo termine di questo gruppo allo stato afgano appare essere limitata, dato la sua estensione ristretta all’interno del paese e la competizione che deve affrontare per il reclutamento ed il sostegno da parte di altri gruppi militanti in Afghanistan.

I Talebani sono molto più robusti dal punto di vista sociale, finanziario ed amministrativo e godono di strutture militari a rete e del sostegno delle agenzie di sicurezza pakistane.

Fondamentalmente i Talebani pongono una minaccia di gran lunga superiore al governo afgano rispetto all’IS.

Malgrado l’impegno “comune” per un governo islamico e l’opposizione al governo afgano e ai suoi sostenitori internazionali, i Talebani e i militanti dell’IS si sono affrontati ripetutamente nel paese. Nelle ultime settimane si sono scontrati talmente tanto che la presa dell’IS a Nangarhar sembra si stia indebolendo.

La visione strategica dell’amministrazione Trump oscilla tra l’approccio istintivo di Trump e la pressione dei militari per continuare ad usare solo la forza armata.

L’odierna revisione da parte dell’amministrazione Trump della strategia americana in Afghanistan pare proprio che stia considerando un rilancio del sostegno finanziario e di consulenza al governo afgano e alle forze di sicurezza così come la scomparsa di alcune restrizioni operative sulle forze americane, delegando più autorità sulla questione del targeting e sul processo decisionale sul campo.

La mancanza di restrizioni operative potrebbe essere già cosa fatta, perché molti rapporti sui recenti attacchi contro l’IS suggeriscono che siano stati condotti dai comandanti americani sul campo piuttosto che dietro ordine dei politici di Washington.

Il rischio tuttavia è alto: questo tipo di approccio potrebbe fare in modo che le priorità tattiche di breve termine guidino la strategia americana senza avere chiara la fine. In altre parole si procede per risultati brevi sul campo senza aver pianificato null’altro e tanto meno una exit strategy.

Le bombe, le operazioni speciali, non sono la panacea a tutti i mali

Le sfide economiche, politiche e di sicurezza che affronta e deve affrontare il governo afgano, incluso il più resiliente e ampiamente diffuso gruppo estremista dei Talebani, sono troppo complesse per essere risolte attraverso un miglioramento di attacchi aerei o di operazioni speciali sebbene siano efficaci per colpire gli obiettivi. Per raggiungere una stabilità ampia e durevole, c’è bisogno di mettere in priorità l’impegno regionale diplomatico con gli Stati confinanti come il Pakistan, l’Iran, l’India e la Russia e allo stesso tempo spingere per una ripresa del processo di pace tra i Talebani e il governo afgano.

L’amministrazione Trump che ha nel paese un corpo diplomatico a corto di personale, con la minaccia di ulteriori tagli e una leadership di sicurezza nazionale che viene selezionata tra coloro che hanno più esperienza militare non può ignorare il bisogno di un consenso sulle regole politiche per la divisione del potere ed una struttura statale più sostenibile.

Dal più basso al più alto grado, i militari americani hanno un profondo interesse psicologico in Afghanistan, avendo dedicato molto alla stabilizzazione del paese in questi 16 anni. Una grande porzione dei militari americani, sia quelli che indossano ancora l’uniforme e sia quelli che sono tornati ad una vita civile, hanno perso i loro amici lì. Molti credono che lo sforzo parallelo condotto in Iraq abbia creato le condizioni di vittoria in quel paese, per vedere persi i loro sforzi dalla decisione politica di disimpegnarsi dall’Iraq. Questo influenza il loro modo di pensare rispetto all’Afghanistan e significa che molti militari con tutta probabilità consiglieranno Trump di continuare l’impegno afgano.

La minaccia di intensificazione militare potrebbe funzionare contro avversari come i regimi, ma ci sono pochissime indicazioni che questo funzioni con gruppi estremisti non statali.

Sebbene la strategia di sicurezza nazionale di Trump è ancora agli stadi iniziali, è già chiaro che questa amministrazione ha due vie distinte di approccio alle sfide e agli avversari. Una è di mandare un messaggio che gli Stati Uniti hanno l’abilità e, sotto la leadership di Trump, la volontà di intensificare se l’avversario non modera il suo comportamento. Questa è la via adottata da Trump per il Nord Corea, la Cina, l’Iran e la Siria. Il successo di questo approccio dipende totalmente dalla credibilità dell’intensificazione.

Le scelte sembrano essere due: perdere ora o perdere più tardi.

Aprile 8 2017

Psicopatologia e terrorismo

psicopatologia
Basta che un uomo odi un altro perché l’odio vada correndo per l’umanità intera.
(Jean-Paul Sartre)

Psicopatologia e terrorismo

Quello di cui vi volevo parlare oggi è il legame tra la psicopatologia e il terrorismo. Lo psicopatico è una persona il cui comportamento è caratterizzato da contenuti specifici e costanti i quali, a livello generale, rappresentano il rifiuto di conformarsi a norme sociali comunemente accettate. Non tutti gli psicopatici mettono in atto comportamenti violenti, ma la violenza è spesso la valvola di sfogo di tendenze aggressive e impulsive associate alla psicopatia. In modo analogo al terrorista, un individuo psicopatico presenta assenza di rimorsi o di senso di colpa per gli atti compiuti e una visione del mondo egoistica incompatibile con la capacità di provare una sincera preoccupazione per il benessere altrui. E’ facile presumere che la psicopatia sia associata al terrorismo e suggerire la presenza di un disturbo patologico nelle persone che mettono in atto volontariamente un comportamento terrorizzante. Tuttavia, la critica a tale assunto ha messo in risalto un’altra caratteristica associata al coinvolgimento in un’organizzazione terroristica: alla luce delle caratteristiche richieste da un’organizzazione terroristica ai propri membri per commettere tali azioni una delle prime descrizioni del terrorista, secondo una prospettiva psicologica (Cooper*), ha suggerito che il vero terrorista è privo di misericordia in quanto possiede una fede cieca nel proprio credo o si ritira in una follia confortante. Secondo Cooper, per sopportare le conseguenze delle proprie azioni i terroristi devono avere una coscienza isolata o un certo distacco dalla realtà.

La tesi della psicopatia è ancora limitata, vi sono scarse prove a sostegno dell’idea secondo cui i terroristi, da qualunque contesto provengano, possano o debbano essere considerati psicopatici.

Andres Breivik, giovane norvegese, nel luglio 2011 ha ucciso 77 persone tra i 15 e i 19 anni. è stato inizialmente ritenuto  affetto da schizofrenia paranoide, ma è stato dichiarato “sano di mente e quindi penalmente responsabile” da una controperizia, venendogli riconosciuto solo un elevato disturbo narcisistico della personalità.

L’appartenenza a un’organizzazione terroristica con membri fortemente motivati comporta stabilire relazioni strette e durature, fondamentali per rinforzare l’impegno nei confronti del gruppo e dei suoi ideali. L’egocentrismo patologico, comune nelle psicopatie, è in contrasto con le caratteristiche ricercate dai leader e dai reclutatori di organizzazioni estremiste: elevata motivazione, impegno, disciplina, capacità di rimanere affidabili e concentrati sull’obiettivo anche di fronte allo stress, ad una possibile cattura e alla reclusione.

Consideriamo un punto importante che può far luce su alcune dinamiche terroristiche: le vittime del terrorista spesso sono accidentali, scelte su una base puramente simbolica (cittadini “occidentali”, passeggeri di un velivolo, spettatori di una maratona, turisti ecc.). Se si considera il modo in cui un assassino sceglie le proprie vittime, la natura delle vittime del terrorismo è in netto contrasto con quella delle vittime di un assassino psicopatico. Le ragioni di quest’ultimo sono profondamente personalizzate, sostenute da fantasie elaborate. Taylor** sostiene a questo proposito che l’utilizzo di autobombe permette al terrorista di mantenere una certa distanza dalla vittima, il terrorista potrebbe in realtà non avere un’esperienza diretta e personale del danno e delle mutilazioni che causa.

Malgrado l’attrattiva esercitata da questo tema, i gruppi estremisti non dovrebbero essere considerati né come organizzazioni di soggetti necessariamente psicopatici a causa della brutalità delle azioni perpetrate né come gruppi che reclutano persone con tendenze psicopatiche.

*H.H.A Cooper, “The terrorist and the victim”,Victimology, 1976

**M. Taylor, The terrorist (London, Brassey’s),1988

Settembre 19 2016

Il terrorismo nega Dio: le mie riflessioni

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A chi fosse sfuggito ad Assisi dal 18 al 20 settembre si celebra il 30° anniversario del cosiddetto “Spirito di Assisi”. Il 27 ottobre 1986 l’allora Papa Giovanni Paolo II, oggi San Giovanni Paolo II, aprì la sorgente dello Spirito di Assisi che si è diffuso in tutti gli angoli del mondo. Incontri inter-religiosi, giorni di dialogo tra rappresentanti, fedeli di diverse religiosi per costruire un mondo migliore.

Abito ad Assisi oramai da tantissimo tempo e onestamente lo Spirito di Assisi appartiene a me come persona indipendentemente da dove mi trovo, probabilmente era questo che intendeva San Giovanni Paolo II, quando istituì questa giornata.

Un dialogo costante non solo tra i “capi delle diverse religioni”, ma tra tutti i fedeli ovunque nel mondo.

Dal 1986 al 2016 però il mondo è cambiato, il contesto come dicono i grandi pensatori, non è più lo stesso. Io, te, nessuno è uguale al 1986, non siamo forse nemmeno gli stessi di ieri figuriamoci di 30 anni fa.

Quello che vi propongo oggi sono spunti di riflessione, perché io dopo l’incontro – dibattito a cui ho partecipato, tornando a casa a piedi lungo la mattonata ho riflettuto a lungo.

Purtroppo non era possibile partecipare a più di un incontro la mattina e il pomeriggio perché quelli previsti in mattinata si sono tenuti tutti contemporaneamente alle 9:30 e quelli del pomeriggio tutti contemporaneamente alle 16;30.

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Il terrorismo nega Dio

Facendo la fila per entrare avevo grandi aspettative, come sempre quando si tratta di un argomento che studio, oggetto del mio lavoro quotidiano: il terrorismo internazionale. L’argomento legato a Dio, inteso (a mio avviso) come religione in senso generale, non una in particolare, mi entusiasmava parecchio.

terrorismo

Il problema principale di questi dibattiti è la terminologia. Se tutti i relatori che vi mostro nella foto, parlano di estremismo, qualcuno di ISIS, qualcun’altro di Al Qaeda, dell’11/9 o di un gruppo affiliato dell’ISIS nelle Filippine, ebbene allora si discuterà di terrorismo internazionale. Di quei gruppi che hanno una natura transnazionale. Quindi il generico titolo “il terrorismo nega Dio” non è appropriato. La circostanza che non esista una definizione condivisa a livello internazionale di terrorismo, come vi ho già detto altre volte, è un enorme problema, soprattutto quando poi Kulkarni dice: “non esiste pace senza giustizia e non c’è giustizia senza pace“. Bello slogan, ma poi nei fatti, purtroppo resta solo uno slogan, proprio per la difficoltà di poter condannare, punire un gruppo perché di natura terroristica transnazionale.

Quando Karman asserisce: “il terrorismo è il risultato delle dittature“, beh ho dei problemi a comprendere. Ed allora mi chiedo cosa vuol dire questa frase? Il terrorismo internazionale non ha una singola e precisa causa e dunque non è possibile affermare con assoluta certezza che esista una causa ed una sola. Pur nel rispetto del suo premio nobel per la pace del 2011, mi chiedo quale sia il ragionamento che l’ha portata a questa affermazione. Proseguendo aggiunge che il portatore del terrorismo è anche la mancanza di riforme.

Qui, il mio primo spunto di riflessione: se confondiamo terrorismo internazionale con forme di stato, insieme a possibile soluzioni riformiste senza una precisata direzione, cosa stiamo dicendo a chi ascolta?

Il mio secondo spunto di riflessione arriva da Muaammar, il quale propone come soluzione il dialogo tra i religiosi e i politici.

Mi chiedo: “il fenomeno del terrorismo internazionale si ferma se mettiamo attorno ad un tavolo religiosi e politici a parlare?” e, poi… “di cosa esattamente dovrebbero parlare?”.

L’intervento che invece ho trovato più interessante è stato quello di Onaiyehan, più che altro perché l’unico focalizzato sul titolo dell’incontro. Riporta le parole del papa il quale asserisce che uccidere nel nome di Dio è blasfemia, un atto satanico. Dall’altra parte ricorda che molto spesso si fa finta di dimenticare le “guerre sante”, pagine buie della cristianità.

Mi ha dato un altro spunto di riflessione con questo esempio. Dopo gli attentati in Europa ci sono stati una serie di bombardamenti in rappresaglia in Siria con moltissime vittime civili. Non è anche questo negare Dio, uccidere innocenti? Non è forse un modo per sviluppare il terrorismo internazionale piuttosto che frenarlo?

Le mie riflessioni sono piuttosto critiche, in primis con la Chiesa Cristiana Cattolica alla quale appartengo. Questi incontri pur essendo un momento di riflessione, di dialogo, mi sembra restino sempre un po’ confinati nelle mura dell’ipocrisia. Ho avuto l’impressione che fosse poco più di una sfilata di personaggi che ripetono slogan. 

Quando si chiede ai leader religiosi musulmani di condannare il terrorismo internazionale religioso islamico, si dimentica che nessuno ha mai condannato i movimenti estremisti cattolici o protestanti. Il terrorismo internazionale nega Dio, nel senso che nega qualsiasi entità che predichi l’uguaglianza della diversità, la bellezza della condivisione con chi professa un’altra religione, il rispetto altrui. Il diritto alla vita, la dignità di ogni persona in quanto e in primis come Figlio di Dio. Dio come entità superiore che poi ognuno è libero di chiamare come vuole, nella libertà che Lui stesso ci ha donato.

Probabilmente è più utile pregare perchè ci si rispetti di più nella nostra diversità, piuttosto che dire preghiamo per la pace: ma chi prega per la guerra me lo dite?

Il terrorismo internazionale di natura religiosa non è solo della religione islamica! E’ triste doverlo ancora ripetere nel 2016, fa forse più comodo trovare un capro espiatorio piuttosto che soluzioni. Non credo che sia utile, risolutivo, dire “la mia religione è migliore della tua”, sarebbe forse e dico forse più significativo chiedere conto a quel governo del perché arma i movimenti estremisti in quel paese o del perché pensa che bombardare tutto sia la soluzione. Forse è l’autocritica che manca anche a noi cattolici.

 

Settembre 3 2016

Zawahiri: cogito ergo sum.

Zawahiri

Zawahiri c’è! E con lui anche Al Qaeda, malgrado molti l’abbiano dimenticata, forse pensando che si sarebbe disintegrata per lasciare il passo allo “Stato islamico”. I nuovi messaggi di Zawahiri ci raccontano cosa pensa l’ “altra metà del cielo del jihad”.

Sebbene alcuni pensassero che Al Qaeda (AQ) sarebbe letteralmente implosa dopo la morte di Bin Laden, Ayman al-Zawahiri è riuscito a tenerla insieme e in qualche maniera ha migliorato la sua posizione, malgrado la campagna di contro-terrorismo condotta incessantemente dagli Stati Uniti.

Dopo un lungo periodo di silenzio, talmente lungo che qualcuno ha addirittura pensato che Zawahiri fosse morto, nel gennaio del 2016 vengono diffusi dei nuovi messaggi di AQ. Prima però di dare un’occhiata veloce al contenuto, poniamoci questa domanda:

ZAWAHIRI è CAPACE A COMANDARE AL QAEDA?

Ayman al-Zawahiri nasce nell’élite egiziana, da padre medico, uno zio Grand Imam di al-Azhar (il centro di studi islamico in Egitto), il nonno materno presidente dell’Università del Cairo. In un tempo in cui molti dell’élite egiziana abbracciavano una identità più secolare, la famiglia di Ayman rimaneva una famiglia di pii musulmani. Ayman era uno studente brillante ma anche disinteressato a proseguire la tradizione di famiglia e diventare un dottore. Si fa coinvolgere subito dalla politica e forma la sua prima cellula rivoluzionaria all’età di 15 anni. Ispirato dall’esecuzione di Sayyd Qutb, Zawahiri si unisce ad altri giovani egiziani radicali che volevano far diventare il paese uno Stato islamico, critici dell’accordo con Israele del presidente egiziano Sadat formano l’Egyptian Islamic Jihad (EIJ). I membri di questo gruppo assassinarono Sadat nel 1981, provocando non solo una massiccia repressione ma anche l’arresto di Zawahiri stesso. Ayman fu torturato in prigione e svelò informazioni sui suoi compagni.

Per molti anni Zawahiri si focalizzò sul rovesciare il governo egiziano, appariva come il più improbabile leader di AQ. Nel 1993 dichiarò che l’obiettivo primario del gruppo era quello di stabilire uno Stato islamico in Egitto, asserendo che le finalità di EIJ si concentravano essenzialmente sul nemico vicino: i regimi apostati del Medio Oriente, e non sul nemico “lontano”: gli Stati Uniti. Avendo visto come gruppi egiziani ripetutamente fallivano nell’orchestrare un coup, scatenare una rivoluzione popolare o creare un gruppo rivoluzionario, Zawahiri sviluppa una sorta di sacro rispetto per la segretezza, la pianificazione e l’addestramento considerandole come le chiavi per il successo.

Attraverso AQ, EIJ otteneva l’accesso al denaro di Bin Laden e ai campi di addestramento, soprattutto ai cosiddetti safe heaven.

Quando EIJ si trovò sotto forte attacco da parte del governo egiziano, per Zawahiri diventò difficile pagare gli operativi, prendersi cura delle loro famiglie o più generalmente sostenere il gruppo. Coltivare legami con Bin Laden permetteva alla sua organizzazione di vivere e combattere ancora. Quando EIJ sembrava sbiadirsi, Zawahiri si associò sempre di più con AQ, prima come scusa per sfruttare Bin Laden poi per necessità e infine per convinzione. Un jihadista egiziano riporta che Bin Laden sostenne che gli attacchi in Egitto erano troppo costosi in termini di vite, di denaro e che Zawahiri avrebbe dovuto rivolgere le armi della sua organizzazione sugli Stati Uniti ed Israele. Nel corso del tempo Zawahiri abbracciò questo tipo di ragionamento. Parte di questo cambiamento potrebbe essere stato determinato da un mutamento ideologico genuino, ma il collasso degli sforzi in Egitto, unitamente all’aggressiva assistenza americana per distruggere la rete EIJ al di fuori dell’Egitto, spingono Zawahiri a cambiare l’obiettivo della sua vita. Così nel 1998 EIJ si allea con AQ, cambia le finalità organizzative per accordarle con quelli di Bin Laden e interrompe tutti gli attacchi in Egitto, nel 2001 formalmente i due gruppi si uniscono.

QUAL è LA DIFFERENZA CON BIN LADEN?

Al contrario di Bin Laden, Zawahiri non è carismatico. Nella sua persona e nella retorica che utilizza è più “laborioso” che stimolante. Non ha neppure la stessa storia personale di Bin Laden per ispirare altri. Sebbene sia rispettato per la sua dedizione al jihad, non ha direttamente combattuto i sovietici ed il suo tradimento per altri membri del EIJ (sotto tortura) diminuisce ulteriormente ogni tentativo di coltivare il mito dell’eroe. Sebbene sia differente nello stile rispetto a Bin Laden, condivide il suo pragmatismo. Più pedante e dogmatico dell’ex leader di AQ, Zawahiri ha ripetutamente mostrato che può imparare dai suoi errori e si è dimostrato capace di lavorare con gruppi che non sono ideologicamente alleati.

Cogito ergo sum. Il pensiero di Zawahiri attraverso i suoi video messaggi.

Gennaio 2016: quello che potremmo chiamare l’ufficio stampa di AQ: Sahab, diffonde tre nuovi messaggi di Ayman al Zawahiri: due messaggi audio e una dichiarazione di 7 pagine.

Nel primo messaggio audio, di 7 minuti, dal titolo: “Al Saud, assassini dei mujahideen”, Zawahiri incoraggia il popolo saudita ad insorgere contro la monarchia e critica il governo saudita per l’esecuzione di più di 40 prigionieri agli inizi del mese di gennaio. Il leader di Al Qaeda asserisce che l’uccisione di più di 40 mujahideen e del prominente religioso sciita Nimr al Nimr è stata eseguita per servire gli interessi degli Stati Uniti e dei “crociati”. Il messaggio di Zawahiri è preceduto dal filmato di una riflessione di Anwar al Awalaki, un ideologo di Al Qaeda nella penisola arabica che fu ucciso da un drone americano nel 2011. Il video serve ad enfatizzare l’importanza del martirio sulla scia delle esecuzioni del governo saudita. Awlaki afferma: “il martirio è come un albero, frutti crescono e maturano e poi arriva il tempo per raccogliere questi frutti. Questo accade in stagioni specifiche. E’ cosi che gli schiavi di Allah passano attraverso stadi fino a quando raggiungono la fase in cui è tempo per loro diventare martiri”.

Il video si conclude con un’ultima frase di Awlaki: “perciò l’albero del martirio nella Penisola Arabica ha già frutti maturi su di esso ed il tempo per raccoglierli è venuto, così l’Onnipotente Allah prenderà da questi martiri”. Queste parole, anche se sono state utilizzate in precedenza, servono a spiegare il presunto valore dei martiri di Al Qaeda.

Il secondo messaggio audio è l’episodio 8 della serie di Al Qaeda “Primavera islamica”, lungo più di 24 minuti. Zawahiri si concentra fondamentalmente sul Sud Est Asia, specialmente l’Indonesia, Malesia e le Filippine. Statuisce che la regione ha bisogno di un risveglio jihadista come le altre parti del mondo. Il messaggio si apre con un video di un’intervista rilasciata alla CNN di Amrozi Nurhasyim, indonesiano imprigionato e giustiziato per il suo ruolo negli attentati di Bali nel 2002 in cui furono uccise 202 persone di cui 88 turisti australiani. La fine del video ritrae gli autori dell’attacco a Bali e Abu Bakar Bashir, un religioso radicale jihadista.

La terza dichiarazione include la condanna scritta di Zawahiri dell’Arabia Saudita per il suo ruolo nella guerra siriana.

L’ultimo messaggio viene diffuso da Sahab il 25 agosto; è il terzo episodio della serie: “brevi messaggi per una Ummah vittoriosa”. Nel primo episodio della nuova serie Zawahiri maledice i Fratelli Musulmani egiziani, nel secondo chiama i musulmani al supporto dei talebani afghani e respinge la recente presenza dello “stato islamico” in Afghanistan. Nell’episodio: “Abbiate timore di Allah in Iraq”. Il leader di AQ si aspetta chiaramente che lo “Stato islamico” continui a perdere terreno, argomentando che i sunniti dell’Iraq dovrebbero riorganizzarsi per una guerriglia protratta allo scopo di sconfiggere l’occupazione iraniana delle regioni, cosa che hanno già fatto in precedenza.

Le critiche di Zawahiri sull’approccio dello “Stato islamico” nel dichiarare il jihad in Iraq durano in tutto 4 minuti. Ayman sottolinea come AQ e lo “Stato islamico” abbiano sviluppato strategie molto differenti nell’intraprendere il jihad. Dove AQ vuole essere vista come una forza popolare rivoluzionaria, servendo gli interessi dei musulmani, lo “Stato islamico” si propone come un regime autoritario che cerca apertamente di imporre il suo volere alla popolazione.

I leader di AQ ritengono che la metodologia dello “Stato islamico” nel portare avanti il jihad aliena le popolazioni musulmane, situazione che facilita i nemici nel distruggere i sunniti.

Zawahiri ritiene che gli jihadisti in Iraq debbano rivedere le proprie esperienze per evitare di commettere gli errori che li hanno portati alla separazione dalla comunità islamica. Questi errori hanno portato i jihadisti a cadere negli abissi dell’estremismo e del “takir” (la pratica di dichiarare altri musulmani come non credenti)”.

Zawahiri afferma che “la battaglia è una”

Il leader di AQ collega il jihad in Iraq con quello in Siria rilevando che i mercenari e le milizie appoggiate dall’Iran combattono in entrambi i paesi. Afferma, inoltre, che l’Iran e i suoi alleati cercano di annientare i sunniti in tutto il Medio Oriente. Sostiene che i sunniti sono stati torturati e decapitati in Iraq con il pretesto di combattere lo “Stato islamico” di Baghdadi, ma la vera ragione è da ritrovarsi nell’espansionismo dell’Iran.

Zawahiri afferma che gli iraniani e gli americani hanno raggiunto un accordo che permetterebbe alla “coalizione crociata-iraniana-alawita (l’alleanza occidentale, l’Iran e le forze del regime di Assad) di inghiottire l’intera regione.

Sebbene Sahab abbia sofferto di ritardi nella produzione dei comunicati negli ultimi due anni, la recente diffusione di tre episodi della serie di Zawahiri: “brevi messaggi per una vittoriosa Ummah”, indica che l’apparato ufficiale di comunicazione della leadership di AQ è tornato in pista, in grado di diffondere regolarmente contenuti.

 

Marzo 17 2016

Tunisia: preoccupati della sicurezza interna

Tunisia

La Tunisia non dovrebbe negare a sé stessa i problemi di sicurezza interna e concentrarsi sulle regioni del sud, possibile fucina di estremisti.

Ricordiamo gli scontri nella città tunisina di Ben Guerdane di qualche settimana fa quando sono stati attaccati posti militari e di polizia. Civili uccisi, 13 ufficiali di sicurezza e 46 estremisti morti. L’assalto, accaduto a circa 32 km dalla frontiera con la Libia è l’ultimo esempio di una pericolosa ricaduta del conflitto libico attraverso una frontiera porosa. L’attacco rivela che anche se lo stato islamico prende piede in Libia, la più significativa minaccia alla sicurezza tunisina risiede all’interno delle sue frontiere. Questo perché i militanti che hanno rivendicato la presa della città come “liberatori” avevano accento locale, secondo i residenti, aumentando i timori che cellule non identificante “dormienti” siano aumentate. I funzionari tunisini hanno ammesso che nessuno dei perpetuatori dell’attacco a Ben Guerdane aveva attraversato la frontiera dalla Libia, piuttosto erano tunisini che vivevano in Tunisia. 

Tunisia maggior esportatore di foreign fighters

La lodevole transizione della Tunisia verso la democrazia dopo il 2011 è stata rovinata da episodi di violenza con picchi nel 2015 con un’ondata di attacchi terroristici, incluso quelli diretti contro il settore del turismo in una già fragile economia. La Tunisia è anche diventata il maggior esportatore di foreign fighters per lo stato islamico e altri gruppi estremisti in Siria.
La Tunisia si affida al contro – terrorismo convenzionale e a tattiche di guerra, andandoci con la mano pesante in assalti su scala militare. La strategia tende ad aumentare l’ostilità e ad alimentare la narrativa anti – statale, perpetrando il problema.
La Tunisia sta facendo il classico errore di rifiutarsi di riconoscere che focalizzandosi su un incidente isolato, si negano le linee che guidano le azioni sistematiche verso la radicalizzazione.
La frustrazione di molti tunisini discende dalle prestazioni governative inefficienti nell’incrementare l’occupazione e dalla gestione dell’economia, particolarmente nelle regioni più povere che sono state il punto focale delle proteste che poi portarono alla caduta di Bel Ali. A gennaio ci sono state delle manifestazioni per la disoccupazione nella provincia di Kasserine che si sono allargate fino alla capitale, Tunisi. Le manifestazioni che durarono per settimane furono spente con la mano mortale della polizia. Sebbene sia difficile identificare gli esatti fattori chiave della radicalizzazione, i tunisini marginalizzati, frustrati da una persistente povertà e un apparente governo inefficace, vedono gruppi come lo stato islamico come una risposta alle loro lamentele.

Tunisia + problematiche sociali irrisolte = risposta aggressiva all’estremismo religioso

Invece di avere come obiettivo le problematiche sociali che aiutano a nutrire l’estremismo a casa, la Tunisia ha adottato una risposta aggressiva di contro- terrorismo in risposta a minacce domestiche – interrogando o mettendo sospetti terroristi agli arresti domiciliari e istituendo un divieto di viaggio che ha impedito a centinaia di tunisini, particolarmente i giovani, dal lasciare il paese. Misure che erano tipiche del regime di Ben Ali.

Costruire una recinzione (con i buchi) non è la panacea per tutti i problemi

Tunisia

Con il supporto statunitense ed europeo, la Tunisia ha completato la recinzione lungo la frontiera con la Libia, costruzione iniziata dopo l’attacco al resort di Sousse. (la stessa Europa che si stupisce perché i suoi stati membri costruiscono recinzioni, finanza la costruzione di recinzioni fuori dalle sue frontiere. Evidentemente è nel filo spinato che si intravedono le soluzioni europee a qualsiasi problema).

Mentre il ministro della difesa tunisino si è detto entusiasta del successo della recinzione, dicendo di aver sequestrato ingenti somme di materiale illegale tra dicembre 2015 e gennaio 2016, la recinzione non è una panacea per i problemi di sicurezza tunisini. Essa copre solo metà della frontiera ed appare più come una trincea; inoltre si parla dell’esistenza di buchi costruiti sulla recinzione per mantenere le rotte di traffici illegali così come frequenti furti delle guardie di frontiera. Molte delle città tunisine di frontiera dipendono dai traffici illegali per sopravvivere economicamente. Mentre beni illeciti (droga, armi e persone) dovrebbero essere prevenuti in entrata, la Tunisia dovrebbe trovare una via per replicare il commercio frontaliero di beni non illeciti.
Sicuramente la roccaforte dello stato islamico a Sirte è una minaccia per la Tunisia, è importante non dimenticare che gli estremisti che conducono attacchi sul territorio tunisino sono quasi esclusivamente tunisini non libici. Si è notato che i tunisini iniziano a ricoprire alte posizioni all’interno dello stato islamico in Libia e che la sua base a Sirte ha incoraggiato alcune migliaia di tunisini che hanno viaggiato verso l’Iraq e la Siria a ritornare nel Nord Africa, ponendo una maggiore, diretta, minaccia alla Tunisia.

Continuare a negare il problema interno alla Tunisia, le difficoltà economiche, particolarmente nelle regioni del sud, la disoccupazione giovanile non farà altro che alimentare la retorica di reclutamento di organizzazioni estremiste come lo stato islamico. Non è colpa della Libia se estremisti, cittadini tunisini, conducono attacchi nel loro paese!

Dicembre 16 2015

Come riconoscere una strategia efficace contro l’ISIS

Strategia efficace

Una strategia efficace contro l’ISIS: come riconoscerla in 5 punti.

In Italia sentiamo dichiarazioni come queste: “no intervento senza strategia“, oppure: “la cultura è la risposta al terrorismo“. Nel nostro paese, nessuno si sbilancia a mettere nero su bianco una strategia efficace e con un chiaro obiettivo finale, per combattere l’ ISIS. Il ministro della difesa ci ripete come una poesia imparata a memoria: “l’Italia addestra i peshmerga e usa i droni“. Vorrei aprire una brevissima ed essenziale parentesi sul recente annuncio di Renzi: “450 militari italiani a difesa della diga di Mosul“. I 450 militari italiani aiuteranno un’impresa italiana, che si è aggiudicata l’appalto per la diga di Mosul, a proteggere l’infrastruttura. Mi pongo una domanda: se l’appalto per la diga l’avesse vinto un’impresa polacca, Renzi avrebbe mandato i nostri soldati a Mosul?”.

Il Presidente Obama dal canto suo e in maniera meno teatrale, burlesca del nostro premier,  insiste che la sua amministrazione ha una strategia effettiva basata su 4 componenti: attacchi aerei contro gli obiettivi dello stato islamico, supporto alle forze di sicurezza irachene e alle milizie irachene che combattono l’ISIS; miglioramento delle operazioni di contro – terrorismo e aiuti umanitari ai civili che sono scappati dal conflitto nell’est della Siria e nell’ovest dell’Iraq.

La verità è che questa potrebbe essere il contorno di una strategia, ma non una vera e propria strategia che includa tutti gli aspetti del problema, compresi i dettagli.

Allo stesso tempo, nessuno ha suggerito una strategia comprensiva alternativa; si fa affidamento sempre di più alle banalità e ad aforismi. Spesso i dibattiti più accesi raccomandano una più feroce aggressione senza spiegarne la finalità, i mezzi e il significato.
Il fallimento di sviluppare una strategia comprensiva contro l’ISIS è debilitante.

I 5 punti per riconoscere una strategia efficace

Prima di tutto, è necessario porsi questa domanda: “qual è l’obiettivo finale accettabile e fattibile?”. Sì, giacché un obiettivo finale, l’endstate,  deve essere sia accettabile che fattibile e i dettagli sono importanti. Il diavolo si nasconde nei dettagli! Non è abbastanza dire: l’obiettivo è di “sconfiggere” o “eradicare” lo stato islamico, una strategia coerente deve spiegarci cosa vuol dire: l’organizzazione non avrà più il controllo effettivo di qualsiasi porzione di territorio, cioè non sarà più un “califfato”? Resterà in vita nella forma di una rete terroristica sotterranea come ha operato tra il 2008 e il 2014? Oppure non ne rimarrà traccia in nessuna forma?

La fattibilità di un obiettivo finale strategico deve riflettere una seconda questione chiave: quali sono i costi strategici? Questi costi includono il denaro, le truppe, la perdita di focus da qualche altra parte. Incorrere in questo tipo di costi è accettabile? È di vitale importanza ricordare che ogni assetto strategico, che sia militare o di intelligence, devoluto al combattimento dello stato islamico non è utilizzato per altre situazioni che restano pressanti e importanti. Una strategia inclusiva, poi, deve spiegare se il conflitto con lo stato islamico giustifica lo spostamento di risorse dall’Asia, dall’Europa o da qualche altra parte e accettare che ci sia minor deterrenza in questi posti. Il conflitto con il gruppo legittima il crescente sforzo sulla componente militare (soprattutto in relazione agli Stati Uniti) con ulteriori impegni sul campo, posponendo l’addestramento e l’ammodernamento della forza?

Il terzo punto è: chi pagherà il conto? Le guerre non sono gratis. Non si può pensare che dispiegare delle forze sul campo, piuttosto che l’uso della componente marittima o dell’aviazione sia gratis, che ci sia un grande pozzo di denaro da dove si attingono queste risorse. Ritenere ingenuamente che gli aerei volino senza carburante che non si usurino, che le navi vadano a vapore. Tutti, in ogni paese del mondo evitano accuratamente di affrontare questa complessa faccenda. Una strategia coerente deve essere chiara sui finanziamenti: le tasse verranno innalzate? Questa guerra è importante a tal punto da aggiungerla al debito nazionale? Se la strategia è basata sull’ assunto che altre nazioni affronteranno porzioni dei costi, quali sono? Chi mette cosa? Dov’è il prospetto di ripartizione finanziaria dei costi?

La quarta questione è l’arco temporale della strategia. Se qualcuno ci dice teneramente: “eh ci vorrà molto tempo”, come il Presidente degli Stati Uniti, o peggio si ometta proprio di fornire un cronogramma, beh non stiamo parlando di strategia inclusiva. Una strategia coerente divide le azioni a breve, medio e lungo termine: dove sono queste ripartizioni?

Ultimo punto: i limiti.  Quali sono i limiti spaziali? Combatteranno lo stato islamico solo in Iraq e in Siria o anche in Libia, in Afghanistan in Yemen in Somalia in Nigeria ovvero ovunque?

L’esempio fallimentare della Francia

Diamo un’ occhiata ad una strategia fallimentare: la Francia nel Sahel. La punta di diamante della politica di sicurezza francese in Africa è l’Operazione Barkhane, una missione di combattimento di  anti – terrorismo. Si configura come l’attuale operazione militare francese più ampia, con circa 3,500 soldati stazionati in 5 paesi: Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania, Niger. L’operazione Barkhane ci dice chiaramente che Hollande ha posizionato la stabilità regionale in cima alle priorità di politica estera, disposto a mettere soldati francesi sul terreno e supportarli. In totale circa 8,000 soldati francesi sono stati impiegati in Africa.
Contrasto assoluto con la politica di Sarkozy che nel 2008 dichiarò che la Francia non deve giocare il ruolo di poliziotto in Africa e per questo motivo ridusse la presenza militare francese nel continente è s’impegnò a ridurre l’ intenso coinvolgimento nella politica di quei paesi.
Il collasso del governo del Mali nel 2012 precipita gli avvenimenti. Prima della guerra civile e dell’avvento dei gruppi estremisti islamici in Mali, gli interessi francesi nel continente giravano attorno ad affari economici, influenza politica e sicurezza energetica. Il Niger è la principale fonte di uranio per gli impianti nucleari della Francia. Ma con il collasso del Mali subito dopo la Libia, la Francia ha paura di un’implosione dell’intero continente che può quindi minare i suoi interessi diretti. Operation Serval che dispiegò 4,000 soldati francesi in Mali nel gennaio 2013 per cacciare i militanti islamici che avevano preso il controllo del nord del paese, inizialmente fu un successo, liberando tutto il territorio in mano ai gruppi estremisti. Tuttavia quando Serval si aggiunge al più ampio dispiegamento caratterizzato da Barkhane, getta le fondamenta per un’altissima presenza militare francese in tutta la regione. Il grande problema è che la Francia non ha una strategia di uscita nel Sahel. Il focus sul contro terrorismo ha messo le truppe francesi in prima linea nella battaglia sia contro gli estremisti sia contro le reti di traffici di armi e droga nella regione (per contro i militari statunitensi per la maggior parte si limitano all’ addestramento e all’ equipaggiamento delle forze locali, così come a fornire intelligence delle comunicazioni). Con l’esercito del Mali ancora nel caos e le forze governative in Niger ed in Ciad occupate dalla minaccia di Boko Haram ora affiliato e provincia dello stato islamico, sulle loro frontiere sud, i militari francesi hanno effettivamente preso il controllo delle remote frontiere del Sahel che legano la regione alle zone di guerra in Libia.
Tuttavia l’area di operazioni dei gruppi estremisti è aumentata nei recenti mesi con attacchi di alto profilo nella capitale del Mali, Bamako. Attacchi che hanno raggiunto la frontiera con la Costa d’Avorio nel sud.
Se, uccidere i sospettati di terrorismo potrebbe essere un veloce miglioramento che soddisfa gli strateghi militari e i portavoce di governo, l’approccio potrebbe rivelarsi fatale nel lungo termine.
L’ex diplomatico francese Laurent Bigor, scrivendo su Le monde, chiama l’operazione Barkhane una “licenza per uccidere nel Sahel” che minaccia di alienare la popolazione locale. I crimini come il traffico, che sono inestricabilmente connessi al terrorismo nel Sahel, sono anche semplicemente un’alternativa alle difficili condizioni socio – economiche. Le questioni di governance e corruzione non sono affrontate, perché la priorità è la risposta militare e di sicurezza.
“Prioritizzare” la sicurezza rispetto alle riforme presenta un enorme rischio, non da ultimo per i costi di questa nuova politica estera “muscolosa”. In risposta agli attacchi di Parigi, l’ operazione Sentinelle, il dispiegamento dei soldati francesi in Francia per la sicurezza nazionale è stato aumentato a 10,000 mentre l’aviazione militare francese ha espanso le sue operazioni in Iraq e in Siria. Fatti concreti che richiedono la sostenibilità dei costi.
Se questo modus operandi decadesse, sia perché la Francia non può più permetterselo oppure perché un’altra amministrazione ha altri interessi, il Sahel diventerà quello che la Francia voleva inizialmente prevenire: un assortimento di stati fragili dove gruppi estremisti e reti criminali possono cooperare liberamente, non molto lontano dall’ Europa.

Questo è appunto l’esempio di come quei 5 punti non sono stati per nulla tenuti in considerazione e come l’effetto di azioni non coerenti tra loro, parte di una strategia più ampia senza un chiaro obiettivo finale, possano causare dei danni molto più gravi e duraturi del problema iniziale.

Dicembre 11 2015

L’ Arabia Saudita tra petrolio e fondamentalismo islamico

Arabia Saudita

L’ Arabia Saudita ed il suo petrolio sono troppo importanti per gli Stati Uniti. La vendita di armi all’ Arabia Saudita ammonta a circa 1 miliardo di dollari al mese. L’unica monarchia assoluta al mondo che si muove sui dettami del fondamentalismo islamico.

Per molti anni, troppi, gli Stati Uniti ed in generale l’Occidente, hanno chiuso un occhio sul supporto ideologico e finanziario dell’Arabia Saudita ai gruppi estremisti di matrice islamica. Il petrolio era, ed è, troppo importante per l’economia globale, e non solo. Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute, gli Stati Uniti hanno esportato 934 milioni di dollari in armi all’Arabia Saudita dal 2005 al 2009. Dal 2010 al 2014 hanno esportato 2.4 miliardi di dollari in più. Questo mese hanno approvato un’altra spedizione di 1 miliardo di dollari. Gli Stati Uniti forniscono addestramento, condividono intelligence e danno supporto logistico all’apparato militare saudita.

La monarchia stringe un patto con il diavolo: Muhammad Ibn al – Wahhab

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Nel 1744 un predicatore itinerante chiamato Muhammad Ibn Abd al- Wahhab si unisce alle forze di coloro che crearono il primo regno saudita. Mentre i sauditi fornivano leadership militare e politica, Wahhab e i suoi discendenti fornirono legittimazione e leadership religiosa. Wahhab e i suoi discepoli praticavano una versione settaria e puritana dell’Islam sunnita che chiamava ad un ritorno al fondamentalismo letterale e intolleranza per ogni forma di deviazione dalla loro linea conservatrice di quello che costituiva l’originale fede del profeta Maometto.
L’attuale re Salman ha spostato il regno ancora più vicino, se possibile, all’establishment wahhabita. Salman, immediatamente dopo essere salito al trono, licenza l’unica donna ministro; l’inizio di una linea sempre più conservatrice.

L’Arabia Saudita e il supporto agli estremisti islamici

Sia il governo che individui all’interno dell’Arabia Saudita sono stati una delle maggiori fonti di supporto per gruppi estremisti internazionali ben prima dell’11 settembre 2001  ed hanno continuato nel corso degli anni. Si tende a dimenticare che molti degli attentatori dell’ 11 settembre venivano dall’ Arabia Saudita. Nel 2012, l’ambasciatore saudita in Pakistan ebbe contatti multi – livello con la rete Haqqani autrice degli attacchi del 2011 all’ ambasciata americana a Kabul. L’attuale re Salman, che era stato il governatore di Riyad, era incaricato di aumentare i finanziamenti privati per i mujahedeen dalla famiglia reale e da altri sauditi facoltosi. Incanalò decine di milioni di dollari ai mujahedeen e più tardi fece lo stesso per le cause dei musulmani in Bosnia ed in Palestina.
Questo supporto per il fondamentalismo islamico all’estero non dovrebbe sorprenderci più di tanto  dato che lo stato islamico abbraccia nella sua ideologia gli elementi chiave della setta estremista wahhabita sponsorizzata dall’Arabia saudita. La monarchia saudita ha speso più di 10 miliardi di dollari per promuovere il wahhabismo nel mondo attraverso organizzazioni caritatevoli come il World Assembly of Muslim Youth. 

L’uomo “americano” al potere: Muhammad Bin Nayef (MBN)

Principe ereditario ed erede al trono di re (il secondo in linea al trono).Studia all’FBI verso la fine degli anni ottanta e all’istituto di antiterrorismo di Scotland Yard dal 1992 al 1994. Tra il 2006 ed il 2009 l’ Arabia Saudita diventa un vero e proprio campo di battaglia giacchè Al Qaeda attacca obiettivi nel regno, incluso il quartier generale del ministero dell’interno a Riyadh. MBN lancia la controffensiva: il ministero dell’interno divulga una lista dei most wanted di Al Qaeda e poi procede alla loro caccia per poi ammazzarli. Le sue operazioni erano estremamente precise e senza vittime civili. MBN diventa il simbolo del regno contro il terrorismo, apparendo continuamente in tv.
MBN sembra essere il principe più pro – americano ad essere in linea per il trono. E’ probabilmente l’ufficiale di intelligence più capace nel mondo arabo oggi. Tuttavia Washington non si deve fare illusioni sul fatto che MBN possa prendere da conto il consiglio occidentale di riformare il regno. I sauditi aiutarono ad organizzare il colpo di stato del 2013 in Egitto e ripristinarono il regime militare nel paese arabo più grande.

Il futuro dell’Arabia Saudita

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L’Arabia Saudita è l’ultima monarchia assoluta che per questo riveste un enorme significato da un punto di vista geopolitico.

La famiglia reale non perderà il controllo della nazione, neppure perderà i suoi legami con i wahhabiti e il loro credo. Il re Salman, il principe ereditario MBN e il vice principe ereditario Muhammed bin Salman e virtualmente il resto dell’establishment saudita credono fermamente di essere sopravvissuti per due secoli e mezzo nella politica confusa del Medio Oriente non per la loro determinazione nel rimanere una monarchia assoluta, ma perché alleati con i religiosi wahhabiti.  Alcuni funzionari occidentali sostengono di imporre all’Arabia Saudita delle sanzioni per fermare il finanziamento ai gruppi estremisti di matrice islamica. Pur tuttavia ritengo che imporre un embargo sulle esportazioni di petrolio saudite come quello imposto all’Iran per il suo programma nucleare avrà sicuramente un effetto drammatico sul prezzo globale del petrolio almeno nel breve periodo.

Dicembre 3 2015

La Gran Bretagna, i bombardamenti illegali in Siria e l’ordine internazionale

Gran Bretagna

L’ordine internazionale si mantiene con le regole che gli stessi stati hanno stabilito anche attraverso la carta Nazioni Unite. Far diventare il mondo il Far West nuoce soprattutto ai cittadini.

Forse l’attimo di una telefonata, neanche il tempo di uscire dall’aula del parlamento inglese, che i tornado della RAF si sono alzati in volo dalla base aerea a Cipro per ottemperare alla decisione della Gran Bretagna: bombardare la Siria. Gli attacchi avevano come obiettivi i giacimenti petroliferi di Omar in mano all’ISIS nell’ est della Siria.

Le armi della Gran Bretagna

I tornado inglesi sono equipaggiati con quelle che vengono chiamate le Paveway bomb. I tornado della RAF posso portare fino a 5 Paveway IV bomb. Sono moderne e accurate munizioni che comunemente vengono usate contro obiettivi statici. I tornado hanno anche i missili Brimston che hanno un radar e un laser guida con due testate che possono essere usate contro veicoli e obiettivi multipli. Sono conosciuti come “scarica e dimentica”. La Gran Bretagna attraverso il suo ministero della difesa ha dichiarato che 93 missili Brimstone, ognuno dei quali costa più di 100,000 sterline, sono stati usati da gennaio a settembre nelle operazioni militari in Iraq.

Il dibattito nell’ House of Commons

Nel dibattito durato una decina di ore i parlamentari inglesi hanno anche sollevato la legalità di questi bombardamenti dal punto di visto di diritto internazionale. Soprattutto alla luce dell’ultima risoluzione del consiglio di sicurezza: UNSC n. 2249.
Cameron, nel suo discorso, argumenta che gli attacchi contro le forze dell’ISIS in Siria sarebbero un esercizio di legittima difesa indivuale e collettiva (facendo finta di niente sul punto che comunque c’è bisogno dell’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza). Egli fa leva su aspetti della risoluzione 2249 quali la circostanza che la risoluzione sia stata adottata unanimemente dal Consiglio di Sicurezza (e quindi?) e cita il passaggio in cui si richiamano gli stati a “take all necessary measures” per eradicare i safe heaven dell’ISIS e restringere le loro attività. Camoron prosegue dicendo che la risoluzione asserisce che l’ISIS è: “unprecedented threat to international peace and security”. (ancora: e quindi?)
Ascoltando solo Cameron, uno potrebbe avere l’impressione che un Consiglio di Sicurezza quanto mai unito ha autorizzato carta bianca per attaccare le forze ISIS in Siria.
Non è così. La risoluzione 2249 non autorizza chiaramente ed inequivocabilmente all’uso della forza armata in Siria.

Le regole stabilite dalla Carta ONU

Partiamo innanzitutto dal fatto che l’art. 2, 4 della Carta delle Nazioni Unite, che vieta l’uso della forza, corrisponde al diritto internazionale generale, valevole quindi per tutti gli stati e non solo per i membri delle Nazioni Unite, appartenente allo jus cogens e contemplante un obbligo erga omnes. La carta delle Nazioni Unite contiene due espresse eccezioni: a) l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza in ottemperanza agli articoli 39 e 42 e, b) legittima difesa, con l’art. 51, che deve avere i requisiti di proporzionalità, necessità e immediatezza.
Un’eccezione extra carta Onu all’uso della forza in uno stato sovrano è quella che deriva dal consenso dello stato, un esplicito consenso a che la comunità internazionale aiuti lo stato nell’eradicazione della minaccia. Cosa avvenuta in Iraq. Il consenso dell’Iraq all’uso della forza da parte di altri stati sul suo territorio è espressamente dichiarata in una lettera datata 20 settembre 2014 dal governo iracheno indirizzata al presidente del Consiglio di Sicurezza. In questo caso lo stato che non è in grado di controllare il proprio territorio chiede assistenza alla comunità internazionale.  Di contro, Assad  ha inviato due lettere, la prima datata 16/9/2015 e l’altra 17/9/2015 in cui contesta l’interpretazione dell’art. 51 ONU da parte degli stati che intervenivano. Nella seconda lettera ufficialmente avverte che “se qualsiasi stato invoca la scusa del counter – terrorism per essere presente sul territorio sovrano siriano, sia terra, aria e acque territoriali, le sue azioni devono essere considerate una violazione della sovranità siriana”. La Russia è stata invitata da Assad nell’eradicazione dell’ISIS, pertanto legittimata dal consenso dello stato territoriale.

La risoluzione n.2249

Al punto 5, chiama tutti i membri, che hanno la capacità di farlo, a prendere tutte le misure necessarie, in ottemperanza al diritto internazionale, alla Carta delle Nazioni Unite, al diritto internazionale dei diritti umani, al diritto internazionale umanitario. Autorizza le misure lecite che potrebbero essere adottate senza rendere lecite quelle che non lo sarebbero. La risoluzione 2249 non fa riferimento al Capitolo VII della Carta ONU che disciplina il sistema di sicurezza collettiva delle Nazioni Unite insieme al Capitolo VIII. Per intenderci il Capitolo VII all’ art. 39 regola le raccomandazioni; art. 40 misure provvisorie; art. 41 misure non implicanti l’uso della forza; art. 42 misure implicanti l’uso della forza.

Quando si parla di questa risoluzione NESSUNO legge cosa c’è scritto dopo il punto 5 e cioè  che la situazione in Siria continuerà a deteriorare ulteriormente in assenza di una soluzione politica al conflitto siriano ed enfatizza la necessità di implementare l’annesso II alla risoluzione 2118 (2013) – principi concordati e linee guida per una transizione a guida siriana. Il punto 9 ha come titolo: “Passi chiari nella transizione”.
a) Stabilire un ente/organo di transizione che può stabilire un ambiente neutrale in cui la transizione possa avere luogo. L’organo/ente di transizione deve esercitare pieni poteri esecutivi. Potrebbe includere membri del governo presente, l’opposizione e altri gruppi, ma che sia formato su base di mutuo consenso
b) Tutti i gruppi e segmenti della società devono partecipare al processo di dialogo nazionale
c) Su queste basi ci potrebbe essere una revisione dell’ordine costituzionale e del sistema legale. Il risultato della bozza costituzionale sarebbe soggetto ad approvazione popolare.

Ignorare le regole è pericoloso

Lo scopo del diritto internazionale è quello di rendere possibile la convivenza di tutti gli esseri umani e le comunità in un mondo privo di un’autorità universale. Ignorare questo vuol dire scavalcare le regole, vuol dire costruire un ponte verso il caos.

Gli stati esercitano, ciascuno, la propria autorità sugli individui che nel suo territorio, ed esiste un diritto che è comune a tutti gli stati: il diritto internazionale.

Tutti coloro che asseriscono senza ombra di dubbio che l’ONU sia inutile, che le regole siano inutili, evidentemente sono disposti ad andare in giro a farsi giustizia da soli. Molto probabilmente sono quelli che non rispettano le regole della vita quotidiana. Le azioni hanno delle conseguenze, non si può pensare che sia possibile agire unilateralmente senza peraltro una strategia a lungo termine, soltanto perché vittime della ricerca di consenso per le prossime elezioni.

La Gran Bretagna ha trovato la sua soluzione interna, almeno nel parlamento, leggendo la risoluzione 2249 come le faceva più comodo. Per la serie: “io ho bombardato il giacimento petrolifero dell’ISIS” e la mia coscienza è salva. Ahimè non risolverà la minaccia anzi avrà messo un mattoncino in più per il ponte verso il caos.

Dicembre 1 2015

Decidere come definire l’ISIS

isis

Stabilire come definire l’ISIS è di cruciale importanza per decidere come combatterlo.

Le discussioni sull’ISIS si sono concentrate su quello che non si sa: le oscure connessioni in occidente, la propaganda che, a parte l’ Al – Hayat media centre, si diffonde sui social network non si sa bene da dove. Tuttavia decidere come considerare l’ISIS è cruciale per poter poi definire una strategia efficace per combatterlo. Obama parla di una strategia che si può definire containment plus: contenere il gruppo in Siria ed in Iraq e accelerare la caduta con attacchi aerei costanti e il supporto degli alleati regionali. I critici, invece, propongono una serie di opzioni: a partire dal permettere alle forze locali di sconfiggere il gruppo, a rendere le regole d’ingaggio più “morbide”. Dispiegare una forza di terra per combattere che dovrebbe consistere in circa 50 mila uomini, di cui 20 mila sarebbero soltanto americani.

Qual’è la strategia giusta?

La risposta dipende in parte da che tipo di nemico noi pensiamo sia l’ISIS. E’ un gruppo terroristico transnazionale con enormi risorse finanziarie che controlla porzioni sostanziali di territorio, che pianifica attacchi, coordina e addestra operativi e gestisce una complessa rete finanziaria? Oppure è uno stato che sponsorizza attacchi di natura terroristica?

Se lo consideriamo come un’organizzazione terroristica transnazionale allora il “contenimento” è una strategia difficile, perché anche se contenuto, potrebbe continuare a sostenere attacchi in altre parti del mondo. Tuttavia, se lo vediamo come un proto – stato, allora la prospettiva cambia decisamente: un proto – stato che combatte su tre fronti: Iraq ad Est, curdi a Nord e Siria e altri altri gruppi di ribelli ad Ovest.

ISIS = proto stato

Il paradosso creato dallo “stato islamico” è che al suo interno si comporta come un proto – stato. Quello che potremmo definire “pro- stato” capitalizza le privazioni dei sunniti in Siria ed Iraq e cresce nel caos causato dalla guerra civile in Siria.
Il progetto politico di cambiamento sociale messo in atto dall’ ISIS, ha permesso di sostenere il proprio modello di governance e di espanderlo capitalizzando le privazioni dei sunniti in Iraq e Siria. Ha combinato l’amministrazione municipale (polizia, educazione, servizi) con la gestione delle infrastrutture e l’assistenza umanitaria.

Centrale per la governance dello “stato islamico” è l’implementazione di una stretta forma della legge della shari’a. Ciò include l’imposizione di pene fisse per una serie di crimini; imposizione della partecipazione alle 5 preghiere quotidiane; divieto di droghe, alcool e tabacco; controllo dell’abbigliamento e di come ci si presenta; divieto del gioco d’azzardo. Imposizione di una forma di “protezione” sui monoteisti non islamici, che è apparsa a Raqqa dalla fine del febbraio 2014 e Mosul dal 7 luglio 2014. Pagando la tassa fissa, attenendosi a delle rigide regole, inclusa la non costruzione di altre infrastrutture lavorative, rimozione di tutti i segni visibili di fede, non utilizzare armi, non vendere né consumare alcool o carne di maiale. Se non si sottostava a questo “patto di protezione” si doveva abbandonare la città in 48 ore. Nei riguardi delle religioni non monoteiste, lo “stato islamico” si è rivelato completamente irremovibile. Nell’ottobre del 2014 l’ISIS ha ammesso di aver etichettato gli Yazidi come politeisti e dunque satanisti che potevano quindi essere ridotti in schiavitù e le cui donne potevano diventare le concubine dei combattenti dello “stato islamico”.
Immediatamente dopo la cattura di un territorio, l’ISIS cerca di stabilire l’ordine e la legge. Forze di polizia maschili e femminili, vengono formate rapidamente e dispiegate per i controlli. La rapidità di una tale mobilitazione viene spesso facilitata da salari generosi. Si stabiliscono corti “della shari’a”.
Un altro elemento chiave della governance politico – religiosa dell’ISIS è l’educazione religiosa e il proselitismo.
Significative risorse sono destinate alla fornitura di servizi sociali. Dopo aver preso il controllo, nella municipalità conquistata, di industrie, servizi e strutture municipali, assicura quello che l’ISIS percepisce come una più egalitaria ed efficiente distribuzione dei servizi. Esercita autorità di controllo su elettricità, acqua, gas industrie locali e persino panetterie (a Deir Ezzor ha abbassato i prezzi del pane nel giugno del 2014). Bus gratis, sanità gratis, vaccinazioni gratis per i bambini, pasti per i poveri, scuole, mutui per progetti di costruzione e persino l’ufficio per la protezione del consumatore.
Come proto – stato è estremamente debole, geograficamente vulnerabile, con risorse non sostenibili a lungo termine e con gravi problemi sul supporto della popolazione.

Decidere di confrontarci con l’ISIS – proto stato –

Ci sono tre punti fondamentali da prendere in considerazione se si decide di confrontarsi con l’ISIS come proto – stato.

  1. Finanziamento
    Sentiamo parlare molto del flusso di denaro dell’ISIS, che è ingente per un gruppo terroristico transnazionale, ma minuscolo per uno Stato. Nei primi anni di esistenza dell’ISIS, i suoi ricavi per la vendita di petrolio erano un grande problema per tutti, recenti stime estrapolate da una provincia ci dicono che i ricavi sono di circa 500 milioni di dollari all’anno solo per il petrolio. Tuttavia l’estrazione del petrolio e del gas non sono una risorsa finanziaria sostenibile. La produzione di petrolio sta crollando perché il gruppo manca di ingegneri e a causa del bombardamento alle infrastrutture petrolifere. Inoltre, il petrolio che l’ISIL può vendere deve avere un prezzo estremamente scontato rispetto ai prezzi di mercato mondiali, a causa delle sanzioni (risoluzione Consiglio di sicurezza n.2199 – 2015: oil trade) e delle limitazioni fisiche per trasportare il prodotto al mercato mondiale.
    Una risorsa alternativa di finanziamento, oggetto di molta attenzione è stata il saccheggio delle antichità. Nel lungo termine il sostegno finanziario che ne deriva sarebbe limitato; nel breve termine, il gruppo ha riempito il mercato di oggetti antichi per aumentare il denaro contante, ma i prezzi cadranno a meno che la domanda per questo tipo di beni  sia molto elastica, circostanza che sembra improbabile.
    Dunque l’ISIS resta con quella che si è rivelata la sua principale fonte di guadagno: le tasse alla popolazione sotto il suo controllo e l’estorsione. Ma anche questo tipo di finanziamento è insostenibile visto che molti residenti scappano, portandosi via i loro capitali (sia capitale umano che fisico), l’inflazione erode il valore delle tasse e le persone esposte ad eccessiva tassazione smettono di investire in attività produttive.
  2. Popolazione
    Ci sono due fonti scientificamente valide le cui stime combinano i dati di censimento che le immagini del satellite per stimare i numeri di popolazione nel mondo. Dunque mappe e stime insieme ci suggeriscono che le aree che l’ISIS tassa avevano una popolazione pre – guerra tra i 2.8 milioni e i 5.3 milioni di persone. Tuttavia il gruppo ha sofferto di massicce partenze dai suoi territori, talmente tante che la sua propaganda ha attaccato coloro che lasciavano i suoi territori.

Inoltre, i diritti (umani soprattutto) non sono protetti, le regole cambiano costantemente. Ci sono molti rapporti che rivelano che il gruppo forza le persone a restare e ci sono significative tensioni tra i combattenti locali e i combattenti stranieri che ricevono un trattamento diverso, preferenziale.

Il gruppo, chiaramente chiama persone che si uniscano alla sua causa. Queste persone sono più una moltitudine di combattenti con poco addestramento, piuttosto che ingegneri, amministratori o imprenditori di cui un’economia avrebbe bisogno.

La competenza del pro – stato come regime

L’ISIS sarebbe condannato come stato. La storia moderna ci mostra che imprevedibili regimi autocratici soffrono sempre di economie terribili e di scarsa crescita. Ogni stato che nello scorso secolo ha avuto una governance basata sull’estorsione (alte e imprevedibili tasse amministrate da una leadership autocratica che redistribuisce i guadagni a coloro che fanno parte dell’elite del regime) ha visto  la sua economia, nel corso del tempo, sgretolarsi.

Le istituzioni di governo dell’ISIS sono pessime viste da una prospettiva di attività economica: pochi diritti di proprietà, tassazione imprevedibile, nessun investimento in capitale umano, nessun mercato di credito o assicurazioni. A meno che la leadership dell’ISIS non abbia pianificato una maniera radicale per gestire la produzione che nessun altro paese ha ideato, la loro economia produrrà molto poco.

E’ impossibile predire in quanto tempo l’economia del proto – stato crollerà. Tuttavia il suo crollo nel tempo è certo.

Il problema ha afflitto stati molto più legittimi dell’ISIS. Lo Zimbabwe: ricco, prima che le sue istituzioni di governo lo condannarono alla stagnazione e poi al declino. Stati come lo Zimbabwe non svaniscono, in parte perché sono parte del sistema globale che valuta la loro stabilità ed in ultima analisi li tengono in vita. L’ISIS non ha ancora questa salvezza.

Il beneficio ideologico di farlo crollare da solo.

Se permettiamo all’ISIS di fallire da solo, sarebbe chiaro che il fallimento sarebbe dell’ISIS come idea, come progetto politico. Non sarebbe lo stesso se fosse sconfitto dalla potenza militare occidentale. Viste i suoi punti deboli strutturali e il suo valore simbolico nella guerra delle idee, la miglior strategia potrebbe essere quella basata sul contenimento, facendo sì che proprio l’ideologia che motiva il gruppo lo distrugga dall’interno.

Riempire i vuoti di potere in Iraq e in Siria.

L’ISIS si è inserito come un serpente in Iraq, facendo leva sul malcontento dei sunniti, in Siria nel vuoto di potere causato dalla guerra civile. Promuovendo le già accordate misure degli accordi di Ginevra che fanno peraltro parte dell’annesso I alla risoluzione 2118 del Consiglio di Sicurezza reiterate nell’ultima risoluzione 2249 del 21 novembre 2015, quindi compiendo i passi necessari verso la transizione politica in Siria è molto più effettivo ed efficace che mandare 50 mila uomini e donne a distruggere il già distrutto.

Novembre 29 2015

Come affrontare una conversazione da bar sull’ ISIS

ISIS conversazione da bar

Le conversazioni da bar sull’ ISIS sono insidiose, è facile perdere ed essere costretti ad uscirne sconfitti. Ecco una breve guida per uscirne vincitori e farvi magari offrire un caffè.

L’ISIS è indubbiamente l’argomento di conversazione che va per la maggiore in questo periodo. Dopo gli attacchi di Parigi anche al bar, tra un cappuccino, un cornetto e il caffè ci si ferma a “sragionare” su chi sono questi assassini. Vi propongo una serie di affermazioni a cui potreste rispondere e uscire vincitori dalla conversazione.

“Riguarda l’Islam”

Sì. L’ISIS combatte per ristabilire il Califfato che aveva governato i territori del Medio Oriente e del Nord Africa fino al Medioevo. Maometto, il fondatore dell’Islam, e i 4 rightly guided Caliph poi, usarono la violenza per stabilire uno stato basato sulla religione. Il leader dell’ISIS, Abu Bakr al – Baghdadi, ha un dottorato in “Sharia Law” e studi coranici.

No. L’ISIS ha bruciato vivo un pilota musulmano e l’ha filmato. L’ISIS ha giustificato l’atto crudele asserendo che l’uomo era un apostata che meritava di essere bruciato perché gettava bombe sui musulmani. Le scritture islamiche espressamente dicono che gli apostati non devono essere bruciati vivi. L’ISIS ignora questo fatto e tutti quelli che limitano l’uso della violenza. L’ideologia su cui si basa l’ISIS appartiene alla corrente conservatrice all’interno dell’islam sunnita: contiene elementi sia di salafismo che di whhabismo. Correnti estremiste, conservatrici appartengono a tutte le religioni monoteistiche.

“Questi dell’ISIS sono dei pazzi assassini senza cervello”

Sì. Alcuni di coloro che combattono per l’ISIS sono degli assassini tout court. Cercano solo un’opportunità per vivere le loro fantasie più nere ed orrifiche.

No. La leadership dell’ISIS pensa attentamente alla sua strategia. Non si stabilisce un “proto – stato” e lo si fa sopravvivere a dispetto di nemici molto potenti solo per fortuna o per caso. Il manuale di strategia utilizzato dal gruppo “the management of savagery”, spiega come stabilire un califfato e assicurarne la sua sopravvivenza.

“La strategia contro l’ISIS sta funzionando?”

No. L’ISIS continua a mantenere il suo governo in Siria e in Iraq e continua ad essere un “proto – stato”.  Si è espanso al di là della Siria e dell’Iraq attraverso una rete di affiliazione, concepita come un vero e proprio arcipelago di province, nel Medio Oriente, in Africa e persino del Nord Caucaso. Ha addestrato operativi in Europa che potenzialmente possono costituire una grande minaccia.

Sì. Con la campagna di bombardamenti l’ISIS ha perso circa il 25% dei suoi territori, perso milioni di dollari di ricavi e decine di migliaia di soldati nell’ultimo anno. I bombardamenti a Raqqa, agli obiettivi logistici dell’ISIS, hanno fatto sì che il tempo che l’ISIS ricollochi la sua logistica possa essere utilizzato dalla coalizione per tracciare e seguire gli spostamenti dell’ISIS (tracciare quindi individui, proxy e flussi di denaro).

Questo non vuol dire che i bombardamenti siano una strategia efficace a lungo termine.

“I soldati neri possono infiltrarsi in occidente con i rifugiati siriani e condurre attacchi”

Sì. Qualcosa di simile è accaduto già, quando due uomini legati ad Al Qaeda in Iraq sono arrivati negli Stati Uniti come rifugiati dalla guerra in Iraq per procurarsi armi. Uno degli attentatori di Parigi potrebbe essere arrivato in Europa con un passaporto siriano falso.

No. Un’organizzazione come l’ISIS che guadagna circa 2 milioni di dollari al giorno, non farebbe rischiare ad uno dei suoi operativi la vita per infiltrarsi in Europa via barcone, rischiando peraltro la vita e quindi con la possibilità di non poter realizzare ciò per cui era stato mandato. In almeno 6 video messaggi distribuiti dalla leadership dell’ISIS attraverso le sue province si asserisce chiaramente che coloro che abbandonano la terra del Califfato con i barconi non sono dei devoti musulmani. I messaggi invitano inequivocabilmente a non abbandonare la loro terra per andare nella terra degli infedeli. Il problema semmai risiede in coloro che sono cittadini europei e che seguono le direttive dell’ISIS in merito alla Hijra (migrazione): coloro che sono impossibilitati al raggiungimento del Califfato possono restare in occidente e combattere i crociati lì.

Probabilmente molti di voi resteranno delusi perché ad ogni affermazione non c’è mai un solo sì o un solo no. Il fenomeno del terrorismo internazionale è complesso e quello dell’ISIS lo è ancora di più soprattutto per la particolarità di essere un “proto – stato” al suo interno ed un’organizzazione transnazionale terroristica nella sua proiezione esterna.